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“L’APPRODO MULTIMEDIALE
L’EDITORIA NELLA TEMPESTA DIGITALE”
SCENARI PER IL FUTURO
idee e proposte dei comunisti
PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA
Torino 15 gennaio 1996
LIBRERIA “CAMPUS”
Via Urbano Rattazzi, 4
CONVEGNO NAZIONALE
TAVOLA ROTONDA
“IL TESTO NEL CONTESTO MULTIMEDIALE”
DIPARTIMENTO INFORMAZIONE
DIPARTIMENTO CULTURA
DIREZIONE NAZIONALE
FEDERAZIONE DI TORINO
SOMMARIO
“L’APPRODO MULTIMEDIALE – L’EDITORIA NELLA TEMPESTA DIGITALE”
INDICE DEGLI INTERVENTI
R. REALI PAG. 2
P. FEMORE PAG. 3
S. BELLUCCI PAG. 4
D. NOVELLI PAG. 15
G. LO CASCIO PAG. 17
F. GIOVANNINI PAG. 20
M. BASCETTA PAG. 23
M. MORELLINI PAG. 25
P. DE CHIARA PAG. 29
R. GAGLIARDI PAG. 33
M. BORDINI PAG. 36
A. MONACO PAG. 39
P. CAGNA NINCHI PAG. 40
E. RAMAT PAG. 45
C. PERNA PAG. 48
C. INFANTE PAG. 49
R. MUSACCHIO PAG. 52
R. D’INCAU PAG. 54
A. COSSUTTA PAG. 55
TAVOLA ROTONDA
“IL TESTO NEL CONTESTO MULTIMEDIALE”
Coordina NICO ORENGO
PARTECIPANTI:
S. BELLUCCI T. VIGLIARDI PARAVIA
M. ROMANI A. SALSANO
L. DE FEDERICIS A. SCARPONI
P. GUARDIGLI P. FEMORE
ROBERTA REALI (Coordinatrice Dipartimento Informazione Prc)
Vorrei ringraziare i presenti per aver raccolto il nostro invito; inoltre desidererei esprimere gratitudine al direttore della Libreria Campus, il dottor Piero Femore, che ci ospita.
I lavori della mattinata vedono una relazione introduttiva del responsabile del Dipartimento Informazione del Partito della Rifondazione Comunista, Sergio Bellucci e, quindi, seguirà il dibattito. Le conclusioni saranno tenute dal Presidente del Partito l’On. Armando Cossutta. E’ inoltre con noi, alla presidenza, Rina Gagliardi, repsonsabile cultura del nostro partito, che ha contribuito a realizzare questo convegno. Ringraziano, inoltre, i compagni della Federazione di Torino che, insieme con la Direzione Nazionale, hanno costruito questo convegno. Un ringraziamento particolare va al compagno Maurizio Coscia che ha lavorato telefonicamente, non solo con noi, per tutto il periodo di preparazione di quest’iniziativa.
L’esigenza di fare questo convegno nasce da una duplice necessità: la prima è di capire come e quanto le nuove tecnologie, tutto il processo di digitalizzazione, vanno a coinvolgere e ad operare su un settore così strategico all’interno della comunicazione e dell’informazione qual è il terreno dell’editoria. C’è un problema legato, come tutti voi sapete, alle grandi concentrazioni finanziarie ed economiche, oltre che politiche, e non è casuale il titolo di questo nostro incontro che ha al suo interno la parola “approdo”. Crediamo, infatti, che non sarà irrilevante l’approdo di un processo così complesso come quello della società dell’informazione e delle nuove tecnologie. Le nuove tecnologie, del resto, non sono neutre e, quindi, non potrà essere neutro neanche l’esito finale. Questo convegno cade all’interno di una serie di iniziative che il partito si è dato in vista della Conferenza Nazionale di Programma. Dunque, l’approdo non sarà neutro e, soprattutto, la situazione economica e politica del settore fa pensare ad un esito quasi tutto economico, in una logica srettamente di mercato.
Noi crediamo che all’interno di questo settore, come in altri punti strategici della comunicazione, ci sia bisogno di regole, di finalità, d’indirizzi, per capire quale è il tipo di sviluppo e di democrazia che all’interno dell’informazione, possiamo dare. Per questo è importante il rispetto dell’art. 21 della Costituzione (e non la cito casualmente, vista anche la situazione politica complessiva), il rispetto di un testo fondamentale per la democrazia nel nostro Paese, ossia la possibilità effettiva per tutti che le idee e la conoscenza siano accessibili a chiunque.
Ecco, quindi, come il problema della democrazia, dello sviluppo e dell’accesso alla comunicazione nelle sue varie forme, diventino fondamentali e siano una battaglia necessaria che le comuniste e i comunisti devono combattere.
Da qua, quindi, l’importanza di questo convegno, che vuol essere anche una sfida, a noi stessi ed a tutti i presenti, per capire se da questo primo momento, che non vuole e non è un momento conclusivo, si può provare a ridiscutere, a ridisegnare, all’interno di un settore cos’ importante, dei punti di riferimento diversi da quelli imposti dalle mere leggi di mercato del capitale.
Per quanto riguarda l’organizzazione dei lavori, giacché le conclusioni di Armando Cossutta sono previste nella mattinata, non più tardi delle ore 13.00, direi che gli interventi dovrebbero avere una durata massima di dieci minuti, se la cosa non crea problemi ai nostri ospiti.
PIERO FEMORE (Direttore della Libreria Campus)
Tocca alla libreria Campus, invece, ringraziare il Partito della Rifondazione Comunista per averci chiesto di ospitare questo convegno.
Noi siamo lieti, siamo particolarmente lieti che sia un partito della sinistra che si pone questo problema. Un problema che noialtri sentiamo, noi operatori, librai, molti editori, e che sia un partito della sinistra a porre questo problema, a me personalmente e alla libreria Campus fa particolarmente piacere.
Ringrazio, quindi, il Partito della Rifondazione Comunista, ringrazio l’on. Cossutta per essere tra noi, e do la parola al responsabile del Dipartimento Informazione.
SERGIO BELLUCCI (Responsabile nazionale Dipartimento Informazione Prc)
“L’APPRODO MULTIMEDIALE”
“Il colmo dell’accecamento si raggiunge quando le vecchie tecniche sono dichiarate culturali e impregnate di valori, mentre le nuove sono denunciate come barbare e contrarie alla vita”.
Pierre Levy
In un recente convegno del CNEL, una delle relazioni poneva un’interrogativo di rilievo: “Le nuove tecnologie possono essere un’occasione di sviluppo nel Sud?”. Io vorrei riformulare tale domanda proponendo, però, un’elisione sul complemento di luogo e una considerazione più generale sul senso di ciò che fu definito, dai futurologi americani degli anni Settanta, come il “capitalismo della terza ondata”: Possono le nuove tecnologie essere una occasione di sviluppo?
A differenza di quanto accadeva nella fase di sviluppo industriale, nella quale il rapporto tra innovazione tecnologica, investimenti e occupazione (e, cioè, redistribuzione della ricchezza prodotta attraverso il lavoro vivo) era direttamente proporzionale, è consapevolezza diffusa che oggi sono necessarie, per la socializzazione della ricchezza prodotta, scelte che non siano direttamente collegate alle pure esigenze “aziendali”. Insomma che, d’ora in avanti, è necessario un surplus di scelte politiche in grado di indirizzare lo “sviluppo” in modo da poter continuare a considerarlo come un fattore di “progresso” e di diffusione del “bene sociale”.
Il “capitalismo della terza ondata”, quindi, a differenza di quanto immaginava Alvin Toffler, sembra aver bisogno di una presenza di scelte mediate socialmente che soltanto la politica potrà offrire e socializzare, pena l’impossibilità di garantire i margini, economici e sociali, per il suo stesso sviluppo.
Fusione tra informatica, televisione e telecomunicazioni, processi di digitalizzazione, accelerazione delle transazioni, interne ed esterne all’azienda, fusioni societarie, accorpamenti, acquisizioni, ridislocazione della divisione mondiale del lavoro, processi di internazionalizzazione e globalizzazione che favoriscono la concentrazione in poche sedi dei saperi e della ricerca sull’innovazione tecnologica, concentrazione dei controlli e delle proprietà sulle reti di comunicazione, dei canali di accesso alle reti multimediali, delle aziende produttrici di servizi a valore aggiunto. Il cuore di questa fase di “sviluppo” sembra essere legato agli sviluppi dei processi comunicativi e alla vera e propria definitiva consacrazione dell’ultima figlia del mercato, la merce immateriale per eccellenza: la “merce informazione”.
Il complesso delle aziende che insistono su questo mercato potrebbe rappresentare, nei prossimi decenni, quello che l’industria dell’auto rappresentò per la fase di sviluppo industriale. Non a caso, però, occorre usare il condizionale: se lasciato a se stesso questo mercato rischia di implodere, con conseguenze rovinose per l’intero sistema sociale.
I cambiamenti che investono il complesso del sistema delle aziende editoriali, quindi, non riguardano più la mera politica di un settore, pur importante, ma il paradigma complessivo, l’idea stessa che la società ha di sé e che pervade l’individuo nella sua complessità.
La mutazione del sistema editoriale, resa possibile dalla rivoluzione tecnologica della digitalizzazione, sta investendo gli assetti consolidati degli equilibri finanziari e di controllo dell’intero settore, modifica profondamente le modalità produttive sotto la spinta delle nuove potenzialità di gestione delle informazioni, dei testi, delle immagini e dei suoni, ridisegna profondamente le professionalità presenti all’interno delle aziende, propone all’intera comunità umana nuove modalità di comunicazione che hanno al loro interno nuovi segni, nuove significanze, un nuovo linguaggio, e portano con sé un alto grado di potenzialità omologanti, sia sul piano delle diversità sociali, sia su quello dei linguaggi e dei saperi.
C’è bisogno di uno scarto di consapevolezza. Ne ha bisogno la politica, ne hanno bisogno i gruppi dirigenti aziendali, ne hanno bisogno i lavoratori e le loro organizzazioni.
Occorre, cioè, una iniziativa, un confronto, che rimetta al centro l’idea stessa del ruolo dell’intera industria culturale all’interno delle società sviluppate.
La qualità dell’innovazione digitale
La rivoluzione digitale, la possibilità, cioè, di avere su di un unico supporto dati, immagini, suoni e parole, scritte con un’unica tecnica numerica, sta modificando i confini di settori che fino a ieri erano distinti e non comunicanti. I processi di convergenza tecnologica tra informatica, telecomunicazione e industria culturale (nelle sue varie forme) sembrano già prefigurare le caratteristiche del modo di produzione della nuova fase di mercato.
All’interno di questo quadro, il settore tecnologicamente determinante nel processo (mi riferisco a quello informatico) rischia di essere egemone, non solo sul piano tecnologico, ma anche sul piano del modello economico/produttivo. I tradizionali assetti degli altri settori, infatti, sembrano essere spazzati via dalla totale deregolation che ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo di questo settore. Sappiamo, però, quali siano state le conseguenze di tale paradigma produttivo: primo, la creazione di un monopolio tecnologico/comunicativo nelle mani di una singola azienda (mi riferisco alla Microsoft che, com’è noto, controlla l’80% del mercato dei sistemi operativi e sta estendendo i suoi interessi sia alla rete telematica che allo sbocco televisivo, passando per i giochi e l’informazione); secondo, una altissima concentrazione della produzione di hardware e in particolare il duopolio della progettazione e vendita dei chips che ruota intorno a due colossi come Intel e Motorola.
D’altra parte è noto il modello produttivo della Microsoft: azienda leggera, fortissimo turn-over (un dipendente che supera i tre anni di permanenza è considerato un anziano e difficilmente si trovano casi di permanenza che arrivano ai cinque anni), nessun tipo di controllo sociale, scarse possibilità di indirizzo legislativo, concentrazione nelle mani di un solo uomo dei destini aziendali, fino ad arrivare, com’è avvenuto nell’ultima campagna pubblicitaria della casa, alla proposizione di un vero e proprio nuovo modello di democrazia sovranazionale. Non siamo ancora al Grande Fratello, ma il grado di parentela comincia, paurosamente, ad avvicinarsi.
Siamo certi che questo sia anche ciò che vogliamo come destino di tale nuovo settore? Rischiare, cioè, un rapido e concitato declino delle nostre autonomie, culturali, aziendali, professionali?
L’idea di sviluppo di questo settore, quindi, non può essere estrapolata da quella dell’informatica. Occorre una discontinuità, occorrono scelte politiche innovative. Il rischio, altrimenti, è quello di delineare un futuro fatto di aziende piccole e piccolissime in grado di raggiungere target limitatissimi e una o due grandi aziende (magari con capitale internazionale) che puntino esclusivamente ad essere il canale distributivo, l’anello finale, di una produzione quasi totalmente esterna al mondo culturale del nostro paese. Una o due grandi aziende che, attraverso la rendita di posizione derivante dalla internazionalizzazione dei prodotti, possano operare anche attraverso politiche di vero e proprio dumping, come già inizia ad accadere e la campagna di sconti praticata, proprio questo mese, da una grande azienda editoriale lascia paventare.
Il nostro paese ha già avuto un’esperienza analoga nel campo della televisione e il risultato è sotto gli occhi di tutti: cinema nazionale distrutto, servizio pubblico (la RAI, una delle più importanti aziende mondiali del settore) senza più identità, prospettiva e sulla via del collasso, una miriade di piccolissime aziende non in grado di emergere dalla loro situazione di subalternità, senza la possibilità di elaborare una linea editoriale, di trasmettere un loro messaggio, di avere un mercato.
Questi due ultimi aspetti (quello della trasmissione di un messaggio e la possibilità di un “mercato”) sono due fattori inscindibili per chi ha scelto ciò che Franco Tatò, nel suo libro A scopo di lucro, chiama, semplicemente, il business dell’editoria. Mai come in questo scorcio di millennio è stato chiaro che il produrre ha fortissime correlazioni che non possono essere separate dal che cosa e per quale fine si compie l’atto stesso. Vale per l’industria dell’auto, si pensi alle conseguenze sanitarie; vale per la biologia, si pensi alla manipolazione genetica e ai problemi etici connessi; vale per l’industria culturale nelle sue varie forme: occorrono regole, indirizzi, finalità, scelte.
Quante opere d’arte immortali non sarebbero mai state trasmesse alle generazioni future se non ci fosse stato un imprenditore che scommetteva non sulla semplice analisi di marketing o sul packing, ma sull’emozione provata su di una pagina scritta?
Non solo il lucro come finalità, quindi, e non solo per incapacità, ma per scelta. La società del domani non potrà accontentarsi dei soli prodotti “di successo”. C’è bisogno di critica, di ricerca, di pensieri controcorrente e non soltanto sul versante sociale e politico, ma anche sotto quello dello svago, dell’intrattenimento.
La fase della mutazione del sistema editoriale, quindi, non può portare verso una ulteriore e progressiva fase di rinsecchimento delle risorse culturali offerte, non tanto nella quantità, ma anche nella qualità e nella diversità. L’affermazione della digitalizzazione sta imponendo la nascita di nuove forme comunicative e di linguaggio. L’utilizzo di ipertesti multimediali, ad esempio, sta già avanzando alcune modalità e gerarchie di segni che, probabilmente, influenzeranno enormemente il linguaggio dei prossimi secoli: possiamo far avvenire tutto ciò soltanto all’interno di videogames o di prodotti omologati internazionalmente?
E quanto e come la nascita di un nuovo linguaggio ipertestuale influenzerà il classico testo scritto su carta, in analogia di ciò che avvenne con l’affermazione della cinematografia nel ‘900?
Chi ha responsabilità in aziende che insistono già in questo settore deve avere la consapevolezza che sta, fin da ora, partecipando alla costruzione di modalità e linguaggi che avranno una enorme importanza sotto il profilo culturale, politico e sociale, ma anche sotto il profilo della consapevolezza del sé di ognuno di noi, e in particolare di quella dei nostri figli e nipoti.
L’industria editoriale italiana deve scegliere: o raccogliere la sfida che le è davanti o assegnarsi il ruolo di perenne subalternità, sia sul piano economico-finanziario sia su quello di linea editoriale-culturale e di linguaggio.
È per ciò che Rifondazione Comunista avanza la proposta di un percorso che parte dalla consapevolezza che richiamavo all’inizio: i destini dell’industria editoriale italiana coincidono, fortemente, con quelli dell’intera collettività nazionale, con la possibilità di riconoscimento di una identità, di un linguaggio comune e condiviso, di una storia.
Noi crediamo che sia necessario un intervento che riposizioni tutta l’industria editoriale e la metta in grado di competere, nazionalmente e internazionalmente; un intervento che lasci sedimentate, sul terreno produttivo, tecnologie avanzate e livelli occupazionali riqualificati, che non disperda il fondamentale patrimonio di professionalità esistente nel settore e lanci la sfida globale alla nuova industria culturale digitale.
Assetti finanziari e di controllo
Per questi motivi e in questa ottica, Rifondazione Comunista ha svolto, negli ultimi mesi, una azione contraria ai processi di privatizzazione di importanti settori strategici nel campo della comunicazione. In primo luogo sul terreno delle infrastrutture. Se lasceremo, ad esempio, al solo mercato la realizzazione della rete telematica, rete che sarà uno dei principali veicoli delle produzioni editoriali del prossimo secolo, rischieremo di tagliare fuori molta parte del nostro paese e relegare ampi settori territoriali a rango di nuovo “Sud Digitale”. Contemporaneamente, condanneremo l’intera industria culturale a rifornire un bacino di utenti forse più stretto di quello rappresentato oggi dagli attuali lettori di libri tradizionali. La battaglia contro la privatizzazione della Stet, quindi, non riguarda, a nostro avviso, solo il settore della telefonia; può essere, anzi lo è già, un problema che attiene all’intera produzione di idee e, quindi, in primo luogo al futuro dell’industria editoriale.
D’altronde la situazione della diffusione dei prodotti editoriali classici è sostanzialmente ferma. Nel ’94 il fatturato ha raggiunto a fatica i 3600 Mld, poco più o poco meno di 63.000 lire a testa.
Un pieno di benzina, due giornate al cinema di una famiglia di tre persone, due chili e mezzo, tre di carne.
Il nostro paese è tra i sette più industrializzati del mondo ma, lo sapete meglio di me, è al quattordicesimo posto nella classifica della lettura.
Il fronte della distribuzione sta subendo forti processi di concentrazione. Secondo la Demoskopea solo dal 1987 al 1990 i punti di distribuzione sono diminuiti del 14,3 %. La politica degli sconti favorisce soltanto i grandissimi distributori e mette in ginocchio gli altri.
Non credo, però, che debba fare a voi, che vivete sulla vostra pelle quotidianamente questi processi, il riassunto dei processi di concentrazione che attraversano il mondo editoriale. Risulterebbe un inutile compitino sicuramente incompleto, forse asfittico.
Quello che si può dire, ma ne parleranno più ampiamente altri interventi nella mattinata, è che dalla crisi di grandi gruppi editoriali (penso alla Rizzoli) e dalla nuova strategia della Mondadori, sembrano emergere segnali che non confortano per il futuro.
La stessa vicenda che ha avuto come epicentro, negli ultimi mesi, Mediobanca sembra tipica del tipo di risposta classica che i gruppi dirigenti del nostro paese pensano di proporre all’intera collettività nazionale e, cioè, processi di finanziarizzazione spinta, accompagnati dal depauperamento di risorse umane e industriali.
Processi analoghi riguardano altre fondamentali fasi della produzione. Penso alla stampa e alla distribuzione. Su quest’ultima, se passasse, oggi, la totale deregulation (libri, giornali ecc.. al supermarket), in una fase nella quale c’è chi detiene interessi in campo editoriale, ma ne possiede anche nella grande distribuzione, si potrebbero alterare fortemente le condizioni della normale competizione.
Qualche considerazione credo che possa essere aggiunta per le aziende della piccola editoria. La fase nella quale l’editoria minore aveva individuato il progressivo affacciarsi di target di pubblico differenziato e non raggiunto dalla grande casa editrice, sembra oramai esaurirsi. Questo settore aveva colto alcuni processi profondi che attraversavano già il tessuto sociale, incontrando le esigenze che maturavano attraverso processi di segmentazione della formazione e aggiornamento culturale.
A questa situazione i grandi gruppi hanno risposto con due tipologie di intervento, una editoriale (nuove collane settoriali), l’altra finanziaria (acquisizione dei pacchetti azionari).
Noi crediamo che la ricchezza rappresentata dalla galassia delle medie e piccole aziende sia un patrimonio che non possa essere disperso o assorbito.
Nel Rapporto 1994 sulla Piccola Editoria in Italia si costruiva un quadro molto condivisibile dello stato di queste aziende.
“La debolezza dei piccoli editori”, si afferma nel rapporto, “non dipende tanto dalla loro dimensione, o dal fatto di operare in un mercato in cui sono circondati da editori forti, che riescono tra l’altro ad imporre le loro condizioni commerciali ai canali di vendita, ecc. Dipende piuttosto dal fatto che avendo scarse risorse – solo il 4,7% ha ricevuto negli ultimi tre anni agevolazioni di qualche tipo (dal credito agevolato, ai premi all’export o per opere di elevato valore culturale) -, ed essendo oberate da oneri finanziari crescenti (da una recente indagine dell’Ufficio studi dell’Associazione italiana editori, condotta su un piccolo campione di medie imprese, il credito I.V.A. risulta essere pari, e in alcuni casi superiore, all’esposizione debitoria che le stesse imprese hanno attivato nel breve e medio termine nei confronti del sistema creditizio), non possono compiere quegli investimenti che si renderebbero necessari per attuare alcune scelte strategiche fondamentali.
Cosi, alla fine, la linea di demarcazione tra un editore e l’altro non risiede nella sua dimensione aziendale o nella consistenza del suo fatturato. Lo spartiacque e tra chi i soldi li ha e chi non li ha, tra chi ha la possibilità di accedere facilmente al credito e chi non riesce ad ottenerlo”.
Credo che il quadro sia sostanzialmente condivisibile.
Il compito dell’oggi, allora, è di favorire la possibilità che queste aziende, come le grandi, possano attuare scelte strategiche fondamentali che, a nostro avviso, partono dalla possibilità di diffondere in tutto il tessuto produttivo le infrastrutture necessarie alla nuova fase digitale, in modo da rendere più economica la produzione di materiale classico, ma anche di operare scelte innovative sul profilo dei prodotti e sfruttare le nuove modalità di distribuzione e di consumo (dalle enciclopedie multimediali ai libri in rete stampabili a casa).
In questo quadro anche le risorse dell’intero sistema comunicativo andrebbero ridislocate. Penso in particolare al problema della pubblicità e del rapporto tra la carta stampata (quotidiana e periodica) e televisione e della possibilità di disincentivare la collocazione, nell’ambito televisivo, anche attraverso una nuova politica fiscale e la ridislocazione di quelle risorse a favore dell’innovazione tecnologica nel settore editoriale.
Verso il professionista multimediale
La rivoluzione digitale pone problemi anche sotto il profilo dei lavori, delle professionalità, delle competenze. Personalmente credo che sarebbe astratto definire a tavolino i confini di quello che saranno i lavori nel nuovo macro-settore che sta nascendo e tentare di ingabbiarlo, all’interno di schemi precostituiti. Da pochi giorni è stato festeggiato il centenario del Cinema, ma chi avrebbe potuto definire le mansioni di un Montatore o di un Assistente alla regia ai tempi dei fratelli Lumiére?
La nuova professionalità non è facilmente descrivibile, perché sono ancora da definire le caratteristiche del linguaggio. Grammatica, sintassi, stilistica stanno muovendo i primi passi. La fotografia agli inizi imitava la pittura, il cinema era incerto fra il romanzo e il teatro, e solo dopo qualche decennio trovarono le loro caratteristiche espressive. Oggi il multimediale imita la post-produzione video, le diapositive, il libro, il disco, e deve ancora trovare il suo specifico.
Detto ciò, comunque, non possiamo pensare di subire passivamente i processi di cambiamento, anzi. Credo che su questo terreno il sindacato, in particolare la CGIL, stentino a rendere corposa, sotto il profilo dei contenuti, la scelta di andare alla costituzione del Sindacato della Comunicazione.
Confini contrattuali e ridefinizione delle mansioni sono oggi una opportunità, domani saranno una scelta obbligata, dopodomani una scelta subita.
Non ho qui l’opportunità di dilungarmi, e non spetta ad un partito avanzare proposte, ma tutte le figure del nostro mondo stanno mutando verso un punto che oggi sembra più chiaro di ieri e, all’appuntamento occorrerà che qualcuno risolva il problema della rappresentanza.
Lungo questa marcia, molte professioni, probabilmente anche molti contratti nazionali, saranno superati, integrati, modificati.
Il sindacato confederale può scegliere di continuare la strada di mera resistenza, una conservazione dell’esistente, oppure scegliere quella di interpretare le potenzialità avanzate che offre lo sviluppo e rilanciare la sfida ai gruppi dirigenti dell’intero settore.
Per una “416” della fase multimediale
In questa legislatura sono state presentate alcune proposte di intervento in campo editoriale. Alcune anche da Rifondazione Comunista.
Molte delle proposte avanzate sono condivisibili. Mi riferisco alla possibilità di detrazione delle spese culturali, al controllo delle politiche di dumping sugli sconti in ambito editoriale, al rilancio del ruolo e delle dotazioni per le biblioteche pubbliche o di quelle carcerarie, come è capitato a Milano dove l’associazione Alambrado e il nostro consigliere comunale Umberto Gay hanno trovato il favore di strutture come la Libreria Calusca, ma anche di importanti case editrici come la UTET (che ha fornito enciclopedie), la Feltrinelli, la Longanesi, la De Agostini e la Mursia. (Dispiace soltanto che case come la Rusconi o Mondadori, si siano rifiutate di intervenire).
Tutti interventi necessari ma a nostro avviso ormai non più sufficienti.
Ho tentato di illustrare il passaggio d’epoca, almeno secondo Rifondazione Comunista, e come questa fase ridisegnarà l’intero quadro della produzione editoriale e culturale. È per questo motivo che pensiamo non tanto ad un semplice intervento di “sostegno”, pur necessario e indispensabile, ma alla ridefinizione di un vero e proprio diritto costituzionale e, cioè, quello a comunicare. La salvaguardia della pluralità delle fonti (giornalistiche, informative, editoriali, culturali) non è solo un diritto inalienabile, ma a ben vedere anche una necessità intrinseca dello sviluppo multimediale.
Occorre, quindi, un nuovo strumento di intervento legislativo che punti a due obbiettivi inalienabili per una società avanzata: dotarsi di una industria produttiva capace di competere della e nella multimedialità e, nel contempo, una forte riqualificazione dei lavori e delle professionalità.
