Le ragioni di una sconfitta

 

 

“Le ragioni di una sconfitta”

Roma, 12 giugno 2008 – Auditorium dei Frentani

promosso dalla rivista “Alternative per il Socialismo

 

Intervento di Sergio Bellucci

 

Dopo l’intervento di Paolo Brutti, avevo pensato di cambiare il mio intervento sulle ragioni della crisi della sinistra e di  farne uno totalmente nuovo. In realtà,  poi ho deciso di mantenere il taglio precedente perché credo che al tema del rapporto tra innovazione e sinistra, tra innovazione tecnologica e lavoro, dovremmo dedicare una giornata di lavoro specifica. Sono convinto da tempo, infatti, che le nuove tecnologie digitali, e la loro qualità intrinseca totalmente nuova rispetto alle tecnologie precedenti, stiano mutando il panorama produttivo e umano; credo che questa introduzione delle tecnologie digitali negli ultimi 25 anni della storia umana sono apparse nel mondo della produzione attraverso il meccanismo dell’organizzazione del lavoro del taylorismo – e io ho chiamato questo da qualche anno “taylorismo digitale” – ma che, da qualche tempo, questa introduzione sta alludendo già a una nuova organizzazione produttiva, asd un superamento della prima fase e all’avvento di una seconda, in grado di raccogliere la portata che propone la sua razionalità intrinseca del digitale. Non ho il tempo, in questo intervento, di entrare nel merito, ma questa è una introduzione che ha dentro inglobato il modello di consenso che le tecnologie digitali consentono oggi alla nuova forma dell’organizzazione del lavoro, riducendo quello spazio che Gramsci ci segnalava come produttore di contraddizione e portatore di conflitti, quello tra l’organizzazione del lavoro (di tipo tayloristico-fordista) e l’organizzazione della vita umana, La capacità egemonica delle nuove forme del lavoro sono enormi.

Su questo aspetto dovremmo dedicarci una giornata apposita, perché credo che sia uno dei temi centrali, forse il tema centrale, con il quale la sinistra ha a che fare.

Parallelamente, credo che dovremmo cominciare a superare alcune definizioni, o almeno alcune parole, che, a mio avviso, segnalano un ritardo culturale e di analisi. Parole che alludono all’apertura di una nuova fase critica dei processi in atto. Ad esempio, non sono più d’accordo con termini come crisi e transizione. Crisi e transizione alludono a letture e processi che si rifanno a ipotesi di tipo meccanico, cioè alludono al fatto che si passa da una situazione di stabilità che viene messa in discussione dall’apertura di un processo di cambiamento, processo che arriverà ad una nuova fase di stabilità. Questa cosa, se mai è esistita nella storia, e io non lo credo, oggi non è più data. Noi siamo in una situazione che potremmo chiamare di mutazione perenne, continua.

Qualcuno ha evocato qui termini come quello della complessità. Ho sentito che dopo di me interverrà Marcello Cini, e su questo tema lascio a lui la parola, ma credo che anche la sinistra debba iniziare a fare i conti con altri termini, che alludono ad una forma complessa dei processi, che sono ad esempio quelli della transitorietà, dell’incompletezza, dei processi appunto che hanno come quelli complessi delle fasi transitorie che si susseguono in permanenza.

Ma vengo al cuore del mio intervento prendendo il punto di vista che Bertinotti ci ha posto qui nella sua introduzione. Fausto ci dice “l’esperienza della sinistra al Governo Prodi ha fatto tracimare la crisi della sinistra”. Ecco io credo, invece, che il problema che qui ci si pone sia probabilmente molto più profondo e lontano dalla nostra “misera” condizione nazionale. Credo che il tema che abbiamo di fronte è quello della “terraformattazione capitalistica”, per usare una visione molto affascinante che ci propone la fantascienza, cioè quella di costruire un ambiente che è compatibile con il suo progettista, e che vede quello che non riesce ad inglobare come residuo. Il processo di digitalizzazione del reale, quello della cosiddetta sua matematizzazione, allude ad un pianeta inclusivo che, nell’includere propone un processo più profondo della semplice egemonia di vecchia memoria ed espelle tutto ciò che non può essere matematizzato.

E non a caso è la prima volta (si diceva in un intervento precedente) che la crescita a dismisura delle capacità del sistema capitalistico non coincidono con l’apparire di contraddizioni in grado di produrre conflitti adeguati a questa dimensione. Le contraddizioni esistono e crescono, ma non producono capacità di conflitto politico, ma solo rivendicazioni di esistenza dentro l’orizzonte della sussunzione.

