Internet: libertà e censura CGIL – Convegno promosso dall’Ufficio nuovi diritti

Intervento al convegno

 

“Internet: libertà e censura”

 

Internet e nuovi diritti

CGIL  – 22 luglio 1997

 

Bellucci: Vorrei partire dal fatto che la Cgil ha deciso di adottare un modello di comunicazione basato su quello che viene chiamato il paradigma Internet. Questo, almeno a me, sembra un passo importante e vorrei intervenire spiegandone il perché. In primo luogo vorrei dire che ritengo utile questa riunione ma che, contemporaneamente, ho anche una preoccupazione: che questo incontro si svolga su convocazione del solo dipartimento diritti di cultura e politica del terzo settore….

(voce del presidente fuori microfono): soltanto l’ufficio nuovi diritti

Bellucci: soltanto l’ufficio nuovi diritti. Allora, pane al pane e diamo il merito a chi ha voluto convocare questa riunione. Ecco, io credo che le cose di cui stiamo parlando oggi, non attengono esclusivamente ai diritti di cittadinanza, che sono stati qui illustrati di Giancarlo Livraghi, ma attengono a qualcosa di più profondo e forse anche di più “codificante” rispetto all’esposizione che ci è stata qui proposta. Credo cioè che il salto tecnologico – sul quale io non mi dilungo perché credo che non sia necessario fare qui l’analisi della qualità tecnologica della digitalizzazione – non riguarda soltanto gli aspetti comunicativi, così come li abbiamo sentiti qui questa mattina riferiti cioè ai diritti di cittadinanza, ma attiene a qualcosa di più complesso di più orizzontale e più trasversale della vita quotidiana: della sua produzione e della sua riproduzione sociale e della “realtà”. Siamo in presenza di una svolta tecnologica che attraverso la rete e la sua utilizzazione, moltiplica i suoi effetti, che si combina con una sua potenzialità quella definita dalla rottura delle strutture dei linguaggi precedenti (cioè della unilinarietà ed unidimensionalità del testo scritto) così come era stato codificato, in base alla tradizione orale, dall’invenzione della scrittura ed, in particolare dal modello di comunicazione alfabetico greco-romana. Una rottura dei linguaggi che, intrecciati ai processi di digitalizzazione, sta producendo delle trasformazioni- su questo sono d’accordo con Giancarlo Livraghi, che stanno dischiudendo l’alba di una nuova era verso la quale noi tutti possiamo approcciare esclusivamente come osservatori abbastanza piccoli e miopi. Questo intreccio tra la rottura dei linguaggi ed i processi di digitalizzazione, parla in maniera particolare, di un processo inestricabile che passa tra l’innovazione tecnologica e le modalità di produzione dei contenuti. Voi sapete perfettamente che la tecnologia condiziona enormemente il contenuto della comunicazione che si veicola perché, a seconda dello strumento tecnologico che io utilizzo, posso utilizzare alcune forme di espressione o posso non utilizzarle: pensate cosa sarebbe stato il cinema senza la possibilità di avere uno zoom un una macchina da presa o ad avere un carrello che faccia muovere la macchina, quindi a seconda della tecnologia che ho a disposizione ho una capacità di produzione, di contenuti che fanno esprimere determinate potenzialità di libertà comunicative. A questo meccanismo non sfugge nè il processo di digitalizzazione, quindi la produzione tout-court, nè può sfuggire la sua estinzione, per quella che conosciamo oggi, di comunicazione su rete che ha sul modello Internet, la sua più alta espressione. Io non sono un fautore della scuola di Francoforte ma già Adorno, a metà di questo secolo, affermava che i processi di autocensura al quale i creativi sono sottoposti, ormai fanno parlare di una sorta di omologazione imperante nella quale il linguaggio ed i contenuti si omologano agli interessi tecnologici e del mercato. Allora perché io sono preoccupato che la riunione sia stata convocata solo dall’ufficio nuovi diritti? Perché se questo è il punto – ed in casa Cgil questa cosa dovrebbe essere molto evidente – al quale tutti noi siamo davanti e vogliamo, così, parlare di rete e di Internet, alle soglie del terzo millennio, dovremmo fare un ragionamento analogo, (scusatemi la semplificazione dettata dal poco tempo a disposizione) e parlare della rete di Internet come nell’800 si parlava da una parte del telaio meccanico e dall’altra della teoria scientifica della fabbrica. La rete ed Internet sono da una parte il vecchio telaio meccanizzato e dall’altra il tentativo – in questa nuova grande discussione ipertestuale globale che sta avvenendo sulla rete delle reti –  di trovare una codifica per il funzionamento di questa rete che è funzionale ai meccanismi produttivi. Non siamo ancora, ovviamente, al testo definitivo, cioè il modello ancora non è affinato, però stiamo lavorando enormemente per questo. E allora, il sindacato dei lavoratori come può non interrogarsi, nel momento in cui si