In altri termini, servirebbe un patto che miri ad assicurare alle imprese la possibilità di innovare la loro tecnologia e al mondo del lavoro, da un lato di non venire falcidiato dai processi di ristrutturazione e, dall’altro, di vedere riqualificata la propria professionalità in un ambito digitale.
La collettività nazionale potrebbe assumersi l’impegno di dotarsi di una legge in grado di incentivare la ricollocazione dell’intero sistema editoriale nella fase multimediale del prossimo secolo.
Da una fase legislativa di tale genere, in grado di fornire forti agevolazioni per il finanziamento dell’innovazione, potremmo uscire con un forte avanzamento sotto il profilo tecnologico, diffuso territorialmente e con una gamma ampia di opportunità produttive a livello nazionale e internazionale. Ciò consentirebbe il mantenimento di una forte area professionale, ridisegnata e riqualificata, in grado di offrire prodotti e servizi sul mercato globale, impedendo il depauperamento del patrimonio di risorse umane e di conoscenze ancora presenti nel settore.
Potremmo chiamare questa scelta come la “416 della fase multimediale“, anche per richiamare un clima legato a quella stagione di proposte e non tanto per nostalgia di un intervento che ha avuto molte luci, ma anche qualche, grave ombra.
Abbiamo scelto di non presentarci ad un convegno con una proposta chiusa, ma di proporre un terreno di confronto che possa essere, almeno per noi, indicativo dello stato di avanzamento di sensibilità, interessi, esigenze. Ma non abbiamo scelto di rinunciare ad un nostro, preciso, punto di vista.
Siamo convinti che da confronti come questo possano venire spunti importanti di riflessione per il lavoro di tutti noi.
Ci impegniamo a raccogliere i suggerimenti e le osservazioni che verranno oggi e, più in generale, dal dibattito tra esperti e addetti ai lavori, per avanzare, già nella prossima primavera in un appuntamento, probabilmente romano e promosso insieme ai nostri Gruppi Parlamentari, una ipotesi dettagliata di intervento legislativo.
Derrick De Kerckhove, il direttore del programma McLuhan, nonché allievo prediletto del teorico canadese, afferma da tempo che il nostro mondo non rappresenta più un villaggio globale, ma è più simile ad una “mente globale”. In questa nuova dimensione di interazione l’Italia deve scegliere la sua collocazione. Noi comunisti vogliamo aiutare il nostro paese a non subire scelte passive e passivizzanti.
DIEGO NOVELLI (Editori Riuniti)
Io vi ringrazio dell’invito e soprattutto dell’iniziativa che cade in un momento estremamente opportuno anche alla luce delle polemiche di questi giorni circa l’iniziativa di Mondadori.
Sono consapevole dell’evoluzione o meglio, della tempesta, come dite nel programma di questo convegno, che ha investito l’editoria soprattutto a seguito della rivoluzione tecnologica. Sono fresco di lettura dello sconvolgente “Essere digitali” di Negroponte, quindi non ho bisogno di sottolineature. Voglio qui però invece richiamare l’attenzione di tutti voi ed in modo particolare dei compagni di Rifondazione Comunista su di un aspetto che è stato sfiorato dalla relazione, che integra però il “che fare” di chi è chiamato ad operare sul fronte politico, nel quadro di quanto ci è stato descritto da Bellucci nell’interessante relazione, per ciò che riguarda il mondo dell’editoria, ai giornali, al mondo dei librai e a quello degli editori. Io credo che sarebbe sbagliato, (non che non sia necessario) limitarci ed insistere nel rivendicare misure settoriali o congiunturali. E’ giunto il momento che le forze politiche della sinistra, anche alla luce degli sconvolgimenti politici che si sono verificati in questi ultimi anni, si pongano obiettivi più ambiziosi. Il tessuto democratico di questo paese è a rischio, perché fragilissimo proprio da un punto di vista culturale. Fin quando ci sono state le due grandi “chiese” , che nel bene e nel male riuscivano ad orientare milioni di cittadini, di lavoratori italiani, i rischi sono stati minori; entrate in crisi le due grandi chiese (PCI e DC) ci sono sbandamenti e oscillazioni che ci dovrebbero far riflettere tutti. Quando a marzo, faccio un esempio, a Brescia hai un risultato elettorale, a novembre ne hai uno diametralmente opposto, (che a me fa piacere), che comunque pone dei problemi, perché il marzo successivo potrebbe di nuovo essere con grande facilità ribaltato.
Parto dai giornali: abbiamo assistito in questi ultimi anni ad un calo costante di quotidiani, siamo passati dal ’90 ad oggi da sei milioni e quattrocentomila copie a sei milioni di copie quotidiane, malgrado tutte le invenzioni che sono state escogitate compresi i gadget. Ho presentato una proposta di legge per abolire i gadget che ha suscitato molte polemiche… non sono serviti né i film né i preservativi, perché siamo arrivati ad infilare nei settimanali anche i preservativi, pensando di aumentare la vendita dei giornali.
Siamo alla battaglia sul prezzo fisso, abbiamo presentato una proposta di legge sul prezzo fisso. Sull’ultimo Tutto libri de La Stampa abbiamo letto un articolo dell’economista Deaglio abbastanza stupefacente, il quale per sostenere il libero mercato, confonde la concorrenza tra i produttori con quella tra commessi viaggiatori. Vorrei mandargli in rilettura “Morte di un commesso viaggiatore” di Miller. Non penso che il mercato sia garantito dalla concorrenza tra i poveracci, e per poveracci intendo larga parte dei librai. Semmai il mercato è garantito dalla concorrenza tra i produttori, non tra i rivenditori.
Queste questioni che io considero fondamentali per il futuro della democrazia di questo paese, vanno affrontate alla radice. Il problema, è quello di allargare la base dei consumatori altrimenti non c’è niente da fare. Per i giornali, ad esempio, si dice “aumentiamo i punti vendita”. Mi fa strano che i rappresentanti sindacali – vedo qui alcuni compagni presenti – abbiano accettato, sia pure in fase sperimentale, questa richiesta. Il giorno in cui in Italia ci siano centomila punti vendita, i due terzi della produzione di giornali va fuori mercato, perché gli editori non sono in grado di coprire la rete. Ma ci vuol molto a capire questo? Si dice: dobbiamo offrire al lettore le più ampie possibilità per l’acquisto. No … io voglio che il lettore avverta la necessità – io l’ho definita un’esigenza igienica mentale, come nei paesi civili al mattino ci si lava la faccia o ( adesso c’è un’abitudine più estesa ) ci si lava i denti, diciamo – diventa un fatto naturale, l’esigenza mentale di essere informati al mattino, di leggere un giornale, ed avere delle notizie.
Invece noi pensiamo di allargare i punti vendita, così significa mandare fuori mercato i due terzi dell’editoria periodica e quotidiana. Allora come si fa ad allargare il mercato: alfabetizzando questo paese. Ma possiamo continuare ad avere un paesi di analfabeti di ritorno, possiamo avere un paese che ha il 23% dei suoi cittadini che non hanno conseguito la V elementare? Possiamo avere un paese che ha circa il 60% dei suoi cittadini che non ha completato la scuola dell’obbligo che è al 14° anno di età? Siamo a Torino, città operaia: l’operaio della Fiat Mirafiori è svantaggiato nei confronti dell’operaio della Volkswagen, perché in misura del 70% l’operaio di Mirafiori non ha completato la scuola dell’obbligo al 14° anno di età, mentre l’81% degli operai della Volkswagen hanno completato la scuola dell’obbligo al 18° anno di età. E quindi anche nei processi di ristrutturazione quell’operaio è più facilmente, per usare una brutta espressione dell’Avvocato, “riciclabile”, mentre l’operaio di Mirafiori a 40 anni è un ferrovecchio, non serve più, non è più adatto ai cambiamenti, all’introduzione di nuove tecnologie. Ecco da dove dobbiamo partire, ecco la sinistra da quali posizioni deve muovere. E allora, mi avvio alla conclusione, estensione della scuola dell’obbligo al 18° anno di età, ma soprattutto, io ritengo, partire dall’infanzia, dalla scuola del preobbligo, questo è il grande investimento che un paese civile deve fare: partire dalla scuola del preobbligo, dall’infanzia, dall’asilo, dalla scuola materna, introducendo delle materie che stimolano la curiosità, questo è un paese che ha degli stimoli verso il pettegolezzo e non verso la curiosità. A partire dalla maggior parte dei giornali, noi suscitiamo nel lettore il gusto del pettegolezzo, non l’amore per la curiosità. Il pettegolezzo è un elemento passivo, la curiosità è un elemento attivo.
Introducendo l’educazione artistica, l’educazione musicale, la seconda lingua, crei un cittadino che ad una certa età avverte il bisogno di conoscere, di sapere, di capire. Introducendo per legge – e questa è una proposta che noi abbiamo già preparato e chiederemo ai compagni di Rifondazione se la sostengono – come materia obbligatoria dal 14° anno in avanti, la lettura quotidiana del giornale, un’ora al giorno di lettura del giornale. E’ una forma di educazione civica. In un quotidiano c’è tutto , dall’economia alla geografia, la storia, la politica, tutto, tutte le mattine un’ora al giorno … Ecco allora che gli editori anziché andare a elemosinare lo sconto sull’ IVA, sulle tariffe postali, su quelle telefoniche, il calmiere sul prezzo della carta, provvedimenti giustissimi ma di corto respiro, con un carattere di tipo assistenziale, rivendichino interventi strutturali, che creino un’utenza nuova. La lettura del quotidiano come materia obbligatoria nelle scuole medie e superiori è un incentivo innanzitutto al consumo immediato di una quantità enorme di giornali, ( indipendentemente poi dalla testata perché .. sarà libera scelta degli studenti e dei loro insegnanti ); ma soprattutto costruisce un cittadino che autonomamente avvertirà in futuro l’esigenza di leggere senza la sollecitazione del gadget per sentire questo stimolo. Io sono un curioso, sono rimasto un vecchio cronista, faccio delle indagini campione che non hanno nessun valore scientifico, ma che mi divertono moltissimo. Vado dal mio giornalaio di Piazza Robilant e vedere al lunedi molte copie dell’Unità del sabato rimaste lì, che butta via, ma che ha conservato le cassette per gli impiegati del grattacielo della Lancia, che passeranno a ritirare la cassetta del film che hanno prenotato.
Ora, è un incentivo alla lettura dei giornali, questo? Il giorno in cui cessa l’abbinamento della cassetta tutto ritorna come prima. Cioè non si è costruito niente. Ecco perché chiedo ad una forza politica come quella di Rifondazione che ha questa attenzione, che ha questa sensibilità su questi problemi, che purtroppo non si avverte più nell’ambito della stessa sinistra, di muoverci assieme e subito finché siamo in tempo. Grazie.
GIUSEPPE LO CASCIO (SI.NA.GI.)
Il mio sindacato rappresenta la categoria dei giornalai. Ho adesso ascoltato quanto ha detto l’on. Novelli, per noi è motivo di soddisfazione, anche perché le problematiche che ha evidenziato da parte nostra sono state sempre sostenute in tutte le sedi e l’aspetto più strano è che una categoria, come quella dei giornalai, si è fatta carico anche di elevare nelle strutture scolastiche la possibilità di approfondire e commentare il quotidiano, per ampliare la fascia dei lettori. Abbiamo messo in piedi seminar, abbiamo portato i giornali nelle scuole, e abbiamo trovato poca attenzione da parte del mondo editoriale. Quindi condividiamo tutto quanto l’on. Novelli qui ha riferito.
Siamo stati invitati a questo convegno e con piacere abbiamo accolto l’invito anche se il tema per una categoria di giornalai evidentemente pone anche dei limiti di valutazione, ma vorremmo portare un nostro modestissimo contributo per quanto riguarda il processo della distribuzione del prodotto stampato in Italia. Quindi prendete questo mio intervento come contributo conoscitivo dell’attuale sistema distributivo della carta stampata in Italia, e intendo porre al convegno alcune riflessioni sul sistema e se questo sistema potrà reggere l’impatto con la rivoluzione dei nuovi sistemi d’informazione.
Una prima sottolineatura da farsi è quella che le modalità distributive dei quotidiani e periodici hanno ben pochi riscontri con i sistemi di commercializzazione di altri prodotti. L’informazione scritta per essere diffusa ha la necessità di disporre di efficienti servizi e di una capillare organizzazione per dare a tutti i cittadini il diritto all’informazione. Il sistema presenta alcune caratteristiche particolari che così possiamo riassumere. Il coinvolgimento diretto delle aziende editoriali nelle varie fasi in cui si articola la distribuzione delle pubblicazioni, la preponderanza del trasporto privato rispetto all’utilizzo dei servizi pubblici. Le iniziative editoriali per sopperire alle carenze rappresentate da un inefficiente servizio postale. La diffusione del quotidiano, stante la sua massima deperibilità, rappresenta per l’editore un onere organizzativo che lo vede impegnato in tutte le fasi del processo distributivo, mentre le aziende editrici dei periodici possono darsi organizzazioni differenziate. I più grandi gruppi, Mondadori, Rizzoli, Rusconi, curano direttamente la commercializzazione dei propri prodotti, quindi gestiscono il processo distributivo coordinando il trasporto e concordando con le imprese di distribuzione che operano normalmente a livello provinciale, le condizioni economiche operative di fornitura alla rete di vendita.
La piccola editoria condizionata da fattori economici per coprire diffusionalmente tutto il territorio nazionale deve rivolgersi a strutture organizzate che con le opportunità offerte dall’accorpamento di fatturati programma organicamente la distribuzione di prodotti editoriali diversi tra di loro. L’inefficienza del servizio pubblico ha determinato l’abbandono dell’utilizzo del trasporto ferroviario, alcune proposte già in passato erano state avanzate alle istituzioni, come quella di consentire ai quotidiani il carico sui treni viaggiatori in partenza ad orari utili, dalle località sedi di centri stampa o da altri snodi ferroviari. Oppure per i periodici, l’istituzione di almeno due treni stampa veloci, partendo da Milano, uno verso la linea tirrenica e uno verso la dorsale adriatica. Tale servizio dovrebbe avere frequenza per sei giorni la settimana. Sul fronte del servizio postale, prefigurando il panorama di qui nei prossimi anni e il progredire di una editoria elettronica, è evidente che si renderà necessario l’adeguamento della normativa che regola la distribuzione delle pubblicazioni attraverso il servizio postale.
Un interrogativo d’obbligo ce lo dobbiamo porre un po’ tutti: è possibile in uno stato democratico, in cui l’informazione rappresenta uno dei più alti valori che una società civile ha, rilevare che da parte delle istituzioni, a tutti i livelli, viene dimostrato il più completo disinteresse nei confronti dell’informazione scritta? Occorre una legislazione organica, che preveda regole e incentivi all’editoria italiana e a tutto il comparto coinvolto nel processo distributivo. Se ciò non avvenisse, non solo tante testate, in particolar modo i piccoli editori, andrebbero incontro alla loro scomparsa dal mercato, il che significherebbe un forte condizionamento al pluralismo dell’informazione e si continuerebbe ad assistere, come ancora oggi avviene, che non a tutti i cittadini è riservato il diritto di essere informati. Infatti, per le più diverse motivazioni, primo tra tutti i recenti costi dei trasporti, in molti centri – in special modo al sud d’Italia – non si riceve il quotidiano, oppure ricevere il quotidiano in tempo ottimale rappresenta una pia aspirazione. Siamo alle porte del 2000, parliamo di grandi trasformazioni nel mondo della comunicazione, e assistiamo ancora a delle realtà che hanno di preistoria. Da una ricerca fatta dal Centro studi sul commercio della Bocconi di Milano, viene fuori in quadro negativo dell’attuale sistema distributivo della carta stampata in Italia. Basta soffermarci solamente sull’aspetto dell’informatizzazione per rilevare la mancanza di un deciso salto tecnologico nelle metodologie delle trasmissioni dei dati. E i principali ostacoli trovano le più diverse motivazioni. E’ pensabile rimanere fermi, alla vigilia di nuovi sistemi di produzione e di organizzazione del lavoro? Noi come rappresentanti sindacali della categoria di rivenditori di quotidiani e periodici, riteniamo che anche l’edicola debba trasformarsi; pensiamo già all’edicola telematica: questo non significa perdere il nostro ruolo di diffusori di carta stampata, ma andare al passo con l’innovazione tecnologica, per consentire il superamento dei limiti organizzativi esistente nel settore del processo distributivo e rendere possibile il superamento dei tradizionali sistemi di distribuzione.
Questo primo passaggio dovrebbe consentire successivamente l’approdo all’edicola multimediale. Ci rendiamo conto che il futuro è nell’editoria elettronica e multimediale. Il prodotto elettronico diventerà un elemento caratterizzante della nostra società. L’informazione elettronica ipertestuale interattiva e personalizzata sarà il nuovo modello di diffondere l’informazione. Auspichiamo che questo sforzo di ammodernamento del nostro tradizionale manufatto, edicola, venga supportato da incentivi finanziari a cui il legislatore dovrebbe provvedere. In questi ultimi anni abbiamo assistito che il canale edicola ha venduto e vende informazione impacchettata e CD, il che ha rappresentato per i rivenditori un maggior impegno professionale dovendo commercializzare un prodotto ben diverso dalla tradizionale informazione scritta. La qualità professionale stessa della rete di vendita ci conforta ad essere pronti per il futuro e dare così risposta positiva a tutte le innovazioni tecnologiche che si presenteranno nel settore dell’informazione globale. Il tutto finalizzato sempre a garantire il pluralismo dell’informazione e il diritto del cittadino ad essere informato.
FABIO GIOVANNINI (Giornalista)
Cercherò di essere digitale e veloce come richiesto dai tempi che abbiamo a disposizione. Dico poche cose prendendo spunto dalla relazione, che contiene delle novità non indifferenti.
C’è una prima novità che saluto con soddisfazione: si usa ufficialmente il concetto di industria culturale, concetto che a me non piace moltissimo, ma che mi ricorda sempre quanto mi raccontava il professore con cui ho fatto la tesi di laurea, Ivano Cipriani. Cipriani era negli anni ’70 il critico televisivo di Rinascita, e gli veniva sempre censurata la parola “industria culturale” dal direttore di allora , che era Giorgio Napolitano. Non doveva essere usato questo concetto, evidentemente ritenuto un’aberrazione dall’allora marxista ortodosso, Napolitano, estensore di saggi su Lenin su cui anch’io mi sono formato.
Chiusa questa piccola parentesi di memoria storica comunista, vorrei segnalare un’altra cosa interessante, un’altra novità: si parla della necessità di occuparsi, anche da parte di un partito come il nostro, di svago e intrattenimento. Anche questo non credo sia un fatto scontato o tradizionale. Mi permetto invece di fare una piccola osservazione critica sull’uso della parola “sviluppo”, troppo subalterno ad un linguaggio da mettere in discussione. Ecco, dovremmo prendere atto che oltre la rivoluzione digitale abbiamo avuto anche una rivoluzione di pensiero (o per lo meno dei tentativi grossi) grazie al pensiero verde. La cultura ecologista e ambientalista ci ha invitato a mettere in discussione e a ripensare lo stesso concetto di sviluppo, non solo la necessità di indirizzare lo sviluppo, che è certamente una delle nostre aspirazioni fondamentali. Vista la crisi dell’ambiente, emerge la difficoltà di esportare in tutto il pianeta un certo tipo di sviluppo, anche uno sviluppo “ridimensionato”, perché ne conseguirebbe un tracollo ambientale. Ripensiamo allora anche la parola sviluppo. Cerchiamo di non utilizzarla in modo un po’ superato.
Passo rapidamente ai nodi più legati all’editoria e al tema della multimedialità. Ritengo che vada constatata una caratteristica che sta prendendo il mercato: ci sono i grandi e ci sono i piccoli. In qualche modo è detto anche nella relazione. Nell’editoria è così: appena un editore tenta di fare un passo più avanti della sua dimensione di “piccolo” editore, entra in crisi. Abbiamo una serie di episodi sotto i nostri occhi di editori prestigiosi ( piccolo, ma potremmo dire anche medi) che appena tentano di fare una scalata nella loro dimensione, entrano irrimediabilmente in crisi. Evidentemente il mercato che si avvia verso il 2000, descritto nella relazione, è fatto così: c’è spazio solo per i grandi, sempre più concentrati in pochissime mani, e per i piccoli, mentre non c’è spazio per realtà più consistenti. L’esempio di Microsoft è veramente emblematico e da guardare con grande attenzione, perché ci prefigura quello che sta succedendo in Italia. C’è una grossa contraddizione nel mondo dell’informazione e della comunicazione, ed è lì che noi dobbiamo operare, perché è nelle contraddizioni della società capitalistica che ci può essere un ruolo e una funzione per una forza comunista. E la contraddizione è proprio questa: c’è una grande possibilità grazie alle nuove tecnologie di diffondere chances che prima erano limitate solo a chi aveva tantissimi quattrini per fare un giornale, per stampare un libro, per comunicare. Adesso, grazie a questa nuova tecnologia, c’è la possibilità addirittura – con pochissimi soldi, diciamo la verità – di entrare in comunicazione mondiale con altri che sono interessati alla stessa elaborazione. E però questa grande chanche che ci darebbero le nuove tecnologie, è messa in crisi e in discussione dalla concentrazione sempre crescente in pochissime mani. Quindi, un potere sempre più concentrato ed invece una possibilità sempre più diffusa. Allora è su questa contraddizione che credo noi dovremmo operare e capire quali sono le dinamiche in atto.
Quindi possibilità grandi, che costano tra l’altro poco, diciamo anche questo. E’ interessante il materiale allegato alla relazione, con i consumi tecnologici delle nostre famiglie. Io credo che sarebbe bello aggiungere l’automobile a tutte quelle merci che ci vengono illustrate; l’automobile è un bene che ha un costo altissimo se paragonato ad un computer, e però anche la gente comune, anche i lavoratori, perché si devono spostare con questi mezzi e perché la società è stata costruita in funzione dell’automobile, sono disposti a considerare ovvio spendere quindici milioni del proprio bilancio per comprare un’automobile. E’ una cosa che non ci fa drizzare i capelli in testa, mentre magari il computer non entra in casa anche se con due milioni si può avere una macchina già abbastanza interessante. Chiudo rapidamente: ritengo sia giustissimo cercare di operare in quella contraddizione che dicevo attraverso strumenti legislativi, riproponendo un tema grandissimo che credo ci caratterizza anche come comunisti: cioè quello dell’indirizzo del mercato, della società, della produzione. Forse tra le tante cose che è difficile capire in questa fine millennio digitale c’ è appunto una differenza profonda tra schieramenti sociali, politici ed anche culturali: la differenza fra chi ritiene che il mercato debba essere lasciato alle sue dinamiche, alla legge del più forte in sostanza, e chi ritiene che sia giusto indirizzare, secondo criteri di utilità sociale e pubblica, la produzione. Direi che non è nemmeno più il problema della proprietà dei mezzi di produzione se mi posso permettere un’eresia marxista. Oggi è già rivoluzionario dire che bisogna indirizzare e controllare le scelte fatte dall’imprenditore privato, pur lasciandogli la proprietà dei mezzi di produzione! Allora è giustissimo proporre misure legislative per intervenire in questo, purché non siano di pura resistenza e protezionismo. Alcune cose dette dall’on. Novelli nel suo intervento mi sembravano molto segnate da un atteggiamento di resistenza e protezione, di trincea, verso ciò che insidia le nostre vecchie abitudini. Ovviamente, c’è da mettere qualche paletto; però credo che ci sia anche da capire le novità senza demonizzarle in tutto e per tutto. E allora occorrono misure legislative, credo molto anche nell’iniziativa dei soggetti sociali, dei cittadini, delle librerie, delle case editrici. A questo mercato che va sempre più concentrandosi e verticalizzandosi si risponde solo se la piccola editoria di qualità, se la miriade di esperienze esistenti non resta frammento che agisce soltanto per sé ma invece riesce a trovare forme di collaborazione e di alleanze. Io credo che i piccoli editori di qualità – faccio questo esempio visto che sono anche parte in causa, collaborando da tempo con una casa editrice come Datanews – riescono ad affermarsi, a sopravvivere, forse ad espandersi (senza dover fare quel famoso salto che li mette in crisi) se si coalizzano, se riescono a mettere in comune non solo i debiti, come potrebbe succedere se si capisse male questa proposta. Per aumentare il proprio potere contrattuale non devono agire come monadi, ma mettere insieme delle reti. Da questa rete di piccoli editori di qualità si potrebbero rafforzare le trattative con i distributori per affrontare il problema della distribuzione, con le agenzie pubblicitarie per avere dei contratti più favorevoli, per pubblicizzare i propri cataloghi sui quotidiani e su altri strumenti informativi; si potrebbero creare servizi in comune, per esempio con le ditte che fanno multimedialità (costa ancora tantissimo, per un editore, fare un CD-Rom). Se gli editori di questa dimensione si mettessero in rete, in sintonia, per fare contratti e trattative comuni, per avere servizi di multimedialità, credo che ci sarebbero dei vantaggi anche concreti.
Quindi la mia proposta è di puntare sul momento dell’intervento legislativo capace di capire quello che abbiamo di fronte senza limitarsi ad un approccio resistenziale e contemporaneamente però sviluppare queste dinamiche, più “sociali”, di iniziativa da parte dei soggetti che operano in questo campo.
MARCO BASCETTA (Manifestolibri)
Quando si parla di industria culturale, o più propriamente dovremmo dire oggi, d’industria dell’informazione, della comunicazione, si parla ormai oggi di un modello generalissimo e pervasivo, che detta legge all’intera produzione di merci. Qualcosa di paragonabile al posto che occupava l’industria pesante, il carbone e l’acciaio, el secolo scorso. Dell’ industria della comunicazione e dell’informazione, è ormai arduo tracciare confini: essa include non solo settori intuitivamente contigui (come la pubblicità), ma incarna e costituisce quei caratteri linguistici, interattivi, relazionali, che pervadono e condizionano quasi ogni ramo produttivo, almeno come modello che lo sovrasta. In questo quadro generalissimo che contempla un universo di conflitti e problemi cruciali per il tempo presente, l’editoria in senso stretto, e in senso ancora più stretto, l’editoria libraria, occupa un posto assai limitato e tendenzialmente marginale. Io non credo che l’editoria libraria sia minacciata di sparizione, però credo che le sia riservato un destino simile a quello che è toccato al teatro: il cinema non lo ha cancellato, ma sicuramente lo ha confinato in uno spazio circoscritto, anche se importante, con un suo pubblico e un suo peso nella vita culturale. Ma il teatro non può più essere un fatto di massa. Analogamente, aspirare a ricondurre il libro ad una diffusione di massa è una illusione che credo si debba abbandonare. Però, certo, almeno in questo paese, possiamo aspirare a raggiungere gli standard degli altri paesi europei nella diffusione del libro, dai quali restiamo ancora ben lontani.