Allora questo è il punto che noi abbiamo di fronte: perché accade? Domandarci il perché è necessario perché non è più sufficiente l’utilizzo di etichette: è il capitalismo, la globalizzazione, l’egemonia USA, ecc… Non  abbiamo più la possibilità di fermarci solo alla descrizione degli effetti; noi non possiamo cominciare a fare l’elenco di quello che dal punto di vista sociale questo processo di “terra-formattazione” capitalistica introduce dentro il corpo delle società contemporanee. L’elenco dei disastri, da quello ambientale a quello genetico a quello energetico, a quello sociale con il lavoro, non è più sufficiente, né a creare consenso, né a farci fare politica. Ad esempio, Fausto Bertinotti ci diceva che “nel secolo scorso il conflitto era motore dello sviluppo e della produttività” e che oggi non lo è più. Perché non lo è più? Perché è deperita questa cosa? Domandiamocelo, cerchiamo di capire, scontriamoci anche sulle analisi, altrimenti saremo sempre più muti di fronte alla trasformazione.

Io credo che oggi il conflitto non rappresenta ciò che ha rappresentato nel ‘900 perché è cambiato il rapporto tra il saper fare operaio accumulato nella persona e nella classe e la organizzazione del lavoro, l’organizzazione produttiva. La quantità di sapere operaio non inglobato nella macchina, che prima era sufficiente a creare una alterità di visione del lavoro e che era il punto fondamentale dell’autonomia percepita dalla classe rispetto alla organizzazione del lavoro aziendale, è oggi ridotto considerevolmente, diminuendo l’autonomia (reale e percepita) e la forza d’urto del conflitto, ridotto alla sola dimensione salariale. Il conflitto sociale slitta verso la sua dimensione parziale di gruppo, di azienda. Questo produce una frammentazione del conflitto che ancora siamo in grado di produrre, e dall’altra parte questo conflitto non è in grado di produrre un nuovo senso generale.

E’ questo il centro di quanto volevo dire, è un rapporto che sta al cuore, a mio avviso, delle ragioni della sconfitta. Diceva nel suo intervento Bertinotti “il buon senso in qualche modo va nel verso della costruzione del consenso politico”, e del consenso delle destre. Allora, andiamo ad analizzare come si costruisce il “buon senso”, qual è la percezione di naturalità che la costruzione di “buon senso” produce nel corpo sociale, come si produce oggi quel “senso comune” di cui parlava Gramsci. Nel mondo, da alcuni decenni, siamo in presenza di una Industria del Senso che lavora nella produzione di senso comune, abbiamo un sistema industriale che lavora nella produzione di senso a livello planetario, e produce plusvalore nella produzione di senso, non lo fa in maniera caotica e non programmata, anzi utilizza le forme più avanzate delle scoperte scientifiche e teoriche, che arrivano a sperimentare l’intreccio delle scienze cognitive, quelle della mente e il marketing. Neuromarketing, algoritmi economici, industria del senso ecc.. trasformano le informazioni dei sei miliardi di persone in simulazioni di comportamento che descrivono le nostre vite in maniera dettagliata più di una biografia. E questa produzione di senso corrisponde esattamente alla produzione di consenso politico al modello sociale organizzato che c’è dietro.

E per produrre senso sociale bisogna che si costruisca anche un “senso cattivo” a cui contrapporsi, un’idea, un nemico, un consumo che non è più trend, come ci hanno insegnato tutti quelli che si occupano di marketing e di costruzione dei mercati. E la costruzione del “senso cattivo”, si colloca esattamente nel rapporto stretto tra il sogno-bisogno (che l’immaginario e il proprio ruolo nel gruppo di riferimento, costruito dall’industria del senso e dall’utilizzo sociale delle merci, produce) e la negazione materiale alla quale la tua condizione sociale ti obbliga. In altre parole la distanza tra quello che tu vorresti essere (come ti pensi)  e quello che sei materialmente. Quella distanza non siamo stati più in grado di affibbiarla alla società capitalistica e l’industria del senso riesce ad affibbiarla a qualcuno che ti nega la  possibilità di essere ciò che vorresti, il diverso, l’immigrato, i paesi terroristici, ecc…. Prima quella distanza era proprio lo spazio a disposizione della critica della sinistra alla società capitalistica oggi questo non c’è più, questa distanza tra il sogno e il bisogno aumenta sempre più, e questo “senso cattivo” viene riempito dal nemico, dall’avversario, dal diverso, dal residuo.

E in questo senso si costruisce un racconto totalmente nuovo.

