Pensare a sinistra

“Pensare a Sinistra”

16 Febbraio 2008 dalle ore 10.30 alle ore 17.00

Casa delle culture, v. di San Crisogono 45 Roma

Intervento di Sergio Bellucci

 

 

Io evito di riprendere la discussione sullo scollamento perché le cose che ha detto Franco Russo su quel punto mi convincono moltissimo. Aggiungo soltanto una cosa: io mi porrei un grande dubbio sulla definizione di scollamento. Io credo che il rapporto tra il materiale e il simbolico sia entrato in una nuova fase, dove noi abbiamo uno smarrimento nella comprensione del rapporto tra il reale, il materiale e il simbolico. Credo che l’idea della vita che le persone hanno sia a materia fondante e produttrice di storia e da questo punto di vista noi dobbiamo comprendere oggi il rapporto che c’è tra questo simbolico che ha vinto ed è diventato egemone sul nostro pianeta e cosa produce nella storia dei movimenti e delle masse, non dei gruppi dirigenti e del capitale, ma nei movimenti delle masse, della gente, delle nostre periferie, di quali sono i copmportamenti individuali e sociali della nostra gente, di quella che dovrebbe essere la nostra gente. Credo che da questo punto di vista noi abbiamo bisogno di capire molto.

Voglio segnalare solo due cose, accadute negli ultimi tempi, e che sono importanti da capire, come senso: la morte degli operai della Thyssen, e oggi una foto sul Messaggero della vicenda del Kosobvo. Parto da quest’ultima emergenza, che domani produrrà chissà quali “disequilibri” nella storia europea, e il manifesto per la strada che emblematicamente segnala questa rottura dice “free Kosovo” con la scritta che ricalca il logo della Coca-Cola.

L’altro fatto è il funerale della prima vittima della strage nella Thyssen, quando i suoi compagni di squadra sulla bara non hanno messo un drappo rosso, la bandiera di un partito, quella di un sindacato, hanno messo la maglietta di Del Piero.

Allora da questo punto di vista noi dobbiamo porci delle domande, analizzare che cosa è oggi questo meccanismo. Ci sono cose accadute nel Novecento, le elenco, sarebbero interessantissime e importantissime da analizzare nello specifico.
Primo, credo il punto più importante per me: la nascita dell’industria di senso. Noi parliamo tanto di senso, di sapere, della relazione, come riusciamo a realizzare un pensiero forte, ecc.: questa cosa non si produce più come cento anni fa, perché allora si produceva un movimento, si capiva una contraddizione, si organizzavano le genti, su quella lotta, in quella battaglia si produceva un’idea della vita che aveva una capacità di trasmissione. Oggi questa cosa accade in contrapposizione a un’industria che produce plusvalore nella produzione di senso, che va nel senso opposto a quella che noi tentiamo di produrre. Non è lo stesso identico processo di cento anni fa. O noi prendiamo in considerazione questo fenomeno, o continueremo a dire che abbiamo un problema nella produzione di pensiero, ma il problema non è questo. Il problema è che non abbiamo capito che cosa significa oggi produrre pensiero e senso.

Secondo punto: che cosa è oggi la potenzialità tecnologica di questo capitalismo, dalla produzione della merce immateriale alla capacità di intervenire sulla vita, perché se noi non capiamo questa cosa qui non capiamo qual è l’immaginario che questa cosa produce nei corpi sociali.

Terzo punto: che cosa sono oggi le condizioni della produzione, l’organizzazione del lavoro. Venti anni fa, in ogni posto di lavoro c’era mille strumenti che erano dedicati a quel lavoro lì. Oggi in ogni ufficio, in ogni luogo di lavoro, ovunque c’è uno strumento analogo, multifunzione, che ci tiene in connessione, produce relazioni, che ci fa lavorare. Vorrà dire qualche cosa o no questo dato, questa generalizzazione. Ora io non entro nel merito di come è cambiata l’organizzazione del lavoro con l’avvento delle tecnologie digitali, ma noi da questo punto di vista dobbiamo sapere che è cambiato tutto della produzione, tutto della soggettività con la quale si sta nel luogo produttivo. E da questo punto di vista il capitale sta producendo dei fenomeni giganteschi di inclusione e di ricostruzione di senso. Pensate a quello che riescono a produrre attraverso la connessione dei nuovi modelli organizzativi del web – con esperienze che vanno da youtube a myspace – che è la capacità di adesione e di produrre dentro quello schema. Schema che è omologo alla vita relazionale che abbiamo tutti noi, perché utilizziamo quelle forme quando stanno in produzione, e le utilizziamo quando stiamo fuori, tra gli amici, tra i conoscenti, per fare politica, come è successo per le compagne che si sono convocate attraverso gli sms (per manifestare davanti sulla legge 194, ndr).

Sta cambiando la forma organizzativa degli esseri umani.