sta codificando un processo che determinerà, probabilmente, i modelli produttivi dei prossimi cento anni, come è stato per la codifica tayloristica della fabbrica fordista? Come può non domandarsi in che modo questo modello potrà cambiare gli aspetti del produrre attraverso la digitalizzazione? Vedete, libertà e censura viaggiano là. Non viaggiano sul fatto che viene vietato a qualcuno di mettere in rete qualche fotografia di bambino o qualche messaggio di tipo terroristico o di altra natura, perché questi, secondo me ci sono, ci saranno e forse non saranno neanche mai perseguiti fino in fondo. Non c’è interesse a fare questo. Quello che invece verrà fatto in maniera fortissima e con una capacità egemonica enorme, è quello di sperimentare, in qualche modo, modelli della rete che saranno funzionali sul piano tecnologico, cioè delle macchine che potremmo acquistare, e sul piano delle modalità comunicative, funzionali all’uso che il sistema produttivo farà della rete. Pensiamo soltanto a quello che è accaduto con la fabbrica fordista: noi, per avere un contro-progetto sperimentato, rispetto al modello organizzativo tayloristico, facciamo l’esempio italiano alle aree omogenee o qualunque altro esperimento tentato in qualche fabbrica dove siamo riusciti a conquistare degli spazi negli anni’60 e’70. Ci abbiamo impiegato 50-60 anni, abbiamo impiegato lotte e momenti di scontro enormi. Oggi ci troviamo in una fase nella quale la rete potrebbe essere ancora condizionata, nel suo divenire e nella sua formazione tayloristica da un intervento di tipo culturale, sindacale e politico. Su questo c’è un’arretratezza enorme dell’intervento. E se la fabbrica fordista, come diceva Gramsci, è il più grande sforzo di creazione dell’uomo nuovo, della fase nuova (e pensate a quanto la fabbrica fordista era, sul piano culturale, lontana da alcune capacità dirette d’incidere sulla produzione della cultura) qui stiamo parlando di una struttura che è a cavallo tra il modello della fabbrica del produrre beni materiali ed immateriali e la produzione culturale diretta. Quindi, stiamo parlando di una cosa che è quasi la stessa, identica e quindi con una capacità egemonica molto più alta. La maturazione culturale di cui parlava Giancarlo Livraghi, secondo me è molto più vicina alle potenzialità egemoniche del modo di produrre e di comunicare di quanto possa essere, in qualche modo, una volontà di diffondere la conoscenza tra i cittadini. Tanto è vero che la pressione per fare arrivare la rete delle reti dappertutto è enorme nel mondo e sfonda dove il modello di destrutturazione sociale è più alto, ed il grafico che ci ha fatto vedere Livraghi, in apertura, è assolutamente chiaro. Il modello Internet è il modello che sfonda esattamente dove si trova per prima la codifica commerciale dei mass-media. Tutti i mezzi di comunicazione che noi conosciamo – Livraghi ce ne potrebbe parlare lungamente – hanno trovato la loro codifica commerciale negli Stati Uniti. Cioè sono nati come strumento tecnologico e poi lì hanno trovato il loro equilibrio. Il quotidiano per come lo conosciamo, è diventato quotidiano lì sul quel mercato. La radio sempre per come noi la conosciamo, con il suoi palinsesti e le sue strutture, è anch’essa nata oltre oceano. Stessa cosa vale per la televisione e probabilmente anche il modello di comunicazione su rete, sta trovando la sua codifica commerciale negli Stati Uniti, che poi sarà imposta e sarà l’unico modello accettato, alla fine, da tutti. Infatti, sia la radio che la televisione potrebbero essere fatte in mille altri modi ma il modello che “ha vinto” è stato quello degli americani. Io credo che, in Cgil,  una riflessione di questa natura sia assolutamente fondamentale per dare strumenti dell’agire, non tanto per fare una riflessione puramente teorica, ma, bensì, dare i mezzi per l’azione. Infatti, la destrutturazione del modo di produrre sul modello Internet, le famose Intranet, stanno avanzando a macchia di leopardo, ma con una velocità incredibile. E se questo è il nuovo modello del paradigma del produrre che si andrà a determinare nei prossimi anni, la nostra concezione sindacale e politica che abbiamo avuto a sinistra salterà nel giro di pochissimo tempo e noi dobbiamo mettere non solo argini, ma saper interpretare questi processi per dare risposte in avanti. Quello che voglio evitare per quel che attiene a Rifondazione Comunista, non so la Cgil,  è che si pensi che questo tipo di sviluppo tecnologico lo si possa arginare, semplicemente,  mettendo qualche paletto con la semplice volontà del volerlo fare. Ecco, io questo non lo credo possibile e vincente. Credo, invece, alla capacità critica forte e di rilancio. Penso che se noi tutti fossimo in grado di fare quello che si fece, ad esempio alla fine dell’800 ed agli inizi del’900, quando cioè sul processo democratico, che si avviava in molti paesi, sulla