Io credo che questo sia il punto sul quale dobbiamo lavorare, perché se noi non siamo in grado di riprendere questo punto, quello della rottura del meccanismo con il quale la produzione di senso costruisce il mondo del sogno e del bisogno, e costruisce la distanza tra la negazione di quel bisogno e il bisogno stesso, noi non potremo tornare a fare politica.

Da questo punto di vista, credo anche che la crisi dei Governi, nell’Occidente avanzato, si misura proprio con la capacità o meno di dispiegare due fattori: o di distribuire risorse sufficienti a ridurre il gap tra il sogno-bisogno e la sua negazione (quindi la possibilità di avere risorse a sufficienza) oppure, dall’altro lato, di costruire un nemico talmente tanto forte e individuato sul quale scaricare l’impossibilità di ridurre questo gap. E noi siamo proprio qui, in questa tenaglia, nella quale non riusciamo più a produrre una iniziativa politica.

Ce lo diceva bene l’analisi che emergeva dall’inchiesta di Repubblica sul dopo-voto, quando faceva parlare quell’operaio che diceva “sì, io in fabbrica ho la tessera della Fiom, perché i comunisti sanno contrattare meglio, e mi danno più soldi, e voto Lega perché quei soldi me li sanno difendere meglio sul territorio”. Quelle due affermazioni ne contengono altre due implicite e che spesso non ci si accorge di avere dentro, né noi sembriamo capaci di inserirle nel racconto sociale di una nuova critica: quelle del consenso verso la fabbrica, il lavoro, che devono garantirti le risorse necessarie per vivere, e il modello di vita che l’Industria del Senso ti socializza in permanenza, cioè l’orizzonte di vita al quale devi aspirare. Questa mi sembra la questione, oggi.

Se tu oggi sei in grado di portare 200 Euro in più sul salario di una persona, o sulla pensione, certo allevi il disagio istantaneo di quell’individuo, ma dove vai ad incidere realmente?  Non certo sul consenso generale che ha il modello di vita che la struttura di produzione di senso costruisce in permanenza. Dobbiamo essere consapevoli che la lotta legata al solo salario non contiene più quella forza dirompente del ‘900. se non si interviene nella costruzione del senso, più risorse si trasformano in maggiore adesione al modello della vita e noi lì non sappiamo più intervenire.

Io credo, però, che da questo punto di vista noi abbiamo delle cose nuove sulle quali lavorare, perché non è solo devastazione quello che abbiamo davanti.

Questo è il quadro, ma possiamo dirci che i nuovi modelli di organizzazione produttivi, quelli che sono basati molto sulle tecnologie digitali – anche dentro i luoghi produttivi tradizionali – producono processi di aspettativa  e di liberazione con i quali dobbiamo fare i conti, con i quali possiamo lavorare. Certo contengono altre aspettative di liberazione, di autorealizzazione, di desideri di vita. Lavorare su questi terreni risulta fondamentale per i prossimi anni.  Lo diceva Graziella Mascia nel suo intervento: possiamo conquistare il sogno di una generazione proponendogli una vita lavorativa come quella del ‘900? Magari in un reparto in linea con turni di 8 ore h 24/365? Quanti sceglierebbero per se questa vita? E’ quello il livello del sogno che noi sappiamo socializzare, lo sguardo verso il futuro?

Io credo di no e credo che su quel livello noi non saremo in grado di costruire un progetto-consenso se non saremo in grado di lavorare sui gradi di libertà annunciati ma negati da , esattamente come è accaduto altre volte nella storia. E però, molte delle ipotesi di liberazione che questo nuovo modello organizzativo produce nel corpo sociale e che sono negati dall’organizzazione del lavoro così come è fatta oggi, sono il nuovo territorio sul quale ricostruire la politica a sinistra. Perché tra il senso del bisogno che tu hai di liberazione, e il concreto spazio che tu non produci, c’è lo spazio gigantesco dell’azione dei prossimi anni. Io credo che da questo punto di vista noi dovremmo parlare oggi addirittura di un nuovo modello di welfare. Credo che la politica deve saper guardare a un’ipotesi di welfare che si basa sui processi di relazione che vengono messi in campo, quelli tra il fare e il suo perché, tra il che cosa si produce e il perché lo si fa, tra i generi che esistono nel mondo, tra la specie umana e il territorio, tra le specie umana e viventi, tra le classi sociali coi loro interessi distinti e separati e con finalità diverse, tra i viventi e le risorse a disposizione. Questa complessità di fattori è, a mio avviso, il terreno nuovo sul quale costruire la politica complessa di cui abbiamo bisogno.

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