Quarto punto: i limiti del fare. Da questo punto di vista, non voglio dare ragione ad Alfonso quando parla del rapporto natura-capitalismo, ma noi quando parliamo della compatibilità del capitalismo con la natura, ne parliamo in funzione del fatto che abbiamo un’idea “statica” della natura, nel senso che la natura dovrebbe avere alcuni equilibri, alcuni meccanismi, alcune forme che riteniamo incompatibili con quel modello produttivo lì. Solo che il capitalismo sta cambiando alla radice anche la natura, sta tentando – per chi è amante della fantascienza, di produrre “Trantor”, di produrre un pianeta organizzato per la sua necessità, che è una cosa completamente diversa rispetto alla compatibilità tra due elementi.

Qualche tempo fa è uscito un bell’articolo su quali sono i tempi di consumo delle materie prime disponibili ancora nel mondo: non ricordo bene, ma si diceva il piombo 4 anni, l’indio 4 anni, l’argento 7 anni,  l’antimonio 13, la latta 17, il picco del petrolio cioè la disponibilità massima, è già raggiunto. Ovvero, un mondo che si sta consumando. E’ finita? No, perché con le nanotecnologie stanno producendo i materiali sostitutivi a quelli, e si stanno dando un tempo indefinito di trasformazione.

Dentro questo quadro, (dovrei aggiungere i problemi dei limiti ambientali, del fare, il genere,. ce ne sono tantissimi correlati) non c’è solo devastazione, però. C’è la sconfitta che abbiamo subito tutti quanti, ma dentro queste grandi contraddizioni del capitalismo contemporaneo non c’è soltanto la sconfitta del movimento operaio, perché altrimenti saremmo alla fine di un periodo storico, dovremmo buttare il sale e sperare che fra 30-40 anni cresca qualche altra cosa. Invece no, perché mentre accade tutto questo le   nuove contraddizioni hanno aperto pratiche planetarie anticapitalistiche che noi non vogliamo incrociare. Noi non le vogliamo vedere, perché siccome stanno fuori dai nostri schemi, quelli con cui abbiamo organizzato i nostri partiti, i nostri sindacati, le nostre organizzazioni umane, i nostri pensieri culturali e mentali, noi queste cose proviamo a non vederle. Ad empio, intorno alla pratica dell’open source, della condivisione della produzione di software, che è un modo di lottare contro la più grande impresa capitalistica e multinazionale che questo capitalismo ha prodotto negli ultimi trenta anni, si è prodotta una pratica di massa, diffusa anticapitalistica, delle volte esplicitamente, anche sul piano politico, ci sono addirittura partiti che si sono organizzati intorno a questo, e che hanno proposto una nuova modalità di relazione con il produrre, con la vita, con il rapporto di proprietà.

Allora, possiamo aprire gli occhi e interagire con queste esperienze? Comprenderne il senso come avremmo fatto cento anni fa con ipotesi all’interno del movimento operaio, che producevano forme concrete di organizzazione anticapitalistica.

Io credo che noi o facciamo questo o noi l’uscita dal modello economico sociale non siamo in grado di produrla. In questo sono d’accordo con Rina quando dice che abbiamo bisogno non di un nuovo inizio, ma di un inizio. Dobbiamo fare esattamente come  si è fatto 150 anni fa nell’intravedere non tanto la condizione attuale, quanto il futuro: se Marx avesse aperto gli occhi soltanto su quello che esisteva materialemente dentro le società del suo tempo, avrebbe incontrato una massa innumerevole di contadini, in tutto il mondo, ma Marx non si è fermato all’oggi, ha visto un’altra cosa nel domani, con una potenza di trasformazione enorme. Possiamo fare la stessa cosa, possiamo capire dove possiamo appoggiare, certo non in maniera univoca come è stato nell’Ottocento, ma cominciare a capire dove sono le tendenze e le rotture?

Io credo che se noi facciamo questo ci poniamo in termini giusti. Da questo punto di vista, sia sulla proposta di Tortorella dei  fondamenti delle politiche, dobbiamo fare un’operazione – e qui concordo per la seconda volta con Alfonso – dobbiamo realizzare l’incontro tra i saperi e la scienza nuove. Sto leggendo un libro sulla capacità plastica del cervello: il cervello si riconfigura costantemente, a seconda delle esperienze e delle cose che fa, che incrocia, e del pensiero che produce e che incontra. Stiamo parlando quindi di una concezione che anche per noi cambia tutta l’impostazione della vita, e ci preoccupa moltissimo per l’impostazione di questo capitalismo, ma ho scoperto che il Dalai Lama, 20 anni fa, per puro caso, ha inventato una pratica che secondo me ha messo in condizione quella religione do fare un salto enorme nel mondo. Lui due volte l’anno incontra i migliori scienziati buddisti, su un tema specifico, e organizza le giornate di studio sul rapporto fra la conoscenza più avanzata in quel settore e la sua impostazione. Vogliamo provare a cominciare anche noi a darci appuntamenti per chiamare chi, a sinistra, lavora nei campi più avanzati, per spiegarci quali sono i nuovi paradigmi, le nuove conoscenze? Forse ci daremmo la possibilità di fare un salto molto più rapido di quello che siamo in grado di fare (omissis)….

 

 


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