Un altro elemento da considerare è che il libro, come del resto molte altre merci, subisce attraverso le nuove tecnologie di produzione e riproduzione e i canali di circolazione dell’informazione un processo – chiamiamolo così – di “dematerializzazione”, che finirà col mettere in crisi il sistema del copyright. Il che è in sé anche una cosa buona, perché il copyright è un rapporto di proprietà. La crisi del copyright, in quanto crisi del rapporto di proprietà, non riguarda solo i prodotti dell’industria culturale, ma la difficoltà stessa di stabilire diritti di proprietà su certi prodotti dell’innovazione, che sfocia in un fattore di crisi dell’intero sistema di mercato: dai brevetti ai nuovi prodotti biologici o informatici, a tutta la produzione strettamente legata alla creazione intellettuale e sperimentale.
Questo processo di smaterializzazione, per quanto riguarda la vita materiale degli editori, si manifesta in meccanismi di riproducibilità e diffusione del prodotto – parlo del libro, del testo scritto – che lo rende più economico e accessibile. Da una parte, questo processo mette in crisi l’azienda editoriale, anche e soprattutto quella piccola, anche di qualità, anche militante, ma, dall’altra parte, contiene in sé una formidabile potenzialità democratica. Dalla banale fotocopiatrice degli studenti a tutti i più svariati strumenti e supporti informatici, fino alla famosa editoria just in time che stamperà il libro ad hoc in singola copia per il singolo cliente e che rappresenta l’esito estremo del libro usa-e-getta, nato con i millelire, cinquemilalire, insomma con i libri non destinati ad avere una durata come supporto materiale, testi capaci di adattarsi e circolare su veicoli effimeri e occasionali. Di fronte a tutto questo c’è, secondo me, ben poco da fare, anche perché non sarebbe ragionevole contrastare simili possibilità di accesso generale, libero e a buon mercato, ai prodotti della cultura. Se non decidere di aiutare per via politica queste “aziende” – ma non so neanche se sia giusto chiamarle ancora così – questi centri di produzione di cultura, aiutarli per via politica a vivere fuori mercato. Come “Lavoro socialmente utile” e investimento della collettività nell’innovazione e nella ricerca. Insomma, l’informazione, la comunicazione, da una parte, la proprietà e la possibilità di trarne profitto, dall’altra, esprimono una contraddizione che a me interessa fare esplodere. La produzione editoriale, la produzione di testi può anche cessare di essere l’opera di case editrici, di aziende professionali dedite a questo: può anche diventare un fenomeno più diffuso, legato alle librerie, ai circoli, ai centri di discussione, agli istituti di ricerca, a gruppi spontanei. Non è detto, insomma, che l’azienda editoriale come l’abbiamo conosciuta finora, possa o debba sopravvivere.
Questo sul versante della società. Ma sul versante del capitale che cosa è successo? E’ avvenuta una enorme immissione di capitale extra-editoriale nel mondo dell’editoria. Questo ha consentito le concentrazioni, l’assorbimento di numerosi marchi all’interno di grandi holding. Questi capitali non sono stati prodotti con la fabbricazione e la vendita dei libri, dei giornali, dei settimanali, ecc. Quest’immissione di capitale extra-editoriale ha completamente alterato i contorni, gli equilibri e la qualità del mercato, inducendo, per esempio, una spaventosa sovrapproduzione che tutti gli editori e i librai conoscono benissimo: quel famoso meccanismo che spinge a produrre sempre di più, determinando un vertiginoso aumento delle rese e la conseguente necessità di produrre sempre di più per coprire le rese crescenti: questo circolo vizioso, questa rincorsa infinita è stata resa possibile solo dall’esistenza di una possibilità finanziaria generata fuori dal mercato editoriale, ma che in esso agiva alterandolo, ivi compresi quei meccanismi commercial, come le forniture coatte e le lunghe dilazioni dei termini di pagamento, che solo le grandi aziende sono in grado di praticare.
Solo due rapidissime domande per concludere queste osservazioni: una cosa mi interesserebbe sapere: in tutto questo processo cosa ne sarà dei librai? Perché, se vedo un futuro gramo, o di trasformazione dell’azienda editoriale, credo che anche le librerie non rimarranno quelle che sono state finora. Per esempio, un sistema come quello dell’editoria just in time sarà gestito direttamente dai librai? Oggi, le librerie sono ostaggi e vittime di una fortissima pressione da parte dei grandi gruppi che le costringono a lavorare in un certo modo; sono vittime, ma anche corresponsabili, del tempo di vita sempre più breve di un libro in libreria, dell’invasione di novità, spesso discutibili, e della sparizione dei cataloghi.
Un’ ultima osservazione sui supporti informatici. Parliamo solo di libri, ma il resto? Il resto, lo dico in due parole, è secondo me, almeno in Italia, a livelli ancora molto primitivi per offrire dei buoni prodotti culturali. I CD-Rom in circolazione sono, lo dico commettendo anche qualche ingiustizia, di una elementarietà estrema, e circoscritti ad ambiti specifici, soprattutto la storia dell’arte e la consultazione enciclopedica. Per numerose categorie di testi restano invece seri problemi di lettura. Non esiste ancora una via pienamente sostitutiva della tradizionale forma di circolazione del testo. Quindi, come vedete ci sono varie forze contraddittorie che agiscono in direzioni diverse. La situazione è estremamente confusa e in pieno movimento.
MAURO MORELLINI (Edizioni Tempi Stretti)
Lo sviluppo telematico che ha caratterizzato gli ultimi vent’anni ha sicuramente cambiato radicalmente, oltre al mondo della comunicazione, numerosi specifici ambiti professionali. Tra questi, il mondo dell’editoria è stato tra quelli attraversati dalle più profonde rivoluzioni, sia dal punto di vista dell’allargamento delle possibilità di produzione a numerosissimi “soggetti minori”, sia da quello della trasformazione dell’ambito lavorativo e delle figure professionali, in una parola del ciclo di produzione.
Partiamo dal secondo aspetto. L’introduzione del DTP ha imposto un continuo aggiornamento a fotolitisti e compositori e ha sconvolto la struttura interna delle stesse case editrici, assottigliandone l’organico e incentivando il decentramento delle varie fasi di lavorazione.
La fase della progettazione grafica, quella della redazione e correzione bozze si stanno sempre più spostando all’esterno delle case editrici. Gli stessi originali arrivano ormai, almeno al 70% dei casi, su dischetto da parte degli stessi autori, rendendo di fatto la casa editrice un punto di raccordo piuttosto che di produzione in senso stretto. Questa struttura fortemente decentrata risponde inoltre maggiormente alle esigenze, soprattutto delle piccole case editrici, di una produzione “a soffietto”, più intensa in certi periodi dell’anno.
Da questa rivoluzione sono nati numerosi nuovi soggetti professionali che con un piccolo investimento iniziale in hardware e software sono diventati nuovi referenti per le case editrici. Le nuove tecnologie di comunicazione via modem rendono inoltre questo mondo potenzialmente adattissimo al tele-lavoro.
A questi rapidissimi cambiamenti, con un quadro in perenne mutamento, sia dal punto di vista delle possibilità offerte dalla tacnologia, che delle tabelle di prezzi, non corrisponde ancora un adattamento delle normetive che regolano il settore. La figura del prestatore d’opera occasionale è quanto di più indefinito dai vari regolamenti. Di fatto viene incentivata la costituzione di ditte individuali con proprie partite IVA, situazione questa che limita l’ingresso di nuovi soggetti, soprattutto giovani, in questo mondo.
Per quanto riguarda la produzione editoriale, la pubblicazione di edizioni – la stessa autoproduzione – è ora possibile a costi molto più contenuti. Ciò ha permesso la diffusione di libri, fascicoli e pamphlet anche a soggetti finanziariamente poco sostenuti: penso ad esempio ai centri giovanili, che da diversi anni fanno sentire la propria voce, almeno in ambito locale, anche grazie all’introduzione del DTP. Rimane però immutato il collo di bottiglia rappresentato dalla diffusione su scala nazionale. Certo sarebbe auspicabile prima o poi che le strutture editoriali di maggior peso sapessero recepire questi fermenti di creatività e di presenza sul sociale, riuscendo a creare una cassa di risonanza a fenomeni tuttora emarginati. Il quadro odierno è pertanto, a mio avviso, tutt’altro che statico: a dispetto della crisi imperante, l’attività del settore editoriale è quanto mai fervida.
Il problema, lo sappiamo tutti, è che a un’espansione della produzione, che a tutt’oggi supera i 40.000 titoli all’anno, non corrisponde un aumento della domanda. La spesa pro capite in libri in Italia è tra le più basse in Europa, lontana persino da quella degli Stati Uniti, il più delle volte portati ad esempio di deculturizzazione. Un dato questo che rivela quanto siano insufficienti, come spiegazioni della crisi, le demonizzazioni di televisione e nuove tecnologie dell’immagine, ivi incluso il multimedia, considerate le cause principali del disamore degli italiani per il libro. Il caso succitato degli Stati Uniti, come pure degli altri paesi europei sensibili quanto e più dell’Italia ai nuovi strumenti di comunicazione, lo dimostra. La sensazione, a dire il vero, è che si sia perso ogni dialogo tra la pianificazione e le decisioni delle case editrici e le richieste del pubblico, che pure, stando ai dati di scolarizzazione, teoricamente dovrebbe essere assai più cospicuo.
Occorre a mio avviso rivalorizzare la specificità del libro rispetto agli altri mezzi. Il libro ha la possibilità di rispondere a determinati bisogni e funzioni in maniera esclusiva rispetto agli altri mezzi. La consultazione di un’enciclopedia può essere più agevole tramite un CD-ROM, ma lo stesso non può dirsi di un romanzo o di una guida turistica, per i quali il libro rimarrà sempre lo strumento insostituibile.
In un clima a disperato bisogno di ossigeno, l’imperativo dell’editore oggi dev’essere quello di allargare la ristretta cerchia dei “lettori forti”, di avere la capacità di acquistare un nuovo pubblico che, lo ripeto, in un periodo di alta scolarizzazione potenzialmente è senz’altro presente.
E’ evidente che l’intervento più radicale andrebbe fatto alla radice, sulle nuove generazioni, intervenendo in primis sulla scuola. E’ così utopistico credere nella formazione e nell’incentivazione di uno spirito critico autonomo, che dia la possibilità ai ragazzi di leggere opere integrali anziché critiche o resoconti? Come pure sarebbe auspicabile un rapporto più frequente e intenso con le biblioteche, per creare una presenza sempre nuova, con il meccanismo della rotazione, all’interno delle scuole stesse, e per favorire la partecipazione degli studenti alle scelte di acquisto.
A questo riguardo, vorrei sottolineare il fatto che, per quanto il prestito gratuito sia stato per molto tempo considerato un ulteriore concorrente alla vendita in libreria, ritengo che ciò sia frutto di un’ottica francamente miope, incapace di grandi progetti e di investimenti sulla lunga distanza. A biblioteche più affollate sono sicuro che corrisponderebbero librerie più frequentate.
Qual è la situazione delle biblioteche oggi? Pur avendo sotto gli occhi numerose lodevoli iniziative da parte degli enti locali, tra cui la diffusione del prestito interbibliotecario, è mia opinione che siano fortemente sottoutilizzate e che non svolgono adeguatamente il proprio ruolo di diffusione della cultura editoriale. Diverse sarebbero le linee sulle quali agire:
– un coordinamento più continuo, facilitato anche dai nuovi sistemi, in primis Internet.
– un aggiornamento più frequente del patrimonio librario, coinvolgendo magari le stesse case editrici, che con particolari accordi potrebbero fornire volumi a prezzi molto scontati favorendo così una freschezza dell’offerta e nel contempo dando un sostegno alla produzione di tanti poveri piccoli editori.
– la costituzione di biblioteche tematiche, così diffuse all’estero.
Per restare nell’ambito della promozione, permettetemi, nell’ultima parte del mio intervento, di accennare a un tentativo di “investimento” sul territorio. Da circa un anno si è costituita a Bologna l’associazione “Liberando”, che raccoglie 10 piccoli editori operanti in regione (si tratta di Book, Granata Press, Moby Dick, Fuori Thema, Tempi Stretti, L’ Inchiostroblu, Editrice Compositori, Ermitage, I Quaderni del Battello Ebbro, Edizioni del Laboratorio). Oltre a rappresentare un utile punto d’incontro dove confrontare le reciproche esperienze, ha come principale finalità proprio quella della promozione, oltre che delle singole case editrici, della cultura del libro nei suoi vari aspetti. Abbiamo stretto un rapporto di collaborazione con gli enti locali e in particolare con il Comune di Bologna che ha consentito la costituzione di una Casa del Libro: un punto di riferimento fisico ben preciso per quanti sono interessati all’editoria in varie vesti:
– lettori e appassionati, con rassegne di incontri con l’autore e presentazioni di libri;
– giovani interessati a lavorare nel settore, con corsi di formazione per le specifiche figure professionali, gestiti direttamente dagli editori e dal loro personale, fornendo pertanto un’istruzione molto vicina alla realtà lavorativa effettiva;
– scrittori in erba o con un libro nel cassetto, per i quali funzionerà una Biblioteca dei manoscritti, che oltre a raccogliere testi in cerca di editore li metterà a disposizione del pubblico, dando così opportunità allo scrittore di essere letto e giudicato dal pubblico bypassando l’editore. Questo aspetto del progetto verrà realizzato in collaborazione con il Comune di Correggio, città natale di Tondelli, che raccogliendo l’eresità dello scrittore ospiterà i testi dei giovani, utilizzando per la raccolta e la diffusione dei testi le pagine di Internet gestite dallo stesso Comune;
– è prevista infine l’attivazione di incontri tra scuole elementari e medie e scrittori e illustratori di libri per l’infanzia.
So bene che nessuno di questi aspetti ha caratteri di originalità assoluta. Ciò che rende un esperimento interessante la nostra esperienza è, a mio avviso, il fatto che tutti insieme trovino ospitalità nella stessa sede, e che questa offra un servizio al pubblico gestito di fatto da un accordo di collaborazione tra pubblico e privato, in cui il primo interviene fornendo una buona sede e i propri strumenti promozionali; il secondo, la propria esperienza e professionalità.
PIERO DE CHIARA (Responsabile Editoria PDS)
Che cosa ci unisce e che cosa ci divide. La relazione di Bellucci mi aiuta a dire che ci unisce l’individuazione del problema che abbiamo di fronte. Non capita spesso un convegno in cui né si magnificano le sorti dell’industria del multimediale, né si raccontano le catastrofi sociologiche che sono dietro l’angolo in un mondo spaccato irrimediabilmente ma si pone con correttezza il problema centrale: le condizioni sociali per lo sviluppo di quest’industria. E infatti ho sempre pensato che questa delle due sinistre sia una grande sciocchezza: la sinistra di derivazione riformista funziona quando una grande radicalità di pensiero, quella di derivazione comunista funziona quando fa i conti con le cose possibili e le cose da fare. D’altronde questa funzione di sostegno della domanda è tipica della sinistra. Il mercato di massa da cui usciamo dei beni di consumo durevole è nato – vogliamo dire una data – il 4 gennaio del’14, quando dopo la vertenza operaia durissima Henry Ford fu costretto a raddoppiare i salari della sua fabbrica, portandoli da 2,3 a 5 dollari la settimana e non fu una sua decisione, fu una lotta operaia durissima che costruì le condizioni per quello che sarebbe stato poi il mercato di masa dei beni di consumo durevoli.
Oggi questo mercato di massa non lo si vede. Non lo si vede perché il capitalismo, il profitto da solo non lo costruisce il mercato di massa, persino contro le tendenze tecnologiche. Gli informatici conoscono la legge di Moore che dice che ogni diciotto mesi il prezzo della comunicazione elettronica dovrebbe dimezzare. Ebbene, se noi analizziamo il mercato, tutti i mercati dell’informazione ma quello informatico in particolare, ci accorgiamo che paradossalmente i prezzi, i costi per l’acquirente aumentano, perché due monopoli – la Microsoft e la Intel – premono per aumentare la memoria, l’efficienza dei programmi, per cui sostanzialmente ogni due anni noi siamo costretti a comprarci una macchina più cara della precedente, anziché dimezzata di prezzo. E allora quindi noi dobbiamo lavorare su alcuni grandi filoni, molti li richiamava anche Bellucci, che costituiscono un po’ l’agenda per una generazione, per i prossimi decenni, di una sinistra che ovviamente è diversificata ma che ha un obiettivo comune. Li accenno solo per titoli: filone pubblica amministrazione: tutte le informazioni della pubblica amministrazione devono essere rese accessibili in forma elettronica. Secondo filone, il filone dell’orario: enorme questione, ma ormai la base statistica è sufficiente per dimostrare che le nuove tecnologie tagliano tempo di lavoro. La vecchia questione – più i posti di lavoro persi o più quelli che si possono guadagnare con nuovi lavori – è risolta: sono più i posti di lavoro persi, perché fra le caratteristiche anche positive della nuova tecnologia c’è la distruzione di tutte le gerarchie intermedie, l’accesso all’informazioe permette di saltare molti gradi gerarchici interni al processo produttivo e alla stessa fabbrica. E quindi la sostituzione di quei posti di lavoro non viene di per sé da nuove mansioni; non può che venire da un’altra tappa, come altre ce ne sono state nella storia, di una riduzione radicale dell’orario di lavoro. Terzo: l’enfasi comune che poniamo noi e voi sugli aspetti del cablaggio, del cavo, perché contrariamente agli aspetti di diffusione da uno a tutti della televisione tradizionale, ma anche della televisione via satellite, il cavo, il modello Internet, – che poi è un prototipo, funzionante a banda stretta dell’autostrada elettronica – dimostra che è invece possibile con unità produttive molto ridotte costruire dei prodotti accessibili a un mercato ampio, a un mercato mondiale.
E infatti non a caso i teorici dicono che più che le grandi corporation della televisione entreranno in questo mercato le unità produttive più piccole, per esempio quelle delle case editrici, più abituate a produrre a basso costo per mercati anche molto segmentati e molto limitati.
Ultimo, ma non mi ci soffermo perché Novelli ha detto bene, una grande sottolineatura degli aspetti formativi, perché soprattutto in un paese come l’Italia i cui livelli di lettura e anche di utilizzo delle tecnologie sono incivili, incivili letteralmente – la penetrazione di Internet è un decimo di quello della Germania o dell’Inghilterra o dei Paesi scandinavi, i livelli di lettura li conoscete, be’ insomma non ci sono bacchette magiche, solamente con un piano vero e proprio: e allora lettura nelle scuole, e allora anche una riforma radicale di quella cosa secondo me ormai vecchia che sono i libri di testo, solamente un piano generazionale può far sì che una nuova generazione raggiunga – ha ragione Bascetta, molto moderato – raggiunga quanto meno i livelli di civiltà minima, media che si realizzano in Europa, che pure non è il paradiso terrestre.
Grandi temi per una generazione, e anche piccoli temi, piccole agende microriformiste; è di questi giorni la polemica sugli sconti Mondadori, beh noi abbiamo insieme fatto una proposta di legge che contingentasse gli sconti: badate, una proposta di legge non originale, copiata pari pari dalle esperienze francesi e spagnole, che in Francia e in Spagna hanno funzionato. Ebbene, quella proposta di legge deve essere una cosa piccola ma che nel primo Parlamento disponibile a parlare di cose piccole ma serie si fa con la forza unita della sinistra e di altri che hanno dimostrato interesse ad una proposta di questo genere.
E allora per concludere, che cosa ci divide: due cose, forse una soltanto. Ci divide sicuramente la concezione del ruolo dello stato. Io non voglio usare parole diverse da quelle che ha usato in un intervento Fabio Giovannini, io credo che il ruolo dello stato debba essere un ruolo di regolazione forte, e che se il mercato non produce sviluppo o chiamatelo come vi pare, progresso, da solo, non produce un contesto sociale che permette una diffusione dei mezzi di comunicazione, allora serve un ruolo di regolazione forte da parte dello stato.
E però, io credo, lo dico con grande pessimismo perché conosco questa vicenda da tanti anni, da troppi anni, credo che sia ormai dimostrato che nel momento in cui lo stato è gestione diretta di aziende d’informazione non riesce più ad avere l’autorevolezza, la credibilità, la capacità di essere regolatore forte. Lo abbiamo visto nella vicenda televisiva: la grande azienda Rai è stata utilizzata come elemento di ricatto, condizionamento, ecc. della grande azienda privata per cui da una aprte c’è il canone, dall’altra vi diamo tutta quanta la pubblicità ecc. E anche la storia di questi giorni, ma non solo di questi giorni, che sta avvenendo sul servizio telefonico. Nel momento in cui lo stato ha una forte gestione diretta non ha neanche la cultura, la capacità, gli strumenti analitici per capire, per comprendere qualche cosa delle bollette telefoniche, della formazione delle tariffe, e il giorno in cui lo stato volesse avere un ruolo forte, be’ dovrebbe avere una fortissima authority pubblica in grado di dettare le condizioni per realizzare il massimo sviluppo possibile con il minimo di tariffe possibile. Badate, il problema delle tariffe è decisivo, è essenziale: non è un caso che l’Italia è un decimo dello sviluppo degli altri paesi d’Europa in Internet. Perché chi vuole lavorare in Internet, e badate non sono solamente ragazzini che giocano, sono piccole imprese, sono lavoratori autonomi, sono gente, ricercatori, che hanno uno svantaggio enorme in termini di costi, di soldi che escono dalle loro tasche per poter fare quello che all’estero si riesce a fare con condizioni migliori. Può piacere o non piacere ma nei sistemi concorrenziali fortemente regolati le tariffe sono calanti; nei sistemi monopolistici indipendentemente dall’efficienza, (perché certo Deutsche Telekom e Fast Telecom sono più efficienti di quanto non sia Telecom Italia), si mantengono livelli tariffari più alti e quindi penalizzanti.
E quindi questo probabilmente ci divide, ma non credo che ci divida l’ultimo punto. E’ quello di un’attitudine di governo: nella parte finale della relazione di Bellucci c’era un ragionamento che io condivido sugli incentivi. Ragioniamo – dice la relazione – sulle condizioni di accesso al credito, sulle condizioni di allaccio alle nuove reti telematiche, sulle condizioni tariffarie, proprio perché – ed è giusto questo – anche piccole unità produttive possono avere il massimo vantaggio da uno sviluppo della tecnologia a prezzi controllati, equi e non discriminatori nei confronti dei grandi utenti. Ebbene, però, se questo meccanismo di incentivi non vuole essere – come dire – a carico di una fiscalità generale, perché poi alla fine qualcuno li paga gli incentivi, noi dobbiamo avere il coraggio ed anche la cattiveria di porre nei termini asimmetrici rispetto ad altri iniziative industriali. Si fa riferimento alla legge sull’editoria, la 416; bene quella legge è ormai esaurita; pochi si sono accorti che in quella legge il grosso dei finanziamenti vanno alla fine a finire ai grandi interessi cosiddetti editoriali ma in realtà extraeditoriali. La Fiat, l’Olivetti, la Fininvest sono i massimi beneficiari in termini di sgravi tariffari di quella legge sull’editoria.
Allora io non ritengo che sia possibile proibire alla Fiat di possedere giornali, ma non con i soldi nostri. I soldi pubblici devono essere finalizzati a favorire e incentivare altre iniziative comunicative ed editoriali. Solo così si può recuperare quello che è ormai un gap evidente per cui la grande casa editrice che ha gli sgravi tariffari, ha i crediti agevolati, riesce a dare fidejussioni nonostante non sia più flessibile e più intelligente, nonostante non sia nel corso della storia tecnologica, si mangia le piccole esperienze. Solo così è possibile incidere – e non credo che su questo ci sia divisione.
Così forse avremo più asprezza – lo dico qui a Torino, anche avendoci vissuto, sapendo quanto la grande industria, tollerante quando si parla di grandi scenari, di fondo del capitalismo e quanto invece è aspra e dura quando si toccano i suoi interessi materiali. Questi insieme dobbiamo toccare.
RINA GAGLIARDI (Responsabile nazionale Cultura Prc)
Per andare un po’ brevemente, io vorrei saltare la scaletta del mio intervento e dedicare due piccole puntualizzazioni a due interventi interessanti di questo credo piuttosto interessante incontro.
All’amico e compagno Piero De Chiara vorrei subito dire che non condivido la sua affermazione secondo la quale quello che ci divide è il tema dello Stato, se non a partire da qualche pregiudizio che ancora sussiste sulla distinzione in rigidi statalisti da un lato e in libertari, liberali dall’altro. Credo invece che il tema vero ci divide sia l’opposto e cioè il mercato. C’è un’impostazione, nelle parole di De Chiara, di diverso apprezzamento e di diversa posizione sulle salvifiche virtù del mercato, alle quali ritengo non si debba credere.
Altro conto è la salvaguardia della sfera dell’intervento pubblico, che peraltro non va fatta coincidere con il solo Stato, e che comunque ha un tratto extramercantile. Un aspetto che m’incuriosisce è quello delle tariffe. Le tariffe aumentano (si prospetta una raffica di aumenti tariffari) in una chiave assolutamente opposta a quella che De Chiara proponeva. Cioè aumentano le tariffe perché siamo in un’epoca di liberalizzazione; la competizione a livello internazionale è una competizione al rialzo e produce i risultati che vediamo. Non è vero, infatti, che i meccanismi di questo tipo di per sé siano capaci di equilibrare i prezzi a vantaggio dei cittadini, dei consumatori; in particolare per le merci di maggior interesse pubblico quali quelle di cui stiamo discutendo.
La seconda puntualizzazione vorrei dedicarla all’intervento di Marco Bascetta, perché ne veniva fuori un interrogativo del tutto congruo con l’oggetto di questa nostra ricerca. E io credo che abbia fatto molto bene Bellucci ad aprire questa discussione non proponendo un itinerario rigido ma un percorso anche molto aperto, quanto mai necessario. Però, a partire da questa impostazione, credo che ci sia un nodo da sciogliere, di carattere se volete un po’ generale ma a mio parere decisivo rispetto a tutta l’impostazione. Se noi, quando parliamo di cultura, di produzione culturale, d’industria culturale, – che sono diverse tra di loro -, quando parliamo di merci particolari, quali sono quelle di cui qui ci stiamo occupando, dobbiamo rassegnarci in questa fase storica ed ancor più in quella successiva, ad occupare uno spazio di nicchia, ciascuno di noi la sua nicchia la può trovare con relativa facilità. Le società complesse sono in grado di ospitare tutti, molti, (perfino dal punto di vista politico questo discorso può avere un risvolto. Ci sono dei partiti politici che possono progettarsi e viversi per occupare non più di uno spazio circoscritto di nicchia). La merce culturale di qualità, nel caso specifico l’editoria di qualità, o anche comunque l’editoria in generale, il libro, può sicuramente occupare un suo spazio di nicchia.
Sull’altro fronte invece vanno avanti grandi, enormi processi epocali di trasformazione, iperconcentrati, mi riferisco qui alle cose assolutamente condivisibili che diceva Fabio Giovannini. Ci sarà questa grande divisione per cui esisterà – si riprodurrà ad un certo livello, si riadatterà aggiornata – la distinzione tra cultura di massa, a livello planetario addirittura, per cui alle grandi masse andranno quei messaggi formativi, comunicativi e culturali che saranno decisi dalle grandi imprese, dai pochi monopoli mondiali esistenti, e poi invece in ogni singolo paese esisterà questo piccolo mondo, questo microcosmo molto ricco, molto articolato, nel quale noi ci collochiamo.
Io non condivido questa impostazione. Naturalmente tutto quello che si fa nella pratica, nella concretezza, per ridimensionare i rapporti, per ottenere risultati va benissimo, io su questo non intervengo; però l’atteggiamento mi sembra profondamente errato e non all’altezza dei problemi che sono all’interno del nostro discorso.
Io avrei molte cose da dire, ne dico una soltanto allora nel merito dell’argomento. Non credo che dobbiamo (appunto in questo quadro) rassegnarci a considerare il libro – che non è certo l’unica produzione culturale sebbene il libro sia certamente più significativo di altre cose perché è l’esempio anche simbolico più alto della parola scritta e del suo possibile ruolo – una produzione marginale da pensare in termini quantitativi. Dobbiamo pensare alla funzione dei libri, e nell’epoca che Hobswaum chiama “età dell’oro”, (che è quella che ci sta alle spalle, dal dopoguerra fino all’imbocco degli anni ’70) il libro ha svolto una grandissima funzione e credo l’abbia svolta sia come strumento di alfabetizzazione (indipendentemente dalla qualità del libro), sia come mezzo di aggregazione (scambi, fraquentazione di biblioteche), sia come veicolo di idee, sia come strumento per la formazione di coscienza critica.
Quindi in questo senso io credo che se ci rassegnamo a pensare che il libro e la parola scritta saranno uno degli strumenti marginalizzati, ci rassegnamo in realtà all’idea che la necessità, la possibilità, le potenzialità legate all’idea di una cultura cririca siano appannaggio possibile di una fetta, anche qui forse marginale, ricca culturalmente, della società. E qui interviene immediatamente il nesso, che io credo nel prosieguo di questa ricerca dobbiamo stabilire, il nesso forte da ricostruire tra questo genere di problemi, questo genere di obiettivi e il grande tema che sta sullo sfondo della democrazia. Se non c’è questo legame tra quella che chiamiamo dimensione riformistica collettiva del mercato e il rilancio nel senso di rifondazione, in senso stretto, di un progetto di democrazia e di quanto abbia a che fare con la capacità della cultura critica di riacquistare un senso forte ed un ruolo, se non stabiliamo questo nesso, rischiamo di tornare (io sono daccordo con tutti quelli che denunciano i rischi di un’operazione residuale, di tipo assistenziale, garantista) nella “nicchia”. Quindi mi piacerebbe molto intervenire più a fondo su questo tema. Oggi abbiamo a che fare con una contraddizione che sta proprio dentro, fino in fondo, a questi processi. In una società in cui la merce informazione e comunicazione, e quindi cultura in senso lato, è così ricca e così potenzialmente capace di essere davvero il momento trainante della costruzione di una società, noi dobbiamo sapere che tutto questo ha un senso, ha una potenzialità molto alta perché presuppone, per esempio, un gran decentramento ed elasticità produttiva; perché presuppone un ruolo di alfabetizzazione elementare in un mondo così complicato. L’orientamento a capire dove stanno le nozioni, dove stanno le cose, dove sono le fonti, è un processo già in atto, in qualche modo, dentro il quadro delle società attuali, ma è totalmente e fortemente imprigionato dentro la logica non solo di uno sviluppo capitalistico, che ha i suoi limiti naturali, ma di uno svipuppo capitalistico che oggi (in virtù di processi su cui non ho il tempo di soffermarmi) è incapace di utilizzare a fini progressivi le stesse potenzialità che si creano dentro il suo corso. Il fatto che chiunque di noi, me compresa, con il suo computer portatile possa produrre un libro grazie al programma Publisher, che ognuno di noi possa editare un libretto, che questo possa accadere e che questo oggi corrisponda al grado più alto delle concentrazioni mondiali (e quindi al grado minore di libertà, mentre affiora questa possibilità della creatività perfino individuale, del singolo individuo dovunque sia collocato) è una contraddizione così alta che non credo la si possa risolvere in nessun caso con dei correttivi. Tutto ciò rimette all’ordine del giorno che questo livello di sviluppo, di potenziale (si chiamava un tempo delle forze produttive) delle risorse ricche di queste società, ormai urta in modo davvero drammatico col quadro che il capitalismo impone e quindi ritengo – lo dico come affermazione apodittica – che il riformismo è ancora una volta una carta e non significa più niente. Se siamo davvero di fronte a processi di tale intensità e radicalità, la cultura diventa una delle leve per fare chissà che cosa, certamente diventa una delle contraddizioni più ricche e più alte per uscire finalmente dai limiti di questa epoca storica. Quindi lungi dal sentirsi residuali, marginali e rassegnati ad occupare il nostro prossimo cinque, otto, nove per cento, io credo che si debba porre con maggior forza questa possibilità che io vedo, davvero in questo caso molto ottimisticamente, al più alto livello.
MASSIMO BORDINI (FILIS)
Grazie per l’invito. Dopo il chiarimento sulle cose che dividono e uniscono la sinistra, chiarimento che poi sulla base delle precisazioni fatte da Rina Gagliardi assume confini un po’ alti, vorrei ricondurre ad una dimensione più modesta (come quella che sembra ormai spetti al sindacato in questa fase storica) la riflessione comune. In CGIL cerchiamo di costruire un sindacato del macrosettore “Comunicazione”. E’ allora doveroso rispondere alla domanda che Sergio Bellucci ha fatto nella sua introduzione: cosa fa, cosa dice il sindacato.
Una prima cosa che cerchiamo di chiarire – parlo del settore della comunicazione – è di allontanare da noi l’esclusiva di questo amaro calice della rivoluzione digitale, in quanto pensiamo che la rivoluzione tecnologica del cyberspazio non attiene soltanto l’editoria o la comunicazione, anzi tutt’altro. E’ una rivoluzione che riguarda tutto il mondo del lavoro, quelle tecniche che sono utilizzate in modo così esemplare nel mondo dell’informazione e della comunicazione stanno avendo degli effetti dirompenti su tutto il mondo del lavoro; perché portano con sé due elementi crucialì: offrono incrementi di produttività superiori a quelli possibili della produzione e quindi nessuna prospettiva rassicurante in termini quantitativi per l’occupazione, e dall’altra hanno un’autarchica capacità di deregolare tutte le norme che abbiamo inventato fino adesso a tutela del lavoro.
Per il sindacato sarà una cosa complicatissima, far fronte a queste autonome, autarchiche capacità di queste tecnologie di rompere i marchingegni tradizionali con cui abbiamo difeso nel passato livelli e qualità dell’occupazione. E poi in Italia questo tipo di impatto comincia ad avere delle conseguenze preoccupanti. In tutti i settori che sono quelli più esemplari, tradizionali della comunicazione, l’occupazione diminuisce malgrado le potenzialità di sviluppo: Olivetti licenzia, Telecom licenzia, Ilte licenzia, Alcatel licenzia, SGS con Thompson ha fatto gli accordi ma ha ridotto notevolmente l’occupazione. Nelle società editrici è la stessa cosa: tutti riducono l’occupazione mentre la produzione cresce in modo esponenziale. Ci sono ragioni non contingenti ma strutturali che spiegano questo tipo di contraddizione. Si offrono delle potenzialità di crescita dell’occupazione in settori che non sono tradizionalmente organizzati dal sindacato. Son quelli che Sergio Bellucci definiva i settori più interessanti per difendere autonomia culturale di fronte alla rivoluzione informatica: sono i settori della fiction, i settori della produzione cinematografica, i settori dello spettacolo per usare un’espressione così sottovaluta ta che a volte quando noi diciamo che rappresentiamo i lavoratori dello spettacolo vedi un risolino in giro … Dicono: spettacolo? cosa sono, cinema e canzonette? Sono cinema e canzonette, ma dietro cinema e canzonette, teatro e musica c’è cultura, proposta culturale. E’ sempre stata portata l’esperienza della Francia che si è spesa sul fronte della produzione cinematografica per difendere la cultura europea, vorrei portare ancora l’esempio della Francia che è arrivata al punto di imporre addirittura il 40% di trasmissione di dischi, di canzonette francesi alle proprie televisioni e alle proprie radio.
Su questo fronte c’è molto da fare, c’è molto da lavorare e direi che è forse il fronte più immediato su cui un paese come il nostro può spendere quel po’ di risorsa e capacità organizzativa che, relativamente, in modo più facile, può aggredire. Perché gli altri fronti – parlo dei fronti più duri della produzione di questa società dell’informazione – li vedo un po’ più complicati da affrontare. Io non so quanto il problema del rapporto fra mercato e stato che Rina Gagliardi richiamava, divida la sinistra. Posso trovare una esemplificazione in quanto dicono il mio amico Di Chiara o il mio amico Bellucci sulla Stet? Può darsi che sia così, se è così però, stando alle cose che ho letto, che avete detto, si può lavorare per trovare una soluzione comune. Io sono convinto che la Stet, i lavoratori della Stet, della Telecom, abbiano una produttività molto alta, parlo proprio della produttività fisica del lavoro, al di là degli elementi finanziari, e sono in grado di difendersi dai processi di liberalizzazione più di altre aziende europee. Dico questo perché in un cosiddetto Forum Banjemann (Bankemann – il commissario europeo per la Società dell’Informazione – ne fa tante di commissioni, e io sono in una di queste, dove ci sono i sindacati e i padroni ). In questo Forum europeo dei media, dicevo, ove si produce molta carta, l’unica carta che mi è parsa utile è stata quella che porta dei numeretti, dei confronti tra le aziende: una fonte americana ha fornito i dati della produttività reale delle varie Telecom mondiali. Ebbene dopo le americane, anzi prima della quinta americana e prima di tutte quelle europee – stando a questa fonte che poi diverrà ufficiale perché quando Banjemann ci metterà il suo timbro diventerà una roba citabile – c’è la Telecom Iyalia. Quindi – per gli stessi americani – il livello di produttività della Telecom è ancora adeguato a sopportare i processi di liberalizzazione. E’ adeguato però a sopportare eventualmente anche i processi di privatizzazione così come sono stati descritti da alcuni apologeti del mercato? Io credo che su questo piano si tratti di ragionare sulle quantità, qualità, modalità, calibratura degli interventi dei privati e dello stato. Quale stato? Uno stato controllato da Berlusconi, per esempio, che riuscisse a imporre l’idea che la Stet non si privatizza perché c’è un ruolo pubblico da salvaguardare non fornirebbe le stesse garanzie di altri scenarii offerti da una presenza di governi diversi.
E quindi mi sembra che non ci sia una ragione primaria per bisticciare all’interno della sinistra, una definizione concreta dello stato presuppone sempre una relativizzazione – per così dire – storica. Cinquanta anni di DC stanno lì a ricordarcelo.
Per concludere il mio breve intervento, vorrei spendere due parole circa le difficoltà nel distinguere tra spazi di vendita e spazi di lettura dei quotidiani e dei libri. Novelli parlava di statistica – si possono fare molte statistiche: una delle più semplici è che se si prendono i dati dell’Italia più ricca da Roma in su i livelli di lettura dei giornali e dei libri sono adeguati, confrontabili con i paesi che noi consideriamo più ricchi e più “civili”. Il problema vero è quindi quello delle difficoltà economiche nelle aree più arretrate. E sempre collegato alle difficoltà economiche c’è ovviamente un basso livello di istruzione. Noi parliamo di necessità di portare nelle scuole letture e giornali, ma intanto negli Stati Uniti, come sapete, grazie anche all’entusiasmo di Clinton e del suo vice, si sta programmando la diffusione, nelle scuole, dei computer; io non credo che ci sia contraddizione tra le due cose, ma – oggi – si profilano nuove regioni di esclusione sociale. Aveva ragione De Chiara a dire che ha fatto bene Bellucci a non tornare sulla retorica delle nostre preoccupazioni. Però il fatto che oggi in Mediobanca transitino interessi che ormai unificano troppe strategie per la comunicazione, da Fiat ad Olivetti, è una questione su cui riflettere. L’aspetto delle concentrazioni industriali e padronali mi sembra un dato da non sottovalutare nella stesura del previsto quadro legislativo che riveda tutta la materia. Posso aggiungere un suggerimento? Vorrei che lo slogan che tutti utilizzano quando si rivendica il “diritto ad essere informati”, come diritto costituzionale, fosse sostituito dalla proposta di un “diritto ad informarsi”. E’ l’espressione prevista dalla Costituzione tedesca, fu scelta per superare una concezione passiva del problema. Vi pare un’inezia?
ANTONIO MONACO (Edizioni Sonda – Vicepresidente AIPE)
Non desidero entrare nel merito delle considerazioni di carattere complessivo, se non per esprimere un grande apprezzamento per l’intervento iniziale di Bellucci, perché proprio l’inquadramento globale che questo intervento ha fornito è stato l’elemento che più è mancato negli anni passati: mi sembra quindi della massima importanza affrontare il problema dell’editoria sia sul versante della produzione sia su quello della fruizione.
Nel quadro che sta delineandosi l’A.I.P.E. si riconosce certamente. Mi soffermeri qui solo su qualche punto pratico, che credo dovrebbe entrare maggiormente in una riflessione più operativa e programmatica.
Innanzitutto la legge 416: ripensare a quanto è stato fatto a questo proposito mi porta a sottolineare che la 416 è stata di fatto centrata, se poi si analizza chi ha realmente beneficiato delle opportunità e delle agevolazioni che essa ha fornito, sugli editori di giornali e periodici. Certamente l’associazione che rappresento e, in generale, le problematiche della piccola editoria, come ben sanno i colleghi editori qui presenti, richiedono una riflessione specifica che in Italia non è mai stata affrontata dal punto di vista legislativo.
Quindi rispetto a questo tema c’è un vuoto, che richiede una riflessione specifica, mirata, ormai indispensabile, rispetto alla quale saremmo ben lieti di poter fornire il nostro contributo portando la nostra conoscenza dei problemi, il punto di vista, cioè, di chi è operatore ed è in grado di definire (credo) le esigenze, le prospettive e le aspettative globali.
Un altro aspetto che è stato molto sottolineato negli interventi è che ci troviamo ora a fare una riflessione complessiva su prospettive di cambiamento sociale e tecnologico che sono per certi versi alle porte. Nello stesso tempo, la realtà è così complessa e articolata nella sua varietà che in questi ultimi due anni ho dovuto constatare, in tutte le occasioni di confronto con i colleghi editori, che le difficoltà si accentuano sempre di più e che i problemi legati alle infrastrutture, alle disponibilità finanziarie, alle capacità diffusionali si aggravano con il passare del tempo. Dato che in Italia spesso le cose “vanno per le lunghe” nella definizione di proposte, è assolutamente necessario affrontare già nel breve periodo tutta quella serie di problematiche concrete e specifiche, che non possono e non devono essere dimenticate, pur di fronte ad una prospettiva complessiva.
Posso sin d’ora impegnarmi a promuovere all’interno dell’Associazione una riflessione specifica che produca già nella primavera prossima una serie di proposte che tengano conto sia dei nostri problemi sia della direzione in cui si muove il Paese, sulle quali poter discutere insieme.
E’ stato qui fatto cenno alla cooperazione tra gli editori: ovviamente sono state realizzate in Italia esperienze di cooperazione e di collaborazione di vario tipo, con esiti diversi. Penso proprio all’ A.I.P.E. o al Tappeto Volante. Evidentemente è piuttosto difficile che realtà che hanno tanti problemi li risolvano tutti quanti quando si associano; dobbiamo però anche dire che, pur con le luci e le ombre della cooperazione, ci sono sinergie ricche di potenzialità. Un esempio concreto che potrebbe attuarsi proprio con il Partito della Rifondazione Comunista è dato dalle feste di Liberazione, che sono una grande occasione anche di promozione libraria. Una forma di stretta collaborazione, da studiare e programmare insieme nei tempi e nelle modalità, potrebbe offrire a un pubblico, che già sappiamo nell’esperienza maturata essere attento e sensibile alla produzione editoriale, una proposta culturale più ampia, una più vasta scelta, e molteplici opportunità. La verifica potrebbe partire già da questa estate.
PAOLO CAGNA NINCHI (RSU Corsera)
Io credo che nella fase nella quale ci troviamo, che penso sia una fase di transizione, sia molto importante, secondo me anzi decisivo, capire quali sono i soggetti di questo processo di mutazione e di riqualificazione del prodotto informazione.
Nel mio intervento io mi limito ad affrontare quest’aspetto, basandomi anche sull’esperienza fatta in questi anni nel gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. Si tratta di un’esperienza emblematica dell’evoluzione dell’impresa di comunicazione: totale finanziarizzazione, concentrazione multimediale, anche se con andamenti non sempre lineari, e nello stesso tempo un grande processo in atto di disarticolazione e ricomposizione della filiera della produzione.
Questo processo comporta degli effetti del tutto coerenti con l’obiettivo di controllo del nuovo universo informativo: da un lato si disarticola l’organizzazione del lavoro e con essa la capacità di controllo e di contrattazione da parte dei lavoratori e delle loro organizzazioni, dall’altro, e nello stesso tempo, aumenta il controllo e il potere aziendale sull’organizzazione, sul processo produttivo e sul prodotto nella sua nuova articolazione. Forse in questa fase non sono ancora del tutto definite le strategie di Gemina – io direi piuttosto che non sono ancora del tutto esplicite, il nodo riguarda la privatizzazione della Stet -, ma è chiaro il modo con il quale queste strategie si affermeranno.
A questo proposito vale la pena di ricordare quando, intorno alla metà degli anni 80 la FIAT sbarcò in forze a Milano. In poco tempo aziende leader, e soprattutto simbolo di una intera città, come la Rinascente, l’Alfa e il Corriere furono comprate. E’ un eufemismo dire che furono comprate, visto il prezzo che venne pagato: il gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, uscito in attivo dall’amministrazione controllata fu acquistato per 30 miliardi, ne valeva 800; l’Alfa poi venne praticamente regalata non solo per il prezzo, ma soprattutto per le “forme” di pagamento.
In quell’occasione la Cgil organizzò un convegno che raccolse le voci dell’orgoglio di una città che si sentiva colonizzata e che vedeva messe in discussione una tradizione e una cultura che avevano generato un grande patrimonio produttivo e professionale.
In quegli anni lo scontro principale si svolse intorno alla volontà FIAT di sradicare un modello, penso, per esempio, all’isola di produzione dell’Alfa, che aveva espresso ed esprimeva una capacità di mediazione sociale che riconosceva il ruolo autonomo di proposta dell’organizzazione operaia.
Il nodo era infatti proprio questo: la qualità delle relazioni sindacali. Per la FIAT era necessario sradicare una tradizione specifica della cultura sociale della città, per non subire condizionamenti al libero dispiegarsi delle strategie aziendali.
Oggi, dieci anni dopo, questo processo è compiuto: siamo in pieno mercato globale: la competitività totale, insieme con i processi di riorganizzazione tecnologica e i limiti dello sviluppo, ha rotto il circolo virtuoso che legava l’occupazione allo sviluppo. C’e in questo un drammatico paradosso: nel mondo non più bipolare, la scelta del mercato come una regola unica non porta solo all’abbattimento dello Stato come luogo della convivenza, ma l’impresa finanziarizzata e semza vincoli territoriali ha assunto un carattere di totale irresponsabilità sociale. Lo Stato, che si definiva sovrano perché non aveva poteri sopra di sé, luogo del patto sociale, dei diritti di cittadinanza, è stato sostituito dal mercato finanziario che non riconosce poteri sovrani.
I valori della società nazionale, la sua cultura sono stati sostituiti dai valori del mercato, del pensiero unico. Lo stesso processo coinvolge le imprese che producono informazione e cultura: esse hanno esplicitamente rinunciato alla loro missione culturale assumendo un carattere di totale irresponsabilità culturale.
I processi di ristrutturazione, la disarticolazione produttiva, l’uso delle sinergie nei grandi gruppi, il proliferare di services, molte volte filiazioni della stessa grande azienda, sono le risposte alla logica della competitività, non il prodotto in sé la sua qualità. Oggi decisivi nelle aziende editoriali sono i direttori del marketing, non i direttori editoriali. Mi sembra emblematico, da questo punto di vista, che a fare il direttore generale del settore quotidiani nella RCS venga un manager del settore alimentare: Gaetano Mele viene dalla Nestlè, dopo essere stato alla Vismara. In questo vi è una grande coerenza con l’idea del giornale contenitore: oggi il quotidiano è come i baci Perugina, cioccolato avvolto in una frase di solito banale.
Questo risultato è il frutto di processi di riorganizzativi fondati su un’ innovazione che ha travolto i soggetti, gli operatori e il loro ruolo nell’impresa editoriale, rendendoli del tutto marginali rispetto al prodotto, annullandone oltre al ruolo la capacità di proposta.
Per questa ragione è determinante porre al centro dell’attenzione e dell’azione delle forze sindacali e politiche della sinistra il modo,oltre alla velocità, con cui cambiano i modelli organizzativi e le conseguenze che questo fenomeno induce concretamente negli operatori che producono questa merce. Ricordo che negli anni ’70 si guardò con moltissima attenzione, molto più di ora, all’innovazione tecnologica nei giornali: si parlò di rivoluzione tipografica e del tipografo, mentre guardando dieci anni dopo quel processo credo che lo si possa enfatizzare meno. Eppure mutò in maniera radicale il modo di fare il giornale e cambiò lo stesso prodotto perché cambiarono i ruoli e i modi di produzione. Scalfari nel fondo in cui commemorava il ventennale del suo giornale faceva un’affermazione non vera: con l’uscita di Repubblica il giornalismo italiano non è più quello di prima. Non è stato, con tutto il rispetto che gli si deve, Scalfari a modificare il giornalismo italiano, sono stati i processi tecnologici, quelli introdotti proprio nella metà degli anni 70 e che hanno modificato radicalmente il modo di fare il giornale e quindi l’informazione. E questo mutamento è passato soprattutto attraverso la trasformazione dei soggetti: giornalisti e tipografi.
Ora noi stiamo affrontando su scala molto più vasta, viene da dire globale, un ciclo analogo. Va posto al centro dell’azione delle organizzazioni dei lavoratori il cambiamento dei mezzi e dei modelli organizzativi di chi produce concretamente la merceinformazione, la cultura. Ma soprattutto io credo che dobbiamo indagare e capire come incidono queste mutazioni professionali, culturali e anche sociali sul modo di lavorare e quindi anche sul prodotto nel mondo nuovo, questo mondo multimediale, e come si pongono le organizzazioni dei lavoratori di fronte a questo scenario.
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, vale la pena di aprire un ragionamento sui limiti che incontra, oggettivamente e anche soggettivamente la contrattazione oggi di fronte al mutare delle forme del capitale, delle condizioni e delle dimensioni delle imprese e dei mercati.
A mio giudizio, l’aspetto più rilevante, dal punto di vista sindacale, e non solo, delle vicende che investono le nostre aziende è la loro separatezza, il loro isolamento. Questo è un dato purtroppo generale: la crisi divide non solo le aziende di settori diversi, ma aziende dello stesso settore, persino le unità produttive dello stesso gruppo.
A Milano ci siamo posti questo problema: se mettiamo insieme le aziende della comunicazione e della telecomunicazione le riorganizzazioni in atto mettono in discussione 10.000 posti di lavoro. Di fronte a questo fenomeno non c’è un’iniziativa che metta insieme le ragioni comuni di questi processi di riorganizzazione.
Da questo punto di vista è abbastanza preoccupante il modo con il quale procede – lo dico anche al mio amico Bordini – l’unificazione sindacale di due settori: quello della FILIS, il sindacato dell’informazione e dello spettacolo, e quello della FILPT, il sindacato delle poste e delle telecomunicazioni.
Mi preoccupa il fatto che dopo un anno e mezzo dopo che è stata presa la decisione dell’accorpamento non sia successo nulla, non ci si sia dati uno strumento organizzativo perché questo processo sia all’altezza dei problemi che dobbiamo fronteggiare.
A me sembra decisivo invece pensare a un contratto di settore per le aziende della comunicazione e della telecomunicazione. Ma forse c’è qualche altro confine da abbattere e la CGIL deve avere più determinazione, anche più coraggio, nel ricercare soluzioni organizzative che ci si diano strumenti adeguati al livello di complessità che attraversa tutta l’area della comunicazione e della telecomunicazione.
E’ vero che il sindacato un sindacato è una cosa complicata, come dice Bordini, però io che avoro al Corriere penso a cosa vuol dire lavorare in un giornale che già oggi viene prodotto materialmente da un giornalista e da un poligrafico, ciascuno con il suo contratto di lavoro e la sua organizzazione sindacale separata, ma entrambi utilizziamo banche dati e service che io non so come siano organizzati sindacalmente, il giornale viene trasmesso su rete Telecom, con impianti costruiti da un meccanico, e ciascuno di questi pezzi determina la qualità del prodotto, la sua possibilità di stare sul mercato, i diritti di accesso di un mondo in cui ciascun pezzo condiziona l’altro.
Io credo che questo sia il nodo principale che il sindacato deve sciogliere e credo che sia necessario cogliere il messaggio che viene dalla Olivetti e dalla Telsi: rifiutare la logica dei tagli per rimettere al centro la necessità di ridiscutere le ragioni di quei tagli, porre quindi la questione centrale di una trattativa che parta dal ruolo dell’impresa sul mercato e arrivi, poi, agli assetti industriali e alla organizzazione del lavoro.
L’occupazione deve diventare la leva di un’azione che va oltre il piano della ristrutturazione e investe, in modo trasparente, le prospettive dell’azienda, dentro le quali sta l’occupazione, altrimenti il nostro ruolo sarà solo ed esclusivamente quello di “limitare” i danni, senza nessuna possibilità di mutare i risultati concreti di questi processi sull’organizzazione del lavoro, sull’occupazione, sulla qualità del prodotto.
L’ultima cosa che voglio dire è su questa questione della 416. Noi oggi abbiamo questa equazione: più innovazione, uguale meno sviluppo. Nel gruppo nel quale io lavoro in dieci anni il fatturato è passato da 938 miliardi a 2.769, gli occupati da 6.400 sono diventati, con gli effetti dell’ultimo accordo sindacale, 3.500. Il che vuol dire che in dieci anni il fatturato si è triplicato mentre l’occupazione si è quasi dimezzata. Parto da qui per dire che io sono d’accordo che occorre un intervento delle forze politiche nel settore della comunicazione – la proposta di una 416 sulla multimedialità – se questo è un punto di partenza per proporre un’altra equazione: più cultura, uguale più sviluppo.
Credo anche utile sottolineare, per chiudere il mio intervento, il riferimento al clima: la 416, oltre alle cose dette da De Chiara, va ricordato, si è trasformata in uno straordinario strumento di pianificazione aziendale, il meccanismo del prepensionamento è diventato non solo lo strumento della pianificazione delle ristrutturazioni, ma anche la ragione che nello stesso tempo ha scoraggiato proprio quella ricerca di un modello autonomo. Di fronte ai processi di riorganizzazione degli anni 80 non c’era nessuna volontà di cercare strumenti diversi perché la 416 ha ridotto, se non eliminato, gli elementi di resistenza a questi processi.
Eppure la 416 nacque in un clima – è bene ricordarlo – che vedeva le redazioni e le tipografie scendere in piazza insieme. Erano cioè proprio i soggetti messi in discussione dal nuovo scenario – erano gli anni 70 – i protagonisti di una battaglia che proponeva, o almeno ci provava, un esito diverso.
Quel clima mi sembra che oggi non ci sia. Io credo che lo si può, lo si deve ricreare ripartendo dagli operatori della comunicazione, dai sogetti professionali messi in discussione, con la consapevolezza che di fronte a noi sta sì un processo straordinario che determinerà le condizioni materiali e anche il nostro modo di vivere, quindi la società di domani, ma che se questi soggetti che sono nel turbine del cambiamento non scenderanno in campo noi non potremo sperare di piegarlo a un’evoluzione democratica.
ELISABETTA RAMAT (CGIL Confederale)
Per stare proprio nel vivo della discussione di questa mattina, che mi pare molto interessante, vorrei innanzitutto fare solo una battuta sulla questione delle tariffe Telecom. Io penso sia necessario ribadire il fatto che nell’operazione che Telecom sta tentando, spalleggiata dal Ministero, la logica è quella di aumentare le tariffe per così dire a scopo “preventivo” esattamente laddove per il momento non c’è concorrenza, quindi per drenare risorse aggiuntive, prima che si apra la concorrenza anche nella telefonia vocale per il vasto pubblico. Tanto è vero che sul piano invece delle tariffe internazionali e a lunga distanza l’orientamento che già Telecom assume è quello di diminuirle. A proposito di scenari futuri credo che tutti noi ci dobbiamo confrontare con due nodi di fondo. Il primo, è sintetizzato nella domanda che faceva Sergio Bellucci nella sua introduzione: a quali condizioni l’innovazione tecnologica, la convergenza tecnologica, la digitalizzazione che stanno pervadendo l’editoria e tutti gli altri settori della comunicazione possono essere opportunità di sviluppo?
Se i dati di analisi che abbiamo visto, che ho visto avete allegato alla relazione, sono, come penso, significativi, ne deriva che una delle condizioni fondamentali è quella di promuovere, far crescere, organizzare una nuova domanda sociale da parte dei cittadini, da parte dei giovani, da parte dei meno giovani, da parte delle amministrazioni, da parte del tessuto che gestisce e organizza la società civile. Comunque una nuova domanda è necessaria, perché è qui che io vedo margini di sviluppo possibile e vedo la possibilità di non rassegnarsi, come diceva Rina Gagliardi e anch’io sono d’accordo, ad occupare nello scenario multimediale semplicemente spazi di nicchia per quanto riguarda il libro, ma anche più in generale di tutta l’editoria.
Quindi non ripeto, perché è un concetto che è stato già evidenziato a sufficienza, l’importanza di agire sul terreno della formazione (sistema scolastico e formazione permanente e ricorrente). Vorrei notare in aggiunta come oggi a un basso indice di diffusione della lettura corrisponde nel nostro Paese anche un basso livello, per esempio, di diffusione del personal computer nelle famiglie (su quest’ultimo il dato degli Stati Uniti è il 35%, quello dell’Italia è 12%). Se questo è vero, allora è fondamentale che l’iniziativa di formazione, di alfabetizzazione sia tesa a sollecitare la cittadinanza all’uso di tutte le modalità di comunicazione, vecchie e nuove, intervenga cioè contemporaneamente e contestualmente sull’intera tastiera delle opportunità. Ciò perché, ne sono convinta, non c’è contraddizione, non c’è alternativa o concorrenza tra il libro e Internet, per esempio. Anzi, a determinate condizioni, essi possono sostenersi e potenziarsi a vicenda.
Per sviluppare questa iniziativa sono importanti due cose: certamente è importante la legge: nuove leggi, potranno avere un peso nel determinare nuove politiche formative nel nostro paese – a partire dall’innalzamento dell’obbligo scolastico – ma non c’è solo quest’aspetto. Anche un’organizzazione come il sindacato, come la Cgil – e lo stiamo dicendo in questa fase di dibattito precongressuale – può attrezzarsi a svolgere un qualche ruolo significativo come agente che sostiene tale obiettivo, sensibilizza i lavoratori, socializza esso stesso elementi di formazione e alfabetizzazione all’insieme dei linguaggi della comunicazione. E come il sindacato altri soggetti possono farlo.
Detto questo, l’altro nodo che emerge dal dibattito di oggi sembra essere il contrasto dei punti di vista su quale concezione di stato, quale concezione di mercato.
Secondo me siamo di fronte contemporaneamente a un problema di ridefinizione , nei nuovi scenari, di che cosa dovrà fare lo stato (credo anch’io in termini di regolatore fondamentale) e ad un altro problema problema che non è semplicemente quello di immettere dei correttivi rispetto alle dinamiche di mercato. Attenzione, non sappiamo quali saranno le dinamiche di mercato in un contesto che si definisce digitale, multimediale, di profondi rivolgimenti, di alleanze che si fanno e che si disfano a livello locale e a livello globale.
Quindi ci si trova nella condizione di dover assumere decisioni in un quadro di incertezza. Questo è il punto che vorrei sottolineare.
Perciò non credo che la questione sia quella di dire semplicemente quali possono essere i correttivi rispetto a dinamiche spontanee di un mercato già fortemente strutturato. Il punto ben più pregnante credo sia quello di dire come si regola un mercato nuovo, in quanto mercato globale, in quanto mercato della convergenza tecnologica, in quanto mercato che integra diversi settori della comunicazione.
Quindi occorre riesaminare in maniera nuova le tematiche della normativa antitrust; vanno considerate le caratteristiche che deve avere l’Autorità indipendente di regolazione, che dovrà controllare e regolare appunto la convergenza e l’integrazione che abbiamo tendenzialmente, ma poi non troppo tendenzialmente, di fronte.
La considerazione, che è anche un auspicio, che intendo fare è questa: occorre che tanto le normative antitrust quanto l’autorità di regolazione possano intervenire su tutti quei segmenti del mercato delle comunicazioni che si stanno integrando.
In sostanza, se vogliamo ragionare di multimedialità non semplicemente come diversificazione del prodotto (nel caso dell’editoria, il CD-Rom accanto all’enciclopedia cartacea) ma invece alludiamo, come oggi si è fatto, a qualche cosa di molto più complesso, che a partire dalla rivoluzione digitale, arriva a mettere il singolo individuo potenzialmente in rapporto con tutta la comunicazione, abbiamo bisogno di disporre di metodi e strumenti nuovi per orientare tale processo.
Per concludere su un punto che riguarda segnatamente la Cgil: fare un nuovo sindacato della comunicazione ha questo senso; è, per quanto ci riguarda, la scelta di costruzione di un soggetto organizzato, che possa aggregare insieme i diversi lavoratori, coinvolti nel mutamento complesso che abbiamo di fronte.
Naturalmente con un’avvertenza, lo voglio dire a Cagna: rispetto alla nascita di un nuovo sindacato della comunicazione, gli aspetti che riguardano l’evoluzione degli strumenti contrattuali, la costruzione di nuove articolazioni all’interno di un settore che diviene più complesso e più sfaccettato, non possono essere semplificati. Si devono avviare un percorso e un processo tutt’altro che semplici, anche perché i mutamenti delle professionalità che si intrecciano, fra l’altro, con professionalità che sono state distanti, non sono finiti.
Il processo va avviato, ma certamente non possiamo pensare che si risolva in qualche settimana. Esso va costruito con la partecipazione e il consenso dei lavoratori direttamente interessati.
Penso che anche altri strumenti, quelli istituzionali ai quali ho accennato, ma per esempio quelli dei giornalisti, debbano in qualche modo essere sottoposti a revisione, adeguati rispetto al quadro in mutamento nelle comunicazioni.
Ho finito, l’ultimissima considerazione: naturalmente tutto quello che ho detto rispetto alle condizioni di incertezza degli scenari non esclude, ma anzi richiede oltre che norme, politiche mirate. Politiche sulla formazione, sulla promozione del libro, sul sostegno selettivo dell’innovazione, ma anche, ad esempio, politiche di valorizzazione del nostro patrimonio culturale e artistico, nella prospettiva di sviluppo della multimedialità come terreno sul quale certamente possiamo ambire ad avere un ruolo non solo di nicchia.
CORRADO PERNA (Editrice Datanews)
Tenuto conto dei tempi, io sollevo soltanto una questione, sottolineata da parecchi interventi, in modo particolare da quello della compagna Rina Gagliardi. Io ritengo che prima ancora che una questione produttiva, vi sia una questione democratica. Questo è il punto per quanto riguarda l’editoria e l’industria culturale in generale. E c’è una questione democratica nei mezzi di comunicazione di massa, nel cinema, nella carta stampata, nell’editoria. Io credo che questo punto debba essere il punto di partenza di qualunque iniziativa che noi vogliamo portare avanti in un settore delicato come questo. Vado per grandi schemi, ma voglio dire che l’altro punto di partenza è una maggiore fiducia nelle possibilità di una cultura critica e delle culture critiche. Semmai vedremo dopocome mettere insieme queste culture critiche, vedremo come costruire reti per queste culture, ma io credo che noi dobbiamo cercare di avere più fiducia nella possibilità di costruire, organizzare, rilanciare oggi un vasto tessuto produttivo e culturale in grado di rispondere al pensiero unico e di rimettere in campo la questione democratica come questione centrale. E questo anche perché francamente non credo che la facilità di accesso ai nuovi mezzi tecnologici e il loro costo che è fino a un certo punto un costo relativamente basso, risolvano i problemi democratici. I problemi democratici sono problemi che riguardano la convivenza civile, lo Stato, l’assetto dei poteri e impongono regole, piani, controlli. Noi siamo invece davanti a uno Stato che si occupa di debito pubblico, di smantellamento dello stato sociale e che non ha né una politica industriale né una politica culturale.
Ecco perché penso che quando si affrontano temi di questo genere si devono vedere anche questi aspetti. Naturalmente io salto tutto e vado alla fine per sollevare un’ ultima questione: quella della rappresentanza dei lavoratori, degli operatori in questi settori. Io sono d’accordo con quei compagni – Cagna per primo – che hanno sollevato il problema anacronistico della rappresentanza separata, per professioni, in un momento in cui, i processi di globalizzazione, di ristrutturazione pesante, di riduzione ad uno o a pochi, imporrebbero una rappresentanza unitaria di tutti i lavoratori. E’ una cosa incomprensibile che per esempio nei periodici, nei quotidiani, nei media giornalisti e poligrafici abbiano rappresentanze separate. Ma come è possibile pensare che davanti a processi di concentrazione di questa natura possano esistere rappresentanze e soggettività diverse all’interno delle imprese? Questo non significa eliminare le specificità professionali, ma significa costruire strumenti unitari che valorizzino anche le differenze professionali ma abbiano nei confronti dell’impresa e di questo mondo che è in evoluzione una presenza di tutte le professionalità, anche le professionalità nuove che si affacciano e che contengono caratteri e forme professionali multiformi imposti dallo sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione e più in generale della produzione culturale.
CARLO INFANTE (Giornalista)
Mi presento: sono un freelance, scrivo per l’Unità come per altre testate, come La stampa, Virtual …… ma più che altro mi considero un “militante culturale”; in particolare, in questa epoca di mutazioni culturali, mi occupo della “rivoluzione digitale” in atto. Un fenomeno attraverso cui si sta riconfigurando il concetto stesso di cultura. E per questo non è esagerato parlare di rivoluzione digitale: sta accadendo qualcosa di potente , forse inesorabile, qualcosa di molto più forte di quello che è già accaduto all’inizio del secolo con l’avvento dell’energia elettrica all’interno dei processi industriali. Con l’avvento delle tecnologie digitali sta cambiando il nostro modo di interpretare il mondo. L’editoria è ancora il fulcro, è ancora (nonostante il dominio televisivo) il luogo di trasmissione dei valori. Noi apprendiamo attraverso l’universo libro. Ma qualcosa sta cambiando il nostro modo di interpretare il mondo: un momdo sempre più veloce e globale. Di fronte a questo dato i sistemi di comunicazione riescono ad adeguarsi. Ma i sistemi culturali no. L’editoria perciò deve accelerare la propria trasformazione, utilizzando i linguaggi multimediali e rilanciando una nuova forma di produzione culturale avanzata proprio per sottrarre alla TV il ruolo di “guado di civiltà” in questo passaggio epocale. Al Salone del Libro di Torino ho partecipato direttamente i momenti di riflessione su questi temi, nel ’94 con un convegno su rapporto tra multimedialità ed educazione con l’IRRSAE-Piemonte e lo scorso anno con il convegno Utet in cui il teorico francese Pierre Levy ha posto in campo il problema dell’ “intelligenza collettiva”, ovvero quello della relazione possibile tra nuovi media ed evoluzione culturale. Un progetto ideale attraverso cui rilanciare il gioco di comunicazione e rompere l’assedio televisivo alla nostra mente. La psicologia di massa è sempre più atrofizzata. Occorre una ecologia della comunicazione.. E’ un problema veramente di fondo, è di trasformazione antropologica che si tratta, ancor più di quella culturale. E’ interessante che politici di vecchia generazione inizino ad occuparsi di questa mutazione, qui vedo Cossutta, l’altro ieri ho visto Scalfaro a un convegno dell’Ansa sulla “informazione personalizzata” come risposta all’egemonia del massmedia televisivo, con interventi importanti come quello di Derrick De Kerkhove sulla modalità connettiva delle reti e, in generale, sulla mutazione culturale dettata dalla multimedialità. Massimo rispetto per certi approcci di Rina Gagliardi sul rapporto ambiguo che c’è tra cultura e mercato ma su questo punto bisogna fare veramente chiarezza. Il problema è anticipare il mercato sul suo piano di gioco. Ovvero: produrre domanda. Qui non si tratta di rincorrere il mercato dell’offerta tecnologica che procede su un andamento esponenziale, vedete le sinergie stellari, dove grandi società di telecomunicazione e TV (e altre, come la Disney) si fondono, creando “megalobbies”. Ma è inutile, se non naif, demonizzare tutto ciò. Si tratta bensì di produrre domanda consapevole di civiltà. Ovvero: progettare futuro. E su questo far fiorire anche un mercato controllato (per quanto sarà possibile) dalla domanda sociale e culturale.
E’ un problema di formazione della “domanda culturale”, si tratta di investire risorse umane sul fronte educativo, perché qui si gioca una scommessa decisiva, andiamo verso una civiltà, verso un mondo, verso una società futura in cui i giovani non solo pagheranno le pensioni dei “vecchi”, ma li dovranno aiutare a interpretare un mondo sempre più mediato da tecnologie. Gli anziani saranno, forse per la prima volta nella storia dell’uomo, in una condizione di inferiorità rispetto ai giovani. Su questo varrebbe la pena discutere per capire in che modo è possibile ricostruire una tensione ideale rispetto alla società, pensando a un futuro che una volta veniva troppo ipotecato alle utopie e alle ideologie (come quelle comuniste che alcuni di voi ancora si autocompiacciono di sostenere) e oggi rischia di essere scippato dalle tecnologie digitali. Dobbiamo usarle queste tecnologie, per non essere utilizzati. La “tecnocrazia” sarà il vero pericolo, altro che telecrazia! Ma bisogna accelerare e darsi una mossa. E rendere comprensibile il possibile: capire e far capire in che modo le tecnologie digitali possono essere funzionali al bene comune. Controllando in questo modo aree di mercato. E producendo anche ricchezza. E’ possibile. E’ sterile pensare che il mercato sia solo una questione a senso unico. Può essere usato. Va pensato. Il futuro va progettato. Progettare editoria multimediale è un modo per farlo.
Le chances ideali: è proprio su questo piano che possono essere rimesse in gioco, nel parlare ad esempio di intelligenza collettiva, o ancor meglio “connettiva”, pensando alla diffusione delle reti che con Internet hanno dimostrato potenzialità evolutive che solo pochi presagivano. Il problema è riuscire a diffondere in modo orizzontale le conoscenze e le informazioni e non costruire cultura in modo verticale, per assemblamento di cognizioni e di snobismi. Lì c’è verticalità, ci si arrocca sopra. Si tratta bensì di avere il coraggio politico di iniziare a relativizzare alcuni aspetti della “cultura umanista” progettando strategie istituzionali per l’educazione, attraverso cui i giovani possano scoprire il valore di un rapporto possibile con la cultura: una nuova cultura che sappia coniugarsi con le sensorialità della comunicazione elettronica. E’ su questo punto che è possibile impostare tutta l’iniziativa politico-culturale per rilanciare un’editoria come “guado di civiltà”, recuperando il terreno perduto e purtroppo conquistato dal massmedia televisivo. Si deve superare la TV sul suo stesso piano: quello della comunicazione. E’ questa una delle poche vie d’uscita dall’impasse politica e culturale in cui il nostro paese si trova.
Non può che essere questo l’obiettivo di chiunque voglia agire per il bene comune.
ROBERTO MUSACCHIO (Coordinatore nazionale Dipartimento Lavoro Prc)
Proprio telegrafico. Mi sembrava utile intervenire, anche perché nel partito, come Dipartimento lavoro stiamo collaborando con i compagni del Dipartimento Informazione e ora anche con quelli del Dipartimento Cultura. E voglio dire che ho condiviso sia la relazione di Sergio Bellucci che le cose molto belle dette da Rina Gagliardi. Stiamo collaborando intorno a questi temi non solo perché “paradossalmente” in questo settore informazione che è in crescita si sta determinando una grande crisi occupazionale che ci tocca rincorrere dalla Telecom all’ Olivetti, che è frutto non di un’assenza di una politica industriale ma di una politica fatta di privatizzazioni, di internazionalizzazione passiva, di smembramenti … Perché sembra sempre che manchi una politica industriale in questo paese e invece c’è, ed è fatta in certe forme. Ma poiché c’è un’interazione forte tra le questioni dell’informazione, le questioni del lavoro e degli assetti produttivi, sociali, della democrazia, su questo abbiamo cercato di dare un contributo di analisi anche in precedenti convegni, sulle questioni del toyotismo, del telelavoro, del cablaggio, della veicolazione di merci, di servizi e così via. Credo che sia molto utile anche il lavoro che abbiamo fatto nel soffermarci anche da questo punto di vista su tutti i rischi che sono in corso di accentramento, di dominio, di gerarchizzazione, e anche di “esternalizzazione” graduale di funzioni che hanno rappresentato momenti importanti nella storia dell’umanità. Ecco, da questo punto di vista mi chiedo se la concentrazione digitale significa anche il rischio per alcune funzioni e alcune forme di espressione storicamente determinate, tipo la scrittura, di essere tagliate fuori o no? Poi naturalmente abbiamo i grandi problemi dell’attualità che devono essere affrontati anche con delle decisioni politiche. Qui c’è una discussione e un’iniziativa finalmente che attraversa il sindacato, anche se, certo, è un po’ paradossale che nel mentre c’è questa discussione, questa iniziativa, contemporaneamente si firma un accordo come quello della Telecom, e quindi siamo di fronte al fatto che il sindacato da una parte comincia a riflettere e dall’altra non riesce a fare il suo mestiere nella concretezza. Un sindacato della comunicazione? Quale funzione delle sinistre? Ho trovato molte assonanze nello schema di riflessione di Piero De Chiara, ma rispetto al processo di liberalizzazione della Stet la differenza è profonda, di atteggiamento, di comportamento, come rispetto alla funzione del mercato: la funzione pubblica per parte nostra è decisiva.
Ma qui – e finisco rapidamente – riprendo una cosa che diceva Rina Gagliardi e che a mio avviso è di grande importanza, di grande interesse: non siamo di fronte solo all’ esigenza di mettere al centro lo sviluppo e la promozione di un’industria culturale ma possiamo invece farci forti anche di una posizione più radicale che metta in campo i termini della creatività, dell’informazione interattiva e della democrazia come funzioni nuove di una critica extramercantile al capitalismo. Quando noi parliamo di lavori socialmente utili, extramercantili e così via, dovremmo ricollocare in questo ambito anche settori che già tradizionalmente, storicamente, nella storia dell’umanità hanno prodotto cultura, interazione, capacità di riflessione.
Sento che su questo si può tentare di fare una battaglia a fondo e di fondo sul fatto che l’informazione e la cultura siano accessibili e producibili per tutti e da tutti; le cose, cioè, che diceva Rina Gagliardi, che sa usare il computer a differenza di me che sono proprio un paleotecnologico.
Che ci sia una possibilità anche di alimentare questo grazie alla maggiore produttività che si è determinata; e invece ci sono società più ricche dove paradossalmente si riduce il tempo per la lettura; se sommate i tempi di quell’inchiesta che ci è stata consegnata, vedete che c’è un tempo più ristretto per tutto, dalla televisione alla lettura dei libri, alla lettura dei giornali, perché poi l’organizzazione del mercato del lavoro è drammaticamente peggiorata, si lavora di più, si lavora con intensità di ritmi più alti, più sfruttamento e quindi meno disponibilità, ecco perché si legge magari un libro di meno e si guarda di più la televisione, perché si è più stanchi. Al contrario, una società che ha più produttività potrebbe liberare risorse, tempo, spazio per una produzione e un consumo interattivo di questi fattori culturali come punto di liberazione da una società mercantile.
Non ho nessuna nostalgia per le società dell’est, però un’ offerta di cultura – anche se di regime, sbagliata, ma gratuita – di teatro, musica, e così via, c’era. Figuriamoci! con connotati di indottrinamento, ma l’elemento di fruibilità c’era. Allora perché non dara corso ad una grande battaglia per fare della cultura un grande valore extramercantile?
Prima di cominciare c’era, qui, in libreria, un ragazzo che ha detto “Mi aiuti a scegliere un libro” e sceglieva non solo in base agli argomenti ma anche in base al prezzo. Allora perché questa questione non deve essere rilanciata come una grande battaglia per la sinistra soprattutto: per una sinistra di alternativa quale noi siamo.
ROBERTO D’INCAU (Feltrinelli – Settore Multimedia)
All’interno della casa editrice Feltrinelli mi occupo specificamente delle problematiche legate alla multimedialità, quindi, in un certo senso, il mio intervento sarà “di parte”, da addetto ai lavori.
Feltrinelli Editore, come sapete, non pubblica titoli né off-line né on-line: siamo un editore di libri e tale intendiamo rimanere. Certamente, però, questo però non vuol dire che non prestiamo la dovuta attenzione ai nuovi media: siamo, au contraire, molto attenti a quanto viene fatto nel settore dell’editoria elettronica nel nostro paese, e all’estero.
Parlando personalmente, sono molto sensibile alle problematiche culturali proprie del multimediale, e non condivido le resistenze che spesso sento esprimere nel nostro paese sull’argomento, che mi ricordano un po’ le stesse resistente che alcuni secoli fa ebbero gli amanuensi di fronte alle novità del libro stampato e della macchina da stampa di Gutenberg.
Inoltre, personalmente, non condivido neppure gli allarmismi del tipo “Il CD-Rom, il Print-on-demand di Internet sostituiranno il libro”, fatto, questo, in cui non credo affatto, e poi dirò perché. Ritengo, invece, e lo dico non senza una punta di polemica, che questi allarmismi vengano da chi non ha un uso quotidiano con i new media, perché chiunque utilizzi i CD-Rom si rende conto perfettamente che la fruizione del disco ottico è totalmente diversa da quella del libro. Questa fruizione, non sequenziale e multidirezionale, porta ad avere col CD-Rom un rapporto che è ben diverso da quello che abbiamo col libro, un rapporto affettivo, finanche tattile, che non può certo essere sostituito da un freddo lettore di CD-Rom, anche se portatile.
E’ mia opinione, inoltre, che gli editori europei di qualità, che pure hanno dei budget produttivi di molto inferiori rispetto a quelli delle multinazionali americane dei media. Devono però essere in grado a breve termine di raccogliere la sfida multimediale, puntando sulla capacità, loro propria da sempre, di fornire contenuti “forti” e di ricerca, cosa questa che non sempre le multinazionali americane dell’industria culturale possono fare, perché devono realizzare titoli globali per un pubblico massificato, vendendo centinaia di migliaia di copie in tutto il mondo con minimi adattamenti.
Dissento, peraltro, dai colleghi di Manifesto libri e Tempi Stretti, precedentemente intervenuti, perché se è vero che i CD-Rom che si vedono più frequentemente nei negozi sono molto commerciali nei contenuti, è altrettanto vero che esiste anche una produzione su CD-Rom di qualità. Per esempio, una casa editrice newyorkese che definirei progressita, Voyager, ha realizzato dei titoli bellissimi, sulla vicenda di Abu Jamal, sul maccartismo, sul fenomeno del beat, con un taglio e dei contenuti assolutamente condivisibili e apprezzabili.
Voyager è uno degli esempi di editori che hanno realizzato titoli multimediali coraggiosi e non banali, dispiegando tutte le potenzialità del mezzo multimediale a favore di contenuti di qualità. Tornando un attimo indietro, sarebbe auspicabile anche da parte degli editori progressisti europei un atteggiamento non di rifiuto nevrotico verso le nuove tecnologie, ma di appropriazione del medium, per veicolare i “nostri” contenuti.
Parlando infine delle librerie, posso dire che anche le nostre librerie devono essere pronte ad accogliere, senza trionfalismi e senza prevenzioni altrettanto inutili, la sfida dell’elettronica. Certamente questo non vorrà mai dire che il CD-Rom prenderà il posto del libro sugli scaffali, però, analizzando anche realtà librarie all’estero, ritengo che una collana de CD-Rom di alto profilo possa tranquillamente convivere a fianco di libri, come già oggi avviene nei principali bookstrore di Londra, Parigi, New York. Anche il ruolo del libraio verrà valorizzato, nel senso che non sempre il computer-shop è in grado di indirizzare, consigliare, orientare il cliente verso le produzioni multimediali di qualità, mentre il libraio potrà avere anche questo ruolo; è una sfida che, mi auguro, anche le librerie italiane, comprese le Feltrinelli, possano raccogliere presto.
ARMANDO COSSUTTA (Presidente del Prc)
Ovviamente nessuna conclusione da parte mia perché la riunione che qui si è tenuta non può trovare delle conclusioni, ma soltanto momenti di puntualizzazione, che abbiamo peraltro cercato tutti insieme, che ci spingano a nuovi impegni, a nuovi appuntamenti, uno dei quali – già lo ha detto nella sua relazione molto bella, molto chiara, il compagno Bellucci – prossimamente a Roma, dove cercheremo con il contributo vostro e di altri ancora di definire anche sul piano più propriamente legislativo le nostre proposte, le comuni proposte delle persone che si occupano e sono fortemente, direttamente o indirettamente, interessate ai processi in corso. Non soltanto quindi nessuna conclusione ma neppure – e questo lo sapete benissimo, lo sanno i compagni che mi hanno invitato a partecipare ai vostri lavori – si attendono da me repliche precise e puntuali nel merito dei problemi per molti di voi ben chiari e ben noti, ma per alcuni di noi ancora non così chiari e così noti e voglio dire, per l’insieme del mondo politico, del tutto ignoti.
Il fatto che io intendo rilevare, che ho il diritto e il dovere di rilevare, è che se una persona che ha incarichi politici importanti nel proprio partito e nella vita politica nazionale sia qui a discutere di queste questioni, lo fa per sottolineare che questa non è una questione settoriale, non è una questione specialistica, non è una questione soltanto per addetti ai lavori. Essa è ormai una questione politica che deve essere affrontata in termini generali, comprensibili per tutti.
Condivido, per quello che riesco a comprendere, la tesi che qui è stata avanzata da diversi interlocutori, anche dall’ultimo, rappresentante della casa editrice Feltrinelli, che non dobbiamo chiuderci, difenderci, arroccarci nella difesa di quello che è esistito fin qui, di quello che esiste, ma avere coraggiosamente l’intento di giungere attraverso i fatti nuovi, i fenomeni nuovi, ad uno sviluppo ulteriore e non a una regressione. Cosa facile a dirsi. Ma per realizzare un tale risultato occorrerà fare, credo, molto, perché la situazione è pesante, è pesante soprattutto nel mondo editoriale. E’ pesante per antiche ragioni che conoscete, conosciamo da tanto tempo: l’Italia è tra i paesi che leggono meno, che consumano meno carta stampata, sia per quanto riguarda i libri, sia per quanto riguarda i giornali, siamo forse, – ho visto dalle statistiche che Bellucci ci ha preparato insieme ai suoi collaboratori – addirittura secondi al mondo per ascolto televisivo, ma siamo ben indietro nelle posizioni per quanto riguarda il consumo dei libri, siamo non soltanto in fondo a tutti i sette paesi sviluppati di cui facciamo parte, ma andiamo ben giù nella classifica internazionale.
Sono, diciamo, ragioni antiche, sulle quali non vale la pena adesso di insistere, che possono ulteriormente complicarsi di fronte ai nuovi fenomeni e rendere più acuta e più grave questa situazione. Io credo che l’approccio al tema sia quello di affrontarli in positivo, non vorrei che noi dobbiamo affrontare questi temi con preoccupazioni difensive: “mamma mia, che cosa succede, che cosa avverrà”. Sta avvenendo qualche cosa che voi avete paragonato appunto a rivoluzioni profonde nella vita della società, e guai a noi se dovessimo affrontarli con quelle preoccupazioni ed ostilità che avevano coloro che facevano a mano i libri di fronte alle prime possibilità di stampare con delle macchine, quello che gli operai e i lavoratori facevano di fronte all’introduzione dei sistemi di produzione più moderna. Non è la nostra posizione.
Io dunque considero che questa nostra discussione, molto utile certamente per chi come me dall’esterno vi partecipa, ma credo molto utile per tutti voi che vi avete preso parte, abbia anche un elemento di carattere generale. E’ stato detto da qualcuno: è questa anche una vera e propria battaglia di libertà, una vera e propria battaglia di democrazia, voglio anche aggiungere – perdonerete che chi si occupa di politica sottolinei questi aspetti – è anche una questione di difesa della nostra indipendenza.
Noi non possiamo accettare il sopravvento dell’immagine, il sopravvento dell’effimero, il sopravvento dello spettacolo rispetto all’esigenza profonda della conoscenza, che è poi la premessa per agire attivamente nella società.
In questo vasto ambito di una battaglia di cultura per la quale noi ci battiamo c’è la possibilità non di una regressione ma addirittura di uno sviluppo, di una espansione della conoscenza nella lettura. Questo è uno dei compiti principali per una forza politica della sinistra e comunque democratica. Questo lo sentiamo come nostro compito e di qui il nostro impegno e l’impegno rispetto a voi e rispetto a tutti coloro che in questo campo si stanno impegnando. Vorrei anch’io dire qualcosa sulle questioni del sindacato: è giunto il momento di mettere insieme tutte le forze, non vedo davvero perché ci debba essere una tanto marcata differenziazione; ne capisco le cuse, so che si rimane aggrappati alle tradizioni, ma perché si deve continuare a tenere distinte anzi separate la collocazione di chi lavora per scrivere nei giornali, nelle riviste, e di chi ormai lavora in termini del tutto nuovi con tecniche del tutto nuove e modernissime, in quello che una volta era il modo tipico del tipografo e che oggi consente una qualificazione del tutto diversa?
Io sento che il sindacato debba porsi con forza il problema di essere un punto di raccordo e di iniziativa per questa battaglia. Perché il sindacato? Perché il sindacato non è una forza di partito, può essere la forza che nella società è in grado di rappresentare contemporaneamente tutti gli interessi propulsivi; è il sindacato che deve potersi mettere al centro di questo impegno, di questa attenzione nel campo dell’informazione.
La battaglia, la proposta che noi facciamo per una nuova 416, per una nuova legge, che nel campo multimediale sviluppi quello che era stato fatto fin qui soltanto per l’editoria, deve essere concepita e vista da parte del sindacato come un momento di grande rilancio del suo ruolo. Non è soltanto la questione dei finanziamenti, cosa importante; anche noi come ogni paese dobbiamo affrontare questa questione in termini molto più coraggiosi. Come affrontiamo le esigenze e le conseguenze della trasformazione? Ecco perché pongo una questione di indipendenza, in quanto la trasformazione richiede investimenti abbastanza consistenti per le nuove tecniche, altrimenti noi saremmo sottoposti e vittime del dominio forte dei gruppi più potenti su scala internazionale.
C’è un problema di finanziamenti, dunque, ma non solo. I sindacato non deve permettere che gli interventi finanziari vadano esclusivamente a vantaggio delle imprese (seppure nel senso di un vantaggio per lo sviluppo della battaglia editoriale, sia pure delle nuove condizioni multimediali), ma deve in questo caso riuscire a vedere la collocazione della manodopera in termini del tutto diversi. I cosiddetti esuberi saranno sempre crescenti, maggiori. Avete sentito da Cagna la situazione della Rizzoli dimezzata per migliaia e migliaia di posti di lavoro pur in presenza di una triplicazione del fatturato. Questa è una situazione che si moltiplicherà. Occorre un intervento per i finanziamenti, ma un intervento anche per una nuova ristrutturazione, collocazione, per una nuova possibilità di difesa della manodopera tenendo conto che si tratta di una manodopera altamente specializzata. Si aggiunga poi la questione delle piccole imprese, le piccole case editoriali. Non vedo, nell’insieme, perché non si debba invocare un particolare intervento dello Stato. Qui non ce n’è. La questione è che qualcosa bisognerà pure prevedere. Io non sono certo dell’opinione che lo Stato gestisca l’economia. Non scherziamo. Ma occorre sapere che, per esempio la Stet, azienda pubblica, produce migliaia di miliardi di profitti e la Olivetti, azienda privata, ha migliaia di miliardi di debiti. Smettiamola con la storia secondo cui i privati sono più bravi. No. Lo Stato non deve essere gestore, ma lo Stato deve esercitare (e come se deve esercitare!) un proprio intervento. Lo Stato, come noi lo concepiamo, con un intervento pubblico con un intervento collettivo, deve aiutare, indirizzare, deve intervenire, non può lasciare che le cose vadano per il loro verso perché poi vanno, come si sa, per un verso sbagliato.
D’altra parte l’aumento delle tariffe che si vogliono imporre per quanto riguarda la telefonia, per quanto riguarda la Telecom la Stet, non è una conseguenza delle difficoltà della gestione pubblica, ma è una posizione rivolta a parametrarsi alle gestioni private degli altri Paesi, che ci porterebbe ad essere sul mercato in condizioni non corrispondenti alle nostre esigenze oggettive ma a quelle soggettive di altri. Questo so dire a proposito di temi, di problemi, sui quali non ho alcuna particolare specifica competenza; vorrei aggiungere (e qui concludo) che in questa fase politica così confusa, si stanno prendendo degli abbagli preoccupanti. Effettivamente questione fondamentale in Italia è oggi quella delle riforme istituzionali, di cui non sottovaluto per nulla l’importanza. Ma la questione di cui stiamo parlando è pure importante, ed essa cosa c’entra con le riforme costituzionali? Che cosa c’entra la questione del salario, delle pensioni, del fisco? Sono questi temi che occorre comunqueaffrontare. Tutto si rinvia. La nostra critica a Scalfaro è severissima, perché se non siamo andati a votare a giugno, è lui che se ne deve assumere la responsabilità, se la vita del Paese si sta avvitando oggi su se stessa, se la crisi non ha sbocchi il primo responsabile è il Presidente della Repubblica. L’iniziativa che noi abbiamo assunto, che i nostri compagni (che io ringrazio vivamente per quello che hanno fatto) hanno qui assunto è la dimostrazione di una sensibilità di cui ci onoriamo. Vorremmo, al di là delle differenze che nessuno può pensare di superare, tanto meno delle divergenze, vorremmo che tutte le forze democratiche, in particolare tutte le forze della sinistra, della sinistra antagonista, della sinistra moderata, o comunque tutte le forze democratiche, le organizzazioni dei lavoratori, quindi i sindacati, trattino, affrontino questo tema come tema tra i fondamentali, non soltanto per la difesa di un settore importante della vita produttiva, della vita economica, della vita lavorativa, ma come una grande questione di libertà, di democrazia, di indipendenza quale è il diritto alla cultura, alla possibilità della diffusione delle proprie idee.
Con l’intervento di Armando Cossutta si conclude la prima parte dei lavori della giornata di oggi. L’appuntamento è per le 15.30, quando daremo inizio alla tavola rotonda dal tittolo: “Il teso nel contesto multimediale”.
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TAVOLA ROTONDA
IL TESTO NEL CONTESTO MULTIMEDIALE
Coordina: Nico Orengo
PARTECIPANTI:
S. BELLUCCI
M. ROMANI
L. DE FEDERICIS
P. GUARDIGLI
T. VIGLIARDI PARAVIA
A. SALSANO
A. SCARPONI
P. FEMORE
SERGIO BELLUCCI (Responsabile nazionale Dipartimento Informazione Prc)
Direi di dare inizio a questa tavola rotonda che abbiamo voluto a conclusione del convegno tenuto questa mattina sui temi dell’industria editoriale nella tempesta digitale, come abbiamo voluto chiamare questo appuntamento, tentando di focalizzare, dal punto di vista del testo, inteso nel più ampio significato del termine. Non abbiamo voluto utilizzare il termine “prodotto” proprio per marcare una differenza tra l’apporto creativo del testo e la sua configurazione di merce. Tenteremo di analizzare, con alcuni operatori che ringraziamo per essere venuti, ricordo Lidia De Federicis, Piero Femore, Pierluciano Guardigli, Marco Romani, Alfredo Salsano, Alberto Scarponi del sindacato nazionale scrittori e Vigliardi Paravia, che dovranno in qualche modo trattare questo tema. Abbiamo chiesto a Nico Orengo di coordinare questa nostra tavola rotonda perché crediamo che dall’osservatorio del “suo” inserto Tutto Libri, e dal ruolo che svolge all’interno nel panorama editoriale e culturale italiano, possa dare un contributo importante di conoscenza, di come va il nostro mondo della produzione editoriale e culturale. Io avevo solo l’obbligo di questa presentazione e non vi rubo altri minuti dando direttamente ad Orengo la parola per il coordinamento dei nostri lavori pomeridiani che gli affidiamo.
NICO ORENGO (La Stampa)
Per coordinare, bisognerebbe saperne un po’ di più. Confesso che questo è un universo dove ci si muove abbastanza a fatica, si hanno pochissimi dati; anche Vigini che è un grande esperto di editoria, non è ancora riuscito a tracciare una mappa di quello che c’è oggi nell’editoria elettronica. Il panorama mi sembra tutto sfrangiato, sparpagliato e io credo che – come prima cosa – ci dovremmo porre delle domande e verificare se fra di noi c’è qualcuno più addentro all’argomento, in grado di rispondere a degli interrogativi. Dunque il testo nel contesto multimediale. Io credo che noi andiamo verso una fase in cui il testo di cui parliamo (il testo dell’informazione, il testo del giornale) è un testo in movimento; ed essendo in movimento continuo subirà delle grosse trasformazioni con i nuovi mezzi di comunicazione. Vorrei essere altrettanto sicuro, invece, dell’esistenza di un testo di riflessione, un testo fermo, che è quello della forma-libro, che continuerà ad avere un suo inevitabile spazio e mi auguro che non diventi uno spazio di nicchia, ma che possa invece continuare ad allargarsi. Forse questa mattina si è parlato più del testo in movimento, cioè dell’informazione, dei giornali. Proviamo invece a chiederci perché il testo “fermo” – parlo del libro – dovrebbe mettersi in azione, in movimento, perché dovrebbe finire altrove, al di fuori della pagina, fuori della carta della pagina ferma. Quello che vorrei chiedere e che mi chiedo è questo: perché c’è bisogno che anche questo tipo di testo si collochi altrove, cerchi altri spazi? Come li deve cercare e perché? Ed esiste un progetto? E, se esiste, da chi deve partire, un progetto che trasmetta questi testi in un “altrove”? C’è un mercato, qualche cifra, qualche dato: oggi il 10% dell’editoria è già su mezzi “altri”. Sappiamo però che sono libri di un certo tipo. C’è stato un esperimento poco tempo fa in Germania su testi di letteratura classica: una casa editrice ha provato a trasferirli su cd e la cosa non ha funzionato assolutamente perché erano più scomodi e più cari. Ciò può essere avvenuto perché si era solo agli inizi; ma io mi chiedo: esiste un pubblico per queste cose? Il costo quale sarà? Ne esiste una vera urgenza, o all’interno dell’editoria, ci sono e ci saranno sempre più degli spazi per questo tipo di iniziativa (penso all’editoria scolastica, ai vocabolari, penso all’uso che se ne può fare per imparare le lingue). Ecco, queste cose mi sono più chiare; penso anche agli spazi per le scienze, per tutto quello che è scienza. Noi abbiamo già una scuola pronta eventualmente a raccogliere questo tipo nuovo di trasmissione, di cultura e di informazione. Gli editori allora in base a che cosa saranno spinti, attivati, a fornire questi nuovi materiali? Questi sono alcuni degli interrogativi che qui potremmo porci e propongo di iniziare con un primo giro di interventi.
MARCO ROMANI (Liberazione)
L’ipertesto, l’antagonista multimediale di quello che Orengo definisce “testo fisso”, è la nuova forma testuale leggibile su computer, non più fissato cioè su un supporto cartaceo, ma su cd-rom o immesso direttamente nelle reti telematiche. Sua caratteristica principale, e che modificherà i paradigmi di lettura e apprendimento, è la non consequenzialità. In determinate zone del testo ci sono delle “marche” che indicano la possibilità di accedere, cliccando semplicemente sul mouse, ad altri testi che a loro volta hanno la possibilità di far accedere a testi ulteriori, in una catena potenzialmente infinita. Il rimando non è esclusivamente verbale, si può accedere infatti ad immagini e suoni. Il procedimento è simile a quello delle note di un testo tradizionale, ma la velocità di accesso e la quantità e la qualità dei testi accessibili stravolgono totalmente la linearità della fruizione per cui quasi scompare la priorità del testo di riferimento. Finora la tecnologia ipertestuale ha riguardato materiale scientifico e la critica letteraria. Particolarmente interessanti gli ipertesti sulle opere dei poeti: ai versi sono collegate “finestre” con la biografia dell’autore, tavole sinottiche di corrispondenze interne, esterne e alla poesia contemporanea, brani di altri testi che possono aver stimolato e influenzato l’autore e così via. La consultazione diviene molto semplice grazie all’uso di finestre che possono essere aperte contemporaneamente sullo schermo del computer. Ma, se è vero che l’ipertesto aumenta l’informazione, c’è bisogno di capire come questa informazione viene utilizzata. Credo infatti che non sia valida l’equazione maggiore informazione = maggiore comunicazione. L’ipertesto, se consultato in maniera acritica, può condurre infatti alla completa deriva. Bisogna cioè cominciare a comprendere che per fruire delle nuove forme di testo occorrono nuove mappe e nuovi punti di riferimento per orientarsi. La scuola si deve caricare quindi di nuove responsabilità. Non rifiutare il testo multimediale, ma studiarlo, capirlo, e fornire agli studenti gli strumenti adatti per poter dominare il mezzo e non subirlo.
NICO ORENGO
La scuola ovviamente deve accettare questo tipo di insegnamento, sia dal punto di vista economico che didattico. E’ un nodo importantissimo ed è fondamentale che tutta la scuola sia attrezzata a questo nuovo tipo di insegnamento e che ci siano docenti in grado di utilizzare le nuove tecnologie perché oggi – in quelle rare scuole dotate di computer – questi vengono più facilmente messi in moto dai ragazzi che non da un certo tipo di insegnanti.
MARCO ROMANI
Se la scuola deve cominciare ad occuparsi delle nuove forme di testo è chiaro che è compito del legislatore e dei partiti politici pensare ad una riforma della scuola pubblica che ponga al centro la riqualificazione degli insegnanti. Quando nel 1465 a Subiaco due collaboratori di Gutenberg stampano il primo libro in Italia, immagino che in tutte le Università italiane gli insegnanti abbiano sobbalzato. Il sapere, fino ad allora tramandato sostanzialmente per via orale con la mediazione esclusiva del docente, è ora disponibile su scala “industriale”. Lo studente può meditarlo, studiarlo e analizzarlo per proprio conto senza attendere il commento autoritario. La stampa ha quindi mutato radicalmente il paradigma culturale. La sfida dell’ipertesto impone un nuovo mutamento di paradigma, che deve essere indagato anche, e soprattutto, nei suoi aspetti contraddittori.
LIDIA DE FEDERICIS (L’Indice)
Sono del parere che, sia in generale, sia in particolare nella scuola di cui adesso si è parlato, non sia possibile, anche a chi lo volesse il rifiuto dell’innovazione tecnologica. E’ chiaro che nel momento in cui viene modificata la cosiddetta “costituzione” del testo – una volta avrei detto la “costituzione materiale” e ora i supporti sono diventati immateriali, e perciò svolta è più marcata – nel momento in cui questo capita, si potrà avere una frase di transizione più o meno lunga, ma non è pensabile che resti immutato il sistema culturale, e neppure lo specifico letterario. Qui vorrei però accennare a una distinzione, che corrisponde a una mia incertezza. Vorrei distinguere fra quelli che saranno gli sviluppi futuri (del sistema culturale), i quali sono a mio avviso per ora imprevedibili, e quello che è il presente o anche il futuro immediato. Mi è sembrato di capire dall’intervento di Romani che secondo lui gli sviluppi che io chiamo futuri sono quasi presenti o almeno imminenti. O forse invece ci stiamo costruendo un’ideologia del futuro. Ci stiamo immaginando un futuro che non viviamo ancora e perciò lo immaginiamo modellandolo sulle realtà, sulle paure che conosciamo. Finora il libro serve per pensare, e altri mezzi servono per lavorare. Accenno a un problema di cui percepisco la possibilità e la concretezza. Tutti sappiamo che il computer sdrammatizza la scrittura, data la facilità, la prontezza, delle correzioni. E’ un vantaggio, che ha però uno svantaggio. Il testo che produci diventa mutevole mentre lo produci. Dovrà adattarsi la filologia? Finirà la critica variantistica? Vale la pena di riflettere su questo aspetto, su questo modificarsi del lavoro di scrittura. Il ripensamento e il rifacimento ora spesso si accompagnano alla cancellazione delle varianti, alla scomparsa delle prime piste e dei percorsi di pensiero.
PIERLUCIANO GUARDIGLI (Scuola di Editoria di Milano)
Sulle varianti a cui accennava Lidia De Federicis ho qualche dubbio, resteranno dei file dispersi o dei monconi di file, ma per quanto tempo? Ormai gli editori ti chiedono direttamente il dischetto da mandare in composizione e con i tempi del libro e della fortuna del libro e dell’autore tutti gli avanzi elettronici temo faranno in tempo a dissolversi, a meno che l’autore non voglia espressamente conservarli. Non credo che ci sarà un grande futuro per i critici del testo.
Ma per tornare al tema del nostro incontro, del destino del libro e del suo futuro elettronico, stamani ho sentito interventi sulle magnifiche sorti e progressive della comunicazione scritta: biblioteche raggiungibili attraverso le reti, edicole dove ti costruisci il giornale come vuoi tu prima d’acquistarlo e così via. Dopo dieci anni di esperienza in questo settore temo si tratti di un progresso immaginario e forse inimmaginabile. I cd-rom che vedo in giro somigliano spaventosamente al testo scolastico: aprono finestre, disegnano percorsi, aggiungono informazioni testuali e illustrate al discorso generale. Non sono ancora una somma originale di saperi diversi, ma l’ultimo riciclaggio del solito sapere scolastico, una pallida effigie del sapere. Agli editori, in genere, qualche bella eccezione non manca, il cd-rom interessa, per ora, per le sue opportunità di riciclare quello che già hanno in catalogo. Stanno rifacendo in RCS il celebre Rizzoli-Larousse in versione, appunto, cd-rom e hanno tagliato un 30% di lemmi e un 50% in media del contenuto delle varie voci: se questa è la cultura a venire temo sarà talmente depauperata, una serie di informazioni disarticolate, che servirà a ben poco. E’ vero che cominciano a girare alcuni (pochi) cd-rom americani fatti molto bene, ma sono spettacolarmente riusciti, non culturalmente innovativi. Voglio dire che questi strumenti non sono ancora pensati in modo autonomo, perché in genere li fanno gli editori e li pensano come libri con qualche protesi elettronica, veri e propri cyborg. Se questo sarà lo standard comunicativo del futuro a livello divulgativo ed educativo bisogna cominciare a pensare a messaggi organizzati secondo le caratteristiche originali di questo mezzo. Trent’anni fa, per una lunga stagione, ci siamo affannati a difenderci dalla televisione “via cavo”, il moloch che avrebbe divorato l’informazione democratica e, soprattutto, i suoi strumenti, prima i giornali poi anche i libri. Abbiamo fatto barricate inutili, il cavo da noi non è ancora praticamente arrivato. Adesso ci stiamo armando contro il cd-rom che minaccia il libro. Non voglio dire che non arriverà e anche presto, ma non credo che se ne debba aver paura. Il problema culturale, e dunque già fin d’ora politico, è un altro. Cerco di ridurlo a poche parole: il libro, ci piaccia o no, non è diventato uno strumento di massa. Neanche nei momenti migliori del movimento, quando sui nostri banchetti si vendevano più saggi che romanzi. La presa di coscienza politica e culturale è, come abbiamo purtroppo scoperto, reversibile. C’è un vincente analfabetismo di ritorno con tutte le sue multiformi varianti: a qualunque potere non piace la cultura critica. Il libro ha funzionato egregiamente per poche élite fortemente motivate: c’è un milione di persone, in questo paese, dentro e fuori l’editoria e l’ambito che produce comunque cultura, che legge. Non so se è vero, come qualcuno diceva stamattina, che è superata l’espressione “industria culturale”. Come sempre si superano le cose cambiando i nomi. A me piace persino di più un’espressione ancora più datata come “industria delle coscienze”. Non so se, come afferma la relazione di Bellucci, un’industria di questo tipo, che certamente c’è, diventerà più importante dei produttori di automobili. Può darsi, ma la comunicazione di cui parla non sarà certo il libro e neanche il cd-rom e neppure le banche dati e immagini che sono il servizio finale al quale tutto questo discorso mira. Se il cd-rom si sviluppa occupando lo spazio del libro farà la fine del libro, resterà comunque marginale. E anche le banche dati, con immagini e tutto il resto, dovranno essere vendute al pubblico surrettiziamente come si vendono oggi le enciclopedie, a porta a porta. Di massa c’è la televisione che non fa cultura, perché se fa cultura l’audience la butta fuori mercato. E la televisione ha la capacità di far regredire i livelli di cultura e di coscienza non abbastanza motivati e, quindi, di riprodursi. Neanche la realtà virtuale nelle sue caratteristiche migliori diventerà di massa, ma avrà certo successo come surrogato sessuale. Ormai abbiamo capito come va il mercato.
Ed è proprio il mercato a orientare gli editori verso il cd-rom. Per l’opportunità del riciclaggio, come abbiamo detto, e anche perché, a parte il fascino snobistico del nuovo medium (il libro è così antico e così integrato), può risolvere uno dei problemi più irrisolvibili dell’editoria, la distribuzione. Molti editori sono affascinati dall’idea che con una valigia di cd-rom si può sostituire un tir con rimorchio di libri. Il libro è maledettamente materiale: pesa ed è anche fragile; teme l’umidità e brucia come un fiammifero. Ma soprattutto è ingombrante da mandare in giro. Con il cd-rom c’è un bel risparmio. Ma temo che ragioniamo, come sempre accade ma non sempre ci si pensa, con il criterio delle cose che già conosciamo. Per vendere la prime enciclopedie in cd-rom, per esempio, gli editori sostengono che l’acquirente può aggiornarsi l’enciclopedia personalmente: è una menzogna, come insegna lo stesso acronimo (Compact Disc Read Only Memory) e se un domani si faranno enciclopedie su dischi scrivibili lo sfortunato acquirente passerebbe la vita, con l’aiuto di parenti e amici a tempo pieno, ad aggiornare la propria enciclopedia. Il cd-rom, insomma, è solo un passaggio verso la banca dati, la rete. E la rete è proprio tutt’altra cosa dal libro.
Il libro è di massa solo nella scuola. Fin dal Medioevo le università divennero poderosi centri di produzione cartacea. Non leggevano allora più di dieci persone su mille, quasi tutti preti, ma quei pochi avevano sete di saperi. Neppure la Bibbia di Gutenberg, che fu importantissima, fu davvero uno strumento di massa, anche se in quei paesi si leggeva già più che nel nostro. La verità spiacevole è che non è il mezzo ad essere di massa, ma il genere: che sia già di massa tra i ragazzini il videogioco non significa che sarà di massa il cd-rom con un minimo di contenuto culturale. Per chiudere aggiungo un altro elemento che affascina gli editori: il cd-rom, le nuove tecnologie in genere, spiazzano il diritto d’autore, nascondono illustrazioni e testi in un cyberspazio al quale è difficile accedere. Il libro è insieme il supporto e la macchina, lo sfogli con le mani e lo leggi con gli occhi, sono tante videate consecutive, se si preferisce. Il cd-rom è un supporto illeggibile senza la macchina. Di un cd-rom esposto in libreria si può leggere solo l’etichetta.
TANCREDI VIGLIARDI PARAVIA (Vigliardi Paravia)
Il testo sotto forma di libro continuerà a sopravvivere; l’avvento dei cd-rom e degli altri strumenti di questo genere non segnerà la morte del libro ma sarà anzi il suo completamento. Tutto quello che è stato fatto fino ad oggi, la buona parte di quello che c’è oggi sul mercato, è, come diceva giustamente chi è intervenuto prima di me, un riciclaggio di materiale già esistente, è stato “buttato” cioè all’interno del cd-rom del materiale che esisteva già su materiale cartaceo. Sono convinto che i, senza conferirgli nessun valore aggiunto né alcuna valenza interattiva. Cambierà quindi il modo di intendere il libro soprattutto per quanto riguarda l’editoria scolastica; cambierà probabilmente il contenuto di questi libri: ci sarà il libro con tutti i contenuti essenziali, mentre tutti gli apparati che oggi vengono inseriti nei testi scolastici probabilmente non avranno più ragione di esistere nel libro stesso, e potranno essere forniti su altri supporti. Ma cosa significa oggi realizzare un cd-rom? Innanzi tutto si deve tener presente che costruire un prodotto valido, un prodotto nuovo, vuol dire un investimento non inferiore a un miliardo e mezzo, e di conseguenza la necessità di fare coedizioni con altre istituzioni o con altre case editrici, in quanto il mercato, soprattutto dell’editoria scolastica, è ancora troppo esiguo. Occorre quindi costruire delle banche dati, da sfruttare per la realizzazione di più prodotti destinati a pubblici diversi. Ritengo infine che parlando di editoria elettronica non ci sia da affrontare solo il discorso dei cd-rom o dei prodotti off-line, ma anche e soprattutto il discorso dell’on-line, di Internet, che se ben utilizzato può essere di grande vantaggio anche per quanto riguarda il campo della didattica e della scuola. A questo proposito ho letto recentemente che alcune istituzioni scolastiche stanno attrezzandosi in questo senso e, grazie ad un finanziamento del Ministero della Pubblica Istruzione, circa 150-180 scuole saranno collegate a Internet. E’ ovvio che nel momento in cui tutte le scuole avranno questa opportunità, ritengo che attraverso Internet molto si potrà fare per gli studenti e molto per gli insegnanti, per l’aggiornamento e la loro formazione.
ALFREDO SALSANO (Bollati Boringhieri)
A parte forse le prime considerazioni in questo giro io probabilmente risulterò un po’ stonato rispetto agli interventi che mi hanno preceduto, e questo deliberatamente, perché vorrei introdurre un altro aspetto dell’uso delle tecnologie informatiche nell’editoria dal punto di vista sia della produzione sia della distribuzione del libro. Prima di parlare di questi due punti, che mi interessano in modo particolare, mi porrei il problema già anticipato da alcuni di coloro che mi hanno preceduto della specificità del libro come merce, a fronte dei prodotti come il cd-rom che a quanto pare hanno preoccupato gli organizzatori di questo incontro. Il libro come merce, se teniamo presente il doppio mercato del libro, il mercato di massa, e quello di cultura, nel complesso si difende. Se consideriamo quella che si può chiamare l’economia dei best-sellers, essa non mi sembra attualmente minacciata dai nuovi supporti cosiddetti immateriali: Pennac probabilmente gode e continuerà a godere di ottima salute. Quindi la specificità del libro come merce a questo primo livello a tutti ben noto del mercato di massa, mi pare garantita e rassicurante soprattutto per le case editrici maggiori. Più problematico è affrontare questo stesso problema sul mercato di cultura, che io non considero un mercato di nicchia, ma che è naturalmente un mercato diverso dal precedente, diverso quantitativamente perché se nel primo mercato si ragiona in termini di centinaia di migliaia di copie e oltre, in questo secondo mercato si può vincere con molto meno. Anche con due-tremila copie un libro di cultura è economicamente valido, basta che si consideri il rapporto costi, prezzo, mercato assicurato e normalmente prevedibile, insomma roba di normale amministrazione per chi fa questo mestiere. Certo, c’è un settore del mercato di cultura in cui i nuovi mezzi informatici entrano in competizione con il libro: già da anni, se non da decenni, nelle comunità scientifiche di matematici, fisici, gli scambi invece che nelle pubblicazioni scientifiche possono avvenire attraverso posta elettronica, teleschermo, eccetera. Questo riguarda lo specifico di queste attività scientifiche e riguarda anche l’aspetto informazione che è stato sottolineato sia da Romani sia da De Federicis come specifico delle tecnologie cosiddette immateriali, tecnologie nate per la gestione di stock d’informazioni (bisogna sempre ricordare che la base è il codice binario 0/1, bianco/nero, eccetera). Quando ci spostiamo dalla trasmissione e gestione di informazione nell’ambito delle scienze molto formalizzate al campo della saggistica filosofica o sociologica o anche di teoria della letteratura o politica, allora mi sembra che anche sul secondo mercato, quello dei piccoli numeri se confrontato al mercato del best-sellers, il libro conservi una sua specifica validità proprio come merce. C’è differenza tra il trattamento di un’informazione semplificata come nel caso di voci di enciclopedia decurtate di testi a livello scolastico e la densità concettuale di un saggio che ovviamente può essere trasmessa anche per posta elettronica, può essere riprodotto e distribuito su cd-rom, però probabilmente con delle diseconomie: cioè il libro sarà più economico per servire quei due-tremila lettori motivati che hanno bisogno di quel supporto e che in alcuni casi sono addirittura infastiditi dall’accedere a una concettualizzazione complessa su un supporto così fluido.
Per il momento mi fermo su questo punto per passare invece a un altro ordine di considerazioni di cui mi piacerebbe si parlasse stasera. In generale le tecnologie informatiche hanno avuto un impatto sul mondo dell’editoria e quindi, se prendiamo in considerazione il livello della produzione, vediamo che ci troviamo in una situazione analoga a quella di altre industrie. Se in una casa editrice per la quale pure ho lavorato, come l’Einaudi, un tempo l’organizzazione del lavoro comportava per esempio un enorme ufficio “fordista” di correttori di bozze, con lo Charlot di turno che per tutta la giornata correggeva bozze oggi mi sentirei quasi di parlare di un “toyotismo” editoriale.
Il mondo dell’editoria è cambiato grazie ai mezzi di trattamento del testo: almeno in case editrici di piccola o media dimensione questa funzione della correzione delle bozze è come dire delegata, in parte rinviata agli autori o ai traduttori che trattano il testo e consegnano il dischetto e in parte può essere assicurata rapidamente tra redazione e tipografia con enormi guadagni di produttività a parità di qualità. Ora questo modo di produrre i libri consente, almeno nella casa editrice Bollati Boringhieri, a seguito di una recente trasformazione dell’organizzazione del lavoro, di fare per esempio a meno delle gerarchie manageriali, perché il guadagno di tempo e il guadagno di produttività resi possibili da questi mezzi che io quindi non solo accetto, ma vedo con favore ha consentito, questione dell’occupazione a parte, da trattare in altra sede, di fare i libri in un modo più “conviviale”. Nella Bollati Boringhieri siamo organizzati per aree i cui responsabili hanno anche responsabilità di gestione, oltre che di scelta dei testi e del tradizionale lavoro editoriale. Questo è un primo punto.
Brevemente sulla distribuzione: questo è anche un punto sul quale mi piacerebbe si parlasse in questa sede, perché riguarda l’editoria di cultura concepita in questo modo, cioè l’editoria di cultura che sappia servirsi in modo avvertito nell’organizzazione stessa del suo lavoro delle nuove tecnologie. La sopravvivenza del libro come supporto nella sua forma merce è legata ovviamente all’individuazione di una utenza che per l’editoria di cultura piccola e media non può che essere politicamente motivata. Anche a questo livello tra case editrici, riviste, altri centri associativi, in cui le persone si incontrano e cercano di attrezzarsi con una cultura di fronte alla tempesta che non è solo digitale ma è anche politica di questi tempi esiste la possibilità di mettere in rete. Questa parola è tratta proprio dal mondo delle nuove tecnologie che a questo punto acquistano un rilievo decisivo per il successo o semplice sopravvivenza delle case editrici di cultura. Insomma, anche il libro e in particolare il libro di cultura può essere più accessibile dalle tecnologie di cui stiamo parlando, che intervengono appunto anche nella produzione e nella distribuzione del libro oltre che come alternative e nemiche del libro.
ALBERTO SCARPONI (Sindacato Scrittori)
In questo primo giro io mi trovo a parlare per ultimo, quindi ho il vantaggio di poter tenere conto di tutto ciò che hanno già detto gli altri e farne una sintesi. Ma sarà una sintesi partigiana, essendo io il segretario del Sindacato nazionale scrittori ed avendo dunque non solo un punto di vista determinato, ma anche per così dire un tema obbligato: la condizione degli autori nel nuovo stato di cose.
In fondo posso dire di essere d’accordo con quanto ha detto Guardigli. Infatti mi sembra che sia accaduto molto poco nel campo editoriale per l’aspetto del “prodotto”, vale a dire il libro e la sua utilizzabilità, mentre le nuove tecnologie hanno sicuramente toccato a fondo l’editoria come sistema produttivo e distributivo. Sotto questo profili anzi possono aversi, io credo, sviluppi tali da produrre forti trasformazioni. Anche nell’immediato sono possibili accelerazioni notevoli.
Ciò crea alcuni problemi. E sto entrando subito nell’argomento che mi preme. Si tratta di questo: gli editori percepiscono questa nuova realtà tecnologica come un solido terreno di dinamica imprenditoriale e tendono ad escludere gli autori da ogni considerazione. Posso essere più preciso: di fronte a queste novità tecnologiche abbiamo ora il tentativo di eliminare l’autore addirittura in termini giuridici; si pensa e si chiede di sostituire il diritto d’autore con il cosiddetto diritto di editore. Questo passaggio dovrebbe trasformare l’autore in un semplice aiuto dell’editore, un aiuto che coopera, che ottiene naturalmente dei compensi appropriati, magari anche notevoli, ma che non partecipa più alla proprietà sull’opera dell’ingegno, non ha più autorità su di essa, non ha più il diritto morale di intervenire sul destino del “prodotto” (del libro, ma per quanto lo riguarda qui si tratta del “testo”).
Si vuole dunque un assetto giuridico dove l’autore non abbia più titolo a decidere sulle utilizzazioni materiali del suo testo. Perché è di questo che si tratta: delle utilizzazioni materiali. A chiarimento farò un esempio elementare, un esempio modello: io scrivo un romanzo; il romanzo viene pubblicato da un editore e diventa libro; il libro, in quanto contenitore del romanzo, diventa titolo giuridico pieno, proprietà, dell’editore; io resto autore ma giuridicamente non ha rilevanza, risulto un collaboratore nella produzione del libro allo stesso titolo del grafico, del tipografo e così via. A quel punto cosa succede? Il mio compenso sarà forse relativamente maggiore (a seconda del mio potere di contrattazione) di quello del tipografo o del grafico, ma io che pure ho scritto il romanzo, non sarò in grado di determinarne il destino, non potrò intervenire sulla scelta di trasformarlo per esempio in un film o in telenovela. Io avrò perduto il diritto morale di intervenire sul romanzo, perché appunto il “prodotto” sarà gestito sotto la categoria giuridica di diritto dell’editore. Tanto meno sarò in grado di godere dei proventi eventualmente più alti di quel che non fosse prevedibile al momento della stipula del mio contratto di “collaborazione” con l’editore. Tutti sappiamo che il diritto d’autore viene compensato, oggi, fissando quote di spettanza dell’autore sul prezzo di copertina del libro. Tale sistema permette di far partecipare l’autore ai guadagni che vengono dalle vendite effettive. Ora, se non esisterà più il diritto d’autore, il compenso si limiterà a un forfait iniziale, magari assai ricco, ma senza ulteriori conseguenze.
Con questa descrizione ho anticipato quel che intendevo dire in una fase successiva della discussione. Tornando alla premessa, affermo appunto che in realtà non è accaduto moltissimo quanto all’uso del libro (mentre si vogliono cambiare i rapporti di potere, proprio affermando che si è verificata una sorta di rivoluzione). In realtà, il testo, quando esiste, esiste nella forma di scrittura. Per avere una rivoluzione, dovremmo trovarci di fronte a nuove tecnologie che trasformino il testo scritto in un testo multimediale. Ora, l’operazione politico-giuridica di cui ho detto, si presenta come destinata a gestire non il libro come si presenta oggi, ma l’”opera multimediale” (l’opera cioè composta da vari apporti autorali, ma nel suo risultato ultimo proprietà dell’editore), per cui il mio esempio calzerebbe fino in fondo se io dicessi che quel romanzo viene prodotto in termini multimediali, vale a dire verrà pubblicato come testo all’interno di un compact disc insieme con altri interventi altrettanto autorali: quelli del grafico, dell’illustratore, del compositore musicale e altro ancora.
Tutto questo però è di là da venire ed è sintomatico che lo si dia già, senza tanti complimenti, per avvenuto, al punto di farne la base di fatto per un nuovo assetto giuridico. E poi, anche se avvenisse non cambierebbe granché dal punto di vista del testo e del suo autore. In ogni caso a me sembra che nel momento attuale il libro non sia affatto sostituito né dal cd-rom né da Internet, dalle reti o dalle autostrade informatiche. A me accade, ad esempio, d’essere redattore di una rivista culturale (si chiama Lettera internazionale): ora, in redazione abbiamo discusso su come trovare nuovi canali di contatto con il pubblico e naturalmente abbiamo pensato anche ad Internet; tuttavia ci siamo resi immediatamente conto che lo si può utilizzare solo come veicolo d’informazione (indirizzi, notizie editoriali, sommari dei numeri, ecc.), al massimo d’informazione introduttiva (riassunti dei contenuti degli articoli), ma che pubblicare interi saggi su Internet servirebbe a poco, pochissimi sarebbero quelli che intenderebbero questa rete come un canale di distribuzione della rivista. Può succedere per ragioni di fretta o di utilità immediata che ci si serva di una “stampata” fatta lì per lì, ma la scrittura ha bisogno di essere presentata in forma di libro.
Quanto ho detto dimostra, ovviamente, che quando si parla di “libro” occorre in verità distinguere: non è stato intaccato dalle nuove tecnologie soltanto un tipo di libro, quello – diciamo così – creativo, di invenzione, il libro di poesia, di narrativa, una certa specie di saggistica. Invece il libro di consultazione, che va dall’enciclopedia alla grande informazione scientifico-culturale, può tranquillamente venir sostituito dal cd-rom o dalle banche dati attingibili tramite Internet. Qui però siamo nel campo dell’informazione e può esserci una competitività tecnologica (sempre ammesso che non abbia le magagne lamentate da Guardigli rispetto alla sua versione in libro). Qui c’è un mutamento e una incidenza sul modo di presentare la cultura e l’informazione. Anzi, io credo che oggi le nuove tecnologie dell’informazione possano contribuire molto a una diffusione del sapere, a un ampliamento del target delle operazioni culturali.
Non sarà invece questa la strada da percorrere per diffondere la cultura nel significato di “pensiero critico”, problema cui alludeva questa mattina Rina Gagliardi e a cui si è riferito adesso Nico Orengo domandandosi se il libro abbia un destino di nicchia oppure non gli si presenti qualche altra possibilità. Ecco, tutti noi, ritengo, auspichiamo che il libro e il suo “pensiero critico” non siano destinati ad essere l’orizzonte e il piacere di alcuni pochi savi, ma secondo me la strada per ottenere questo non è quella di affidarci alle nuove tecnologie, è quella di lavorare sul libro.
PIERO FEMORE (Libreria Campus)
Sono molto confuso da quello che ho sentito stamattina e da quello che sto sentendo adesso, perché il convegno si diceva “L’approdo multimediale, l’editoria nella tempesta digitale”. Questa è una tempesta annunciata di cui non sappiamo né i contorni, né l’intensità, non sappiamo nemmeno se sarà una tempesta. Per quanto riguarda la trincea che io rappresento, cioè una libreria, quella tempesta fino adesso è arrivata con spruzzi assolutamente non significativi e anche molto modesti. I tentativi che l’editoria ha fatto, l’editoria specifica e non specifica, per arrivare al cd-rom o comunque a nuove tecnologie, non sono stati eccelsi. Nonostante tutte le proposte intelligenti, sono arrivati vocabolari di inglese con l’80% in meno di parole, basti vedere il dizionario Garzanti e alcune enciclopedie dove sono stati fatti dei tagli mostruosi, per cui il prodotto che si propone come rivoluzionario è di qualità scadente. Ed è curioso che anche adesso non si stia parlando di qualità, come se il mezzo di per sé potesse prescinderne. Il libro non prescinde dalla qualità: un libro buono è un libro buono, un libro cattivo è un libro cattivo, e allora anche un cd-rom può essere pessimo come un libro. Che cos’è stato fino adesso il cd-rom? E’ la vecchia proposta culturale che ha cambiato look attraverso questa forma, almeno in questo momento. Ci saranno, come diceva Roberto D’Incau della Feltrinelli, delle cose straordinarie. Per adesso no. Comunque non ci hanno dato modo di cambiare il nostro approccio alla cultura. Certamente l’informazione è un problema che riguarda molto poco lo specifico del settore; infatti, sono molto tranquillo, così come la Feltrinelli mi pare sia tranquilla. Le librerie Feltrinelli si stanno attrezzando per avere un settore multimediale, anche noi ne stiamo aprendo uno, che da un punto di vista commerciale non mi preoccupa, anzi, se allarga il mio fatturato, mi sta bene. Quello che non mi sta bene invece è sentir parlare di editoria della tempesta; a me pare che l’editoria abbia già avuto la sua tempesta quando ha cambiato padrone, quando l’editoria ha fatto sparire l’editore. Quella odierna è l’editoria senza editori, è un’editoria con grandi gruppi finanziari. E’ lì che c’è stata la grande tempesta, una grande tempesta commerciale; un modo diverso di proporre il libro, un modo diverso di vendere il libro. Questo è avvenuto negli anni Settanta e questa è la tempesta che abbiamo dovuto sopportare; e fino adesso l’abbiamo sopportata mica male, però con il 30-40 per cento di rese cioè con un mercato completamente sconvolto. Questa è stata la vera tempesta che ci ha costretti a rivedere le nostre funzioni non solamente di scrittori, distributori, ma di tutto il mercato. Non è un caso che tutta l’editoria italiana sia fallita, tutta. Non c’è un grosso gruppo editoriale che non abbia dovuto far ricorso a finanziamenti esterni. E’ fallito Mondadori, Fabbri, Rizzoli. Sono falliti tutti questi editori ed è cambiato, attraverso questi fallimenti, il modo di fare editoria. Questa è stata la grande tempesta che ci ha sconvolti. Un’altra osservazione. Mi pare curioso che fino a quando non è intervenuto Salsano si sia sempre parlato di testo e non di libro. E’ indicativo è interessante. Non condivido, invece, l’apprezzamento al mercato della scuola. Noi ci misuriamo con le scuole in questo momento, ma la scuola non usa ancora il computer: i ragazzi lo usano a casa, per giocare. Ma qual è la media dei ragazzi che lo usa? Il 12% in Italia rispetto al 40% dell’Europa, degli Stati Uniti, siamo su delle indicazioni molto basse, minime. Se l’editoria elettronica punterà al cd-rom con lo stesso metodo con cui ha puntato sul libro, allora altro che piccoli spazi! Non cambierà assolutamente nulla e il libro, secondo me, non ne soffrirà. Stamattina, quando qualcuno parlava delle incapacità della sinistra di fare alcune cose, e guardavo i manifesti di questa stupenda casa editrice che si chiamava Einaudi, mi dicevo: come mai la sinistra si è lasciata fregare Einaudi, non ha fatto nulla per salvare questa casa editrice? E poi mi sono dato la risposta: perché dovrebbe avere i mezzi, e anche le competenze per entrare nel settore della grande informazione multimediale.
NICO ORENGO
Vorrei riprendere alcuni temi.
Uno è quello della paura, l’altro quello dei costi, il terzo il servizio. La signora De Federicis ha parlato di sviluppo del sistema culturale, ma io credo ci sia anche un altro problema: al di là della volontà della scuola di intervenire, o della disponibilità del mondo dell’editoria a modificare la produzione, mi sembra che da parte delle generazioni più giovani ci sia un’attenzione a tutto quello che è digitale; un’attenzione che a un certo punto si farà sentire, che si fa sentire già molto forte. C’è un modo di ragionare che è già diverso; io rimango abbastanza stupito quando mi trovo davanti degli apparecchi televisivi o radio, che non hanno più alcuna indicazione scritta, hanno dei simboli. E’ già un altro modo di toccare le cose, di avvicinarsi alle cose. C’è qualcuno che già conosce questo diverso codice di linguaggio e lo utilizza: non scrive più stop ma mette un quadratino, un simbolo. Allora se si vuol fare un discorso che parta dall’origine è proprio del testo che si deve parlare. Il testo verrà sicuramente richiesto in un’altra veste e in un’altra veste sarà dato: questa è la grande novità. Allora la paura, o comunque l’interrogativo che lei si poneva, possiamo porcelo un po’ di più?
LIDIA DE FEDERICIS
Mi fa piacere che Orengo abbia ripreso quest’argomento, anche se dal giro di opinioni che ho sentito ho visto confermata la distinzione che a me pareva di voler abbozzare fra questi ipotetici sviluppi abbastanza imprevedibili e quella che è la realtà attuale. Io sono d’accordo con tantissime cose che sono state dette da Paravia, Scarponi, Salsano, e in particolare sul fatto che attualmente si rilevano ancora grossi cambiamenti, mentre invece sono avvenute grosse trasformazioni nell’assetto del lavoro editoriale. Mi piacerebbe anche riprendere il discorso dell’indebolimento dell’autore, l’indebolimento dell’autorità autoriale nel contesto multimediale. Sono sicura che è vero che, indebolendosi la scrittura, si indebolisce nella fabbrica del libro l’importanza dell’autore. Faccio però notare questo. L’autore non ha mai goduto di grande autorità nel rapporto con l’editore; ha acquistato faticosamente solo da un secolo circa un suo peso, i diritti d’autore, il contratto eccetera. E’ sempre stato in posizione di difesa rispetto a venditori, in posizione debole. Quello che non so è se effettivamente c’è in questo momento un ulteriore notevole indebolimento della figura dell’autore data la multimedialità o se non fa che prolungarsi uno stato di debolezza che oggi deve fare i conti con i cd-rom, eccetera, e una volta doveva fare i conti col direttore editoriale, con l’illustratore del libro e altri. Mi chiedo se effettivamente c’è un indebolimento ulteriore, specifico, legato alle nuove tecnologie, o se non si tratta che del perdurare in Italia di una condizione debole. Invece, tornando al problema interessante che solleva Nico, io non parlerei di paura. Però nessuna persona normale può desiderare di leggere un libro in cd-rom, quando se lo può mettere in tasca, andare su una panchina e aprirselo. Io son d’accordo che il libro per la sua materialità è fragile, ma essendo il singolo individuo, che è quello che legge, materialmente costituito, è anche lui fragilissimo; direi che le due fragilità si accompagnano abbastanza bene. E quindi in questo momento non vedo in atto una competitività. Invece è vero che rilevo – io mi occupo ormai da anni soprattutto di narrativa sulla rivista L’indice -che effettivamente il modo di pensare, la scrittura del libro è cambiata. Non so dove andrà a finire, il fenomeno che tu rilevavi, il fatto che la mentalità giovanile è più abituata a pensare in termini di digitazione, immagine, parola flash, che non in termini di scrittura complessa, sintassi, processi logici di concatenamento. Aggiungo anche questo. Ho l’impressione che attualmente nella qualità del libro ci siano due tendenze prevalenti: una è la tendenza appunto alla semplificazione assoluta, perché si pensa così di rendere il libro più adeguato agli usi correnti. L’altra tendenza è invece quella del libro che si stringe in autodifesa. Allora abbiamo una forma di ridondanza letteraria per cui il libro è citazione, è il libro che cresce sulla letteratura, è il libro “neobarocco” che mescola, che lavora su figure del passato, che accumula materiali. Devo dire che quello di cui si sente la mancanza è il libro all’altezza dei nostri tempi, all’altezza del cambiamento culturale. Io non credo alla letteratura che vive di memoria della letteratura. Se la letteratura deve vivere della memoria di se stessa, penso che appunto la vedremo sopravvivere malamente, ma che il suo destino è segnato. Però anche la semplificazione grossi frutti non ne ha dati.
Ho sentito qui molto parlare della distinzione fra una cultura di servizio, che è quella a cui l’innovazione tecnologica si presta bene, e l’altra cultura, per cui si possono usare gli aggettivi “critica”, “problematica”, “creativa” e direi anche “politicamente motivata”. Si può avanzare l’ipotesi di una crescita dell’area di servizio, cosiddetta di servizio: dico cosiddetta perché anche nel servizio la qualità vuol dire qualcosa. L’area cosiddetta di servizio ormai nelle librerie occupa un bel po’ di spazio. Sta crescendo la cultura che si chiama di servizio. Se questo è vero, ci pone dei problemi. Naturalmente si può essere pessimisti, e ritenere che il servizio sia a volte cattivo e sempre povero, costituito di piccoli strumenti. Però posso anche vedere la cosa in termini più problematici. La cultura alta forse è in difficoltà, ma forse la cultura bassa si fa meno bassa.
NICO ORENGO
Diamo la parola a Vigliardi Paravia che nell’intervento precedente aveva espresso la necessità di progettare un universo cd, sebbene non ci siano ancora i numeri perché questo programma di cd dia dei risultati, anche economici, sottolineando appunto che il mercato scolastico è piccolo. Allora mi chiedo, un editore come la Paravia, come affronta questo problema e perché affrontarlo?
TANCREDI VIGLIARDI PARAVIA
Prima di rispondere a questa domanda vorrei fare ancora una riflessione su quello che ha detto prima Femore, cioè che la tempesta non c’è, che si fa più chiasso di quella che è la realtà. Questo è vero se si interpreta il cd-rom come uno strumento che possa sostituire il libro o che sia in concorrenza con il libro, ma come qualcosa di più, di diverso, che si può aggiungere al libro e che ne facilita l’acquisto. Secondo me, se si pensa in questo modo, il libro continuerà ad esistere e non si potrà parlare di tempesta digitale. Se è vero che oggi non c’è ancora il mercato per questi prodotti multimediali, sono certo che ce ne sarà in futuro a patto che i cd-rom siano realizzati badando alla qualità maggiormente di quanto si fa oggi. Bisogna ragionare fin da oggi per creare dei prodotti di grande qualità, altrimenti si corre il rischio che chi acquista dei cd-rom come la maggior parte di quelli che ci sono oggi sul mercato, si allontani definitivamente dal mondo delle nuove tecnologie. Tra le problematiche legate alla realizzazione di prodotti multimediali va ricordato il problema, ancora di difficile risoluzione del diritto d’autore. Si pensi che se si realizza un cd-rom l’autore è soltanto uno dei componenti di un’équipe: ci sarà chi ha fornito i testi, chi realizzerà lo story-board (come per la realizzazione di un film), chi ha fornito materiale illustrativo, chi ha realizzato materiale filmico. Sono più diverse le componenti che entrano a far parte di un prodotto cd-rom, quindi l’editore come produttore dove potranno esserci delle quote, se il prezzo di vendita è 50.000 lire e il contributo dato dall’autore quello che ha portato al contributo scritto è del 5% come è nelle opere collettive sarà un 5% su quello che è il valore del prezzo di copertina ci sarà il 7% sul contributo dato da chi ha realizzato lo story-board, il 10% se c’è molta parte filmica eccetera, quindi sarà sempre più importante quello che è il ruolo dell’editore per la realizzazione di questo prodotto.
Il mercato oggi ancora non esiste anche perché i prezzi sono fuori da ogni logica. Perché il cd-rom possa avere un mercato, deve avere il prezzo di compact-disc di musica, tra le 35 e le 40.000 lire. Il mercato scolastico è esiguo se lo si considera come mercato fatto dalle scuole o dagli insegnanti soltanto; è mercato che può amplificarsi se si pensa agli studenti. Per fare un esempio, abbiamo realizzato con la RAI e l’Istituto di Studi filosofici di Napoli tre floppy-disk di filosofia, che vengono venduti per corrispondenza al prezzo di £ 15.000; il fatto che di questi floppy-disk ne abbiamo venduti circa 5.000 significa che c’è stata una risposta non solo della scuola o dell’insegnante ma sono stati gli studenti stessi che hanno cercato questo strumento. Ne abbiamo venduti una quantità così ingente perché li abbiamo messi sul mercato ad un prezzo bassissimo. Questo dimostra che se il prezzo è accessibile il mercato esiste.
MARCO ROMANI
Nel dibattito di questa sera avverto una sorta di terrore. Mi sembra che oggi si stia celebrando, nostro malgrado, il funerale del testo a stampa, proprio quando si insiste tanto sulla sua centralità ed esclusività. Io stesso guardo sempre con sospetto ai prodotti high tech, anche perché ho, con il testo cartaceo, un rapporto quasi corporale. Nonostante ciò sento l’esigenza di stimolare il dibattito sul testo multimediale.
Poco fa, Paravia ha sostenuto che fino ad ora gli ipertesti prodotti in Italia sono di scarsissima qualità. Ma se l’enciclopedia Larousse realizzata in versione multimediale è stata massacrata, semplificata e bignamizzata, la responsabilità non è dell’ipertesto in sé, ma dell’editore che ha voluto realizzare un pessimo prodotto, approfittando della multimedialità per accaparrare acquirenti.
Non è un problema del mezzo, quindi, ma di come esso viene gestito. Troppo spesso il cd-rom è usato come puro riciclaggio di materiale editoriale in crisi di vendite.
Quando proponevo una riflessione sul testo del futuro, e in parte del presente, pensavo al fascino che può avere una “placchette” di Sanguineti che contenga multimedialmente le immagini di opere di Enrico Bay e i suoni della musica di Luciano Berio. Quella che si può provare è un’emozione diversa e più complessa rispetto a quella tradizionale.
Le nuove tecnologie muteranno l’approccio della lettura (che non sarà esclusivamente più tale) e quindi della conoscenza. Evidentemente si apre, e diviene sempre più urgente, una discussione sul diritto d’autore. In un cd-rom, penso soprattutto a quelli immessi in rete, è quasi impossibile controllare le parti di un testo tutelato che vengono innestate in altri testi. Ai frequentatori esclusivi di librerie questo sembrerà forse uno scenario futuribile, ma per milioni di utenti di Internet, che acquisiscono continuamente testi dalla rete, la questione è attualissima. Internet è infatti pieno di materiali che vengono recuperati, stampati, letti, ascoltati o integrati con altri testi ancora..
Le forze politiche, e questo convegno dimostra l’impegno di Rifondazione a discutere tali tematiche, dovranno iniziare a confrontarsi con gli autori e con le associazioni degli editori per trovare, insieme, delle forme nuove di tutela.
La rivista milanese cyber “Decoder”, tutto il movimento che fa capo a Gomma e alla Shake edizioni, un’area del “Manifesto” e della rete dei centri sociali è da anni che teorizzano il “no-copyright”. E’ giusto, sbagliato, estremistico, provocatorio? L’importante è che la questione venga aperta e che le posizioni, per quanto divergenti, inizino a discutere per rivedere l’intera normativa. Degli scenari si sono già aperti. E’ inutile – e in realtà un po’ patetico – sostenere l’immortalità del libro a stampa e per giunta fondare tale sicurezza sulla comodità di portarselo in tasca. E’ ozioso tessere le sue lodi perché tutti le conosciamo e amiamo. A tutti noi piacciono le illustrazioni di copertina, la grana della carta, il corpo dei caratteri tipografici. Tutti abbiamo apprezzato la grafica di copertina di Munari o le illustrazioni di Luzzati. Temo però che se non cominciamo a ragionare subito, in sede teorica e in sede politica, si va incontro alla formazione di un estremo sud tecnologico. Si va profilando insomma una realtà in cui una parte della popolazione sa usare la tecnologia – e quindi può accedere ai nuovi mezzi di comunicazione e anche i nuovi mezzi di produzione creativa – e un’altra parte che ne è esclusa. Tra quest’ultima categoria si dovrà poi distinguere tra la maggioranza che non ha accesso alla tecnologia per ragioni economico-sociali e una minoranza che in nome di un “purismo” estremo si autopreclude la possibilità di confronto. Se, come abbiamo più volte ribadito, finora gli ipertesti raccolgono soprattutto materiale scientifico, dobbiamo ritenere che tra non molto avremo testi creativi multimediali con nuove sintassi e nuove grammatiche. In Italia solamente Lorenzo Miglioli ha già realizzato, con risultati modesti, opere di questo genere.
Però da qui a dieci anni possiamo ragionevolmente pensare che verrà alla luce una nuova generazione di “scrittori”, che cominciano ad elaborare i loro prodotti direttamente in ipertesto. Svanirà la centralità della sequenzialità che il testo a stampa presuppone, l’opera comprenderà blocchi di testo interconnessi tra loro e a loro volta interconnessi a suoni e immagini statiche e in movimento. Nascerà probabilmente una nuova fruizione, una nuova “letteratura” e un nuovo autore.
Se queste sono le potenzialità, per certi aspetti affascinanti, bisogna saper individuare i limiti. I testi inseriti in un cd-rom (scritture, immagini, suoni) sono, come è ovvio, frutto di una scelta. Con la circolazione in rete dei materiali, tali testi saranno accessibili con una facilità inimmaginabile fino al decennio scorso. Ma chi controlla, chi gestisce, chi possiede la facoltà di intromissione di un testo invece di un altro? In un ipertesto, poiché basta un click per accedere al materiale, tutto ciò che è escluso è di difficile recuperabilità.
Anche un testo conservato nella biblioteca dietro l’angolo diviene lontanissimo. Dobbiamo quindi, in sede politica, attrezzarci affinché l’educazione ai media sia davvero democratica.
Fondamentale, sempre, è l’acquisizione di un sapere critico che sappia far discernere limiti e potenzialità. La scuola pubblica, luogo centrale per la formazione culturale, dovrebbe insegnare agli studenti che in un ipertesto non è raccolto il mondo, ma una sua parte limitata, da qualcuno trascelta e selezionata. Non accontentarsi quindi dei materiali proposti, ma ricercare, approfondire e contestare. Il rimando continuo ad un testo altro, caratteristico delle forme ipertestuali, tende inoltre all’omologazione e all’appiattimento. Con due click diversi e contigui potremmo aprire finestre in cui da una parte c’è Marx o Sant’Agostino e dall’altra un motivetto dei Take That. La rottura della sequenzialità porta all’attenuazione, se non all’annullamento, della distanza critica e delle gerarchie di valori, necessarie in una cultura realmente democratica. E’ fondamentale quindi discutere degli scenari del futuro, perché essi sono già presente.
NICO ORENGO
Quello che lei Romani propone è come dire un mix, un melange del tutto, in questo nuovo linguaggio, poi però lei si accorge anche che questo melange del tutto può far veramente paura, perché ci vuole la distanza critica; si butta dentro tutto si mescola, si monta. Cose già fatte queste, e le hanno fatte su carta. Prendere poi la distanza critica è l’unico problema vero: non assumere per buono questo possibile mix. Il libro ha fallito come strumento di massa e se il cd lo seguisse? Che cosa deve fare allora il cd? Il servizio? Unicamente? Soprattutto? Quale servizio?
LUCIANO GUARDIGLI
Voglio cercare di far chiarezza su quanto evidentemente non ho detto bene oltre a riprendere stimoli da altri interventi e dire a Lidia De Federicis che a proposito di editoria di servizio un cd-rom sulla sua antologia di qualche anno fa, piena di rimandi e di icone, di approfondimenti e di trasversalità, funzionerebbe bene, meglio della pagina su carta.
LIDIA DE FEDERICIS
Quel nostro libro la rete dei rimandi la raccoglie intorno a degli assi forti, è questo il punto, perché il problema non è fare la rete dei rimandi, il problema è di cosa fai storia, e lettura. L’asse qual è? altrimenti la rete dei rimandi diventa sterminata e casuale e tutto si appiattisce.
LUCIANO GUARDIGLI
Gli assi forti vanno benissimo per il cd-rom. Ma vorrei, a questo punto, introdurre un discorso sull’editoria italiana, su una sua caratteristica che mi pare nessuno consideri con sufficiente attenzione. Ed è che non c’è stata, come altrove, una divisione del mercato. Qui tutti gli editori fanno tutto. A proposito di editoria di servizio, prima gli editori di scolastica erano medio piccoli e specializzati, oggi sono tutti. Perché il testo scolastico è, di fatto, obbligatorio e così il libro diventa business. M a parte l’editoria di servizio, ognuno fa il suo libro di astrologia, la sua collana di cucina, le sue guide di viaggio. Così pubblichiamo quasi altrettanti titoli degli Stati Uniti, avendo un quinto della popolazione che, per di più, non legge. Non è follia? S’è fatto cenno alla rottura del rapporto causa-effetto che caratterizza la scrittura sotto l’incalzare della cultura del telecomando, cultura che negli USA è entrata nella pedagogia e che caratterizza molta letteratura del nostro tempo. Per molta parte delle generazioni nuove o relativamente nuove la schiavitù razionale del rapporto causa-effetto risulta insopportabile. Il libro si fonda su quel rapporto, persino nelle sue forme che la negano, come la grande invenzione narrativa novecentesca del monologo interiore. Il racconto consequenziale che apprendevamo fin dalle favole prende per mano il lettore e lo guida e ha, in questo senso, un qualche indubbio carattere autoritario. Ma non è per questo che viene oggi superato. Il vero obiettivo è la sicurezza che dà, la certezza di aver scoperto un meccanismo razionale che dipana il caos della realtà.
L’insicurezza dei ricevimenti piace alla cultura dello spot e per gli altri rimangono le telenovelas e le soap opera.
La letteratura alta temo diventerà come la musica, e ormai anche l’arte, contemporanea. Sarà anch’essa destinata a élite commercialmente marchiate come nicchie poco significative per il grande mercato, per esempio, delle televisioni. Pochi ascoltano Nono e pochi leggono Proust. E’ diventato il divertimento degli dei, gli altri si sono arresi alla didattica del riciclaggio dei prodotti passati e alle perpetuazioni commerciali dei generi. Che cosa sta avvenendo oggi nell’editoria? Succede che si insegue il best-seller dalla visione semplificata, e perciò autoritaria, della realtà. Succede che si ripropongono all’infinito collane di classici per risparmiare il diritto d’autore. Anche il libro di servizio è sempre più anonimo perché deve piacere a più utenti possibile. “Il materiale e l’immaginario” fu già una scommessa qualche anno fa e vinse, credo, perché duravano i buoni effetti del sessantotto, l’ultimo tentativo di rivoluzione contro un mercato anche culturalmente grigio e opprimente. Da allora sono finiti Einaudi, e Garzanti, Feltrinelli s’è salvato con le librerie. Laterza, Boringhieri, Mulino e Bompiani sono, comunque onorevolmente, ai margini del mercato. Solo Adelphi consola l’idea che la qualità possa premiare ancora, ma certo non è una produzione per tutti e per tutte le tasche. L’editoria oggi dà la caccia al lettore effimero, conquistato da proposte che si reggono sulla pubblicità e sulla notorietà extra-letteraria dell’autore. A parte il riciclaggio elevato a sistema portante dell’editoria si risparmia sugli autori, sui produttori. Non si vuole pagare adeguatamente l’editing, non si correggono più le bozze, non si spende nell’impaginazione. La qualità del libro è, invece, da sempre la capacità di governare tutti questi aspetti. Il lettore effimero non fa controllo sociale sulla qualità del libro come faceva il lettore forte. Nessuna nostalgia, ma i lettori forti stanno diminuendo invece di crescere con i livelli di scolarità e di civiltà, come dovrebbe accadere. La fine del libro curato nei contenuti e nella forma, del libro che risponde alla domanda di cultura e di letteratura qualificata è una mutilazione della civiltà di un paese. Ed è in quest’ambito che quegli stessi editori passano al cd-rom, dopo aver sperimentato il libro gonfiabile, il libro profumato, il libro spettacolo, magari venduto a peso, come il pane. Come hanno detto gli editori presenti oggi le nuove tecnologie della preparazione del testo e della stampa consentono di produrre libri in economia e con tirature mirate. Bene si potrebbe spendere un po’ di più nel controllo dei contenuti e della qualità formale. Queste tecnologie potrebbero consentire un’editoria dei cento fiori, dare sviluppo a intelligenze diffuse nel territorio, dare impulso culturale con una base produttiva alle energie locali. Non per fare editoria localistica, tipo “Rimini di una volta”, ma romanzi, saggistica e anche scolastica. Vorrei anche avanzare una preoccupazione: chi gestirà il passaggio, già in atto, della cultura scritta dal libro alle nuove tecnologie? Con quali fini? Nei libri oggi riposa il patrimonio culturale della civiltà planetaria: quanto di questo patrimonio passerà sui cd-rom e sulle reti e chi sta scegliendo che cosa salvare ella vecchia cultura? Stiamo discutendo se era fedele Einaudi nel pubblicare Gramsci. Che cosa salverà di Gramsci la Microsoft? Perché il problema è anche questo, magari mascherato dal fatto che forse Gramsci non ha un grande mercato oggi nel mondo. Per questo ho il dubbio, che spero infondato, che si parli di nuove tecnologie proprio per chiudere definitivamente con il libro che porta la memoria e la sostanza di filosofie alternative e contrastanti con il sistema in atto. Non parlo di grandi intelligenze nascoste che gestiscono l’operazione, non voglio fare dietrologia apocalittica, ma di opportunità storiche che una classe dirigente non si farà forse sfuggire. Per la sua durata, per le sue caratteristiche strutturali, per le allusioni ad altri libri che inevitabilmente porta il libro si nega da sé, è un mediocre strumento di persuasione. Si farà, probabilmente, come hanno sempre fatto i Gesuiti, lasciando l’uso dei libri ai colti e agli studiosi e dando agli altri solo spettacolo, non certo cultura in cd-rom. Non è un caso che ancor oggi è più facile veder sequestrare un libro piuttosto che una rivista pornografica. Ma il sequestro non è più necessario, col pretesto del mercato non affossano solo il libro, affossano una cultura.
Del resto il cavallo di Troia, nella scuola, delle nuove tecnologie non sarà certo la letteratura ma le materie scientifiche e, comunque, tutte le materie che si fondano sull’osservazione, sul visivo. Per queste materie il libro era poco adatto, qualche volta goffo. Aveva senso studiare su un’illustrazione libresca la struttura della foglia che si può trovare dappertutto? Il libro ha il valore aggiunto della scrittura. E il libro, almeno finché a scuola si leggeranno prosa e poesia, durerà.
NICO ORENGO
Salsano, mi sembra che avevi studiato la possibilità di utilizzare il cd come strumento interno di una casa editrice, anche se io trovo che da quando ci sono questi mezzi straordinari, i computer, che tagliano i costi, i libri sono fatti molto peggio, non hanno più gli indici, sono scorretti, anche perché i grandi editori chiedono, ad esempio, di scrivere un libro in cd e lo mandano direttamente in stampa, lo compongono , saltano addirittura la fase di lettura. Non lo legge più nessuno e di questo ho la testimonianza autorevole di un libro pubblicato, senza che nessuno l’abbia mai letto. Le bozze non si fanno più, i testi sono scorrettissimi, questo è curioso.
ALFREDO SALSANO
In effetti il passaggio per il supporto cartaceo, che ci sia un momento in cui questo testo liquido sullo schermo si ferma è drammatico. Questa è una cosa che riguarda anche i rapporti con gli autori, che tendono a inondare le redazioni di dischetti, che comportano delle varianti per loro magari importantissime ma che sarebbe più economico introdurre in sede di prime o seconde bozze. E’ di esperienza corrente, capita spesso – questa è un’annotazione così di vita quotidiana in una redazione – che si alzi la voce per telefono con un autore: “Non mandare più dischetti, aspetta le prime bozze, perché qui non ci si capisce più”. Questo momento del “ferma tutto” è ritrovare quella funzione specifica del redattore che, soprattutto all’inizio, in fase di ubriacatura informatica, editori ossessionati dal taglio dei costi avevano pensato di poter trascurare. Così sono successi effettivamente fatti aberranti: come arriva il dischetto trattiamo il testo, si diceva. Ma trattare il testo non vuol dire nel gergo leggiamo il testo e quindi stabiliamo anche quel minimo di dialogo con l’autore che resta indispensabile anche quando ci si serve del computer. Le aberrazioni sono dovute alla grande ingenuità di quando furono introdotte queste tecnologie oppure a editori che non fanno bene il proprio lavoro, e fare bene il proprio lavoro passa obbligatoriamente per il momento tradizionale del supporto cartaceo. Dopodiché, se si dispone di una buona tipografia ad alta professionalità, cioè che usi al 100% il mezzo informatico, tutto si svolge a una velocità fantastica, che crea anche una grande libertà, perché il tempo guadagnato lo si concede all’autore, oppure facilita la distribuzione. Si possono fare con questi mezzi operazioni molto complicate, con tutti i crismi: invito chi può aver visto delle opere edite anche da noi di grande complessità, a indovinare i tempi di lavorazione, per esempio di una storia fotografia della Resistenza, tutta su materiale inedito, realizzata in tempi che sarebbero stati semplicemente impossibili in precedenza, con l’abbattimento dei costi, insisto perché l’osservazione è stata fatta, senza riduzione della qualità. Perché tutte le operazioni che si mettevano tradizionalmente in gioco vengono effettuate ancora oggi: lettura redazionale, lettura di controllo, riporto degli interventi dell’autore, facilitati dal fatto che quando si va a stringere in tipografia in una serata si cambia un terzo delle ciano. E che la stampa o la ristampa procede alla stessa velocità, sempre senza perdita di qualità. Questo è un fatto di esperienza, che valeva la pena di tenere presente.
Venendo a quello che volevo dire in questo ultimo giro, quello che ha detto Romani mi ha chiarito meglio gli obiettivi e il senso di questo convegno. La mia certezza, ed è stato detto da personaggi attivamente impegnati in questa operazione, è che ci troviamo di fronte alla creazione di un mercato, con tutta la mitologia che l’accompagna, la segue, la precede. Si vantano ovviamente i vantaggi, quali ovviamente possiamo riconoscerli, di cui abbiamo esperienze positive; si prospettano possibilità, come quelle affascinanti legate alla possibilità di creare ipertesti come forma specifica di mescolanza di testi, immagini, suoni, movimento eccetera. Ecco, secondo me va benissimo per una forza politica non trovarsi impreparati, quando si tratta anche di intervenire in sede legislativa di fronte a queste novità che, non dimentichiamolo, sono imposte da colossali concentrazioni finanziarie mondiali ormai. Io starei attento però a una possibile sopravvalutazione che ripeterebbe anche nel nostro campo questa operazione di creazione del mercato. Allora bisogna sapere come stanno le cose, bisogna sapere che come in altri casi si tratta di colossali investimenti che non si sa se poi riusciranno a spostare la realtà… Coglierei quindi l’occasione di questa preoccupazione per il digitale – poi dirò qualcosa sulle dimensioni e sulla vera portata presumibile di questa congiuntura – per porre il problema dell’editoria piccola e media di cultura non solo dal punto di vista dell’uso possibile delle tecniche cui ho accennato sia nella fase della produzione, sia nella fase della distribuzione, ma nei suoi contenuti.
Siamo passati nella serata da un accento prevalente su testo e ipertesto a considerazioni in cui è riemersa la parola libro. D’altra parte la cultura è una cultura politica adeguata anche ai tempi dell’ipertesto, non mi interessa che sia di élite o di massa, e passa oggi necessariamente per dei libri, per delle riviste, per delle conversazioni, per dei seminari, delle reti di rapporti interpersonali e interassociativi. E questo è un campo che non può essere sottovalutato e lasciato vuoto alla spontaneità per inseguire delle novità, le novità sono dell’ordine delle autostrade elettroniche evocate. Ricordiamo che le autostrade elettroniche sono uno dei due assi principali del piano Delors. L’unico problema è che non si sa che cosa mettere in queste autostrade elettroniche: è una visione puramente ideologica developpistica, finalizzata esplicitamente alla colonizzazione dei mercati dell’Est che ha previsto appunto la costruzione di questa infrastruttura (l’altro asse era il potenziamento della rete di trasporti e lì vanno più in fretta perché danno migliaia di miliardi per scavare tunnel e praticare l’Alta Velocità). C’è un’idea, una visione molto ideologica che poi costituisce l’infrastruttura di una espansione del mercato, ripeto, che però ha un vuoto culturale dentro. Per far un esempio su scala nazionale, quando in Francia fu introdotto il minitel, France-Telecom lo regalava, e il minitel all’inizio veniva utilizzato come sostituto dell’elenco telefonico, poi man mano sono state aggiunte altre funzioni, cioè il mercato è stato costruito investendo milioni per distribuire l’oggetto, come se dessi dei terminali in attesa dei cd-rom che verranno o come si pensa di fare con le autostrade, però in vista della stessa funzione. A questo proposito un autore francese un po’ malfamato perché molto critico, Jacques Ellul (è morto l’anno scorso), critico del bluff tecnologico parlava di come si sopprimono gli elenchi del telefono: alla fine della storia del minitel non ci sarà più l’elenco telefonico e invece l’elenco telefonico a nostro conforto resiste ancora, non si è costretti a digitare, si può cercare anche un numero telefonico attraverso un libro. Quindi la tecnica, l’innovazione non è invincibile, e soprattutto non arriva a sostituire tutte le funzioni, come è stato detto più volte stasera.
Precisato questo, invito Rifondazione comunista ad affrontare nello specifico i problemi dell’editoria di cultura, dopo il cambiamento che non è solo tecnologico, e qui ho gli stessi sentimenti di Femore: è un cambiamento avvenuto un paio di decenni fa, di ordine finanziario soprattutto. Condivido anche, da una parte, la sua sicurezza sul destino del libro, dei libri come li abbiamo identificati, sia il libro di intrattenimento di massa, i best-sellers, i libri di cultura insostituibili, non surrogabili; dall’altra l’insoddisfazione per l’editoria così com’è, editoria che non potrà neanche riconvertirsi nel famoso cd-rom. La tempesta ha portato alla scomparsa degli editori, e questo è il problema: vuol dire scomparsa di soggetti di cultura, di interlocutori anche con altri soggetti. E quando dico cultura dico anche politica, dico cittadinanza; questi editori o sono scomparsi o sono latitanti. La modesta esperienza recente della Bollati Boringhieri che ho ricordato voleva segnalare brevemente che ci si può organizzare nel senso di un ritorno degli editori. Ecco noi siamo un editore collettivo e interloquiamo con soggetti di associazioni, di riviste, di altri editori, perché no. A questo proposito nella provincia italiana esistono editori che non hanno almeno per ora visibilità nazionale: ho ben presente l’esperienza di un editore amico, La Meridiana di Molfetta, che ha tirature anche superiori alle nostre solo che i destinatari sono quelli della rivista “Il