richiesta dell’universalità per il diritto di voto e sulla possibilità di acculturazione,  si chiedeva la scuola pubblica e per tutti. Noi dobbiamo portare tutto questo all’estreme conseguenze. Infatti il modello della rete consente una orizzontalità gerarchica molto bassa, praticamente quasi nulla, e quindi una forte diffusione della struttura. Perché non pensare ad una forte azione di tipo sindacale per destrutturare le organizzazioni aziendali così come le conosciamo, proponendo dentro ai contratti nuovi modelli del controllo produttivo? Altrimenti, se non facciamo questo noi che siamo gli interpreti massimi di quello che può portare la rete e le nuove tecnologie come interpretazione democratica e, quindi, rilanciare su questo terreno, saremmo sopraffatti dagli eventi. Detto questo, avviandomi a concludere, la fabbrica fordista era una cosa buia, pesante, dura, eppure la gente era convinta che doveva vivere lì ed andare in quel luogo  per lavorare. Pensate all’aberrazione! Oggi, invece, si parla di talelavoro. Non voglio entrare nel merito perché il tempo a disposizione sta per scadere però, una piccola considerazione la vorrei ugualmente fare. Se da una parte c’era la fabbrica fordista buia e dura dall’altra c’è la casa che rispetto al luogo di socializzazione come un opificio è un punto estremo di separatezza, di atomizzazione profonda e terribile. Io che ho sperimentato per un periodo  i meccanismi del telelavoro ed era una interpretazione alta del medesimo ossia, quello fatto sui lavori intellettuali e pure era ugualmente una condizione lavorativa difficile e provante. Si restava praticamente in pigiama tutto il giorno, passando dal letto al computer, dal computer al letto senza soluzione di continuità, tranne che qualche squillo del telefono. Scoprendo, così, a se stessi di non avere neanche la voglia di andare a comprare il giornale perché alla fine c’era la televisione o qualche messaggio su rete che ti poteva aggiornare sugli avvenimenti. Vi assicuro che non saprei dire tra la fabbrica fordista e quella dimensione quale sia la condizione peggiore. Dico tuttavia che pure nella durezza della fabbrica fordista si trovavano contraddizioni forti e tali da organizzare una contro-offensiva e trovare anche delle risposte. Io credo che una tra le contraddizioni più altre che ha la rete sia quella individuata, anni fa, dal famoso MITI (il ministero dell’innovazione tecnologica e dell’industria giapponese) che rispetto alle strutture sovietiche non ha nulla da invidiare per capacità d’indirizzo per l’industria di quel paese. Diceva, infatti, il MITI nella relazione sui computers della stessa generazione (credo che sia stata l’ultima relazione sulla generazione dei computers fatta da quel ministero) affermava che la rete era l’unica chance che avevamo davanti per dare una possibilità di sviluppo al sistema produttivo mondiale. Si affermava, se non ricordo male, che nel’90 o ci sarebbe stata la rete, che avrebbe consentito di cortocircuitare tutto quello che c’è oggi tra chi produce un bene, lo pensa, lo mette insieme, lo assemblea e chi lo consuma, cortocircuitando tutto quello che c’è in mezzo e, quindi, un contatto diretto, facendo integrare, addirittura, le scelte e le idee di scelta del consumatore come input alla fabbrica che deve produrre quel bene; oppure, affermava il MITI, dovremmo ipotizzare una tendenza alla stagnazione dello sviluppo per il mondo occidentale. Secondo il MITI il prototipo di consumatore deve essere una persona colta, autonoma, culturalmente avanzata, capace di scelte soggettive molto forti e molto ardite; altrimenti non è un consumatore idoneo. Dall’altra parte però si affermava, sempre da parte del MITI, che per produrre quel bene di cui quel tipo di consumatore ha bisogno ……………..?quel consumatore deve essere anche il produttore flessibile ed assolutamente sottomesso al ciclo che viene fatto entrare dai cancelli della fabbrica. Il tutto come potete vedere è molto giapponese, però credo che sia anche il rischio di un quotidiano rispetto alle richieste che ci fanno tutti i giorni sui vari tavoli le CONFINDUSTRIA varie, che chiedono più flessibilità, destrutturazione, salari precari etc; e poi danno  il computer e la rete per diventare un grande navigatore libero sulle onde di Internet. E’ evidente, quindi, che c’è un contrasto tra la destrutturazione del contratto nazionale del lavoro e pagare sempre di meno una persona e renderla, così, un pezzo finale del ciclo e chi va libero sulla rete e chi è sia per cultura personale, sia per situazione economica capace di scegliersi i suoi contenuti. Su questa contraddizione credo che ci sia, per la sinistra e per il movimento sindacale una grande possibilità di svolgere un’azione politica e credo che questi debbano essere i confini dei prossimi dieci anni per tutti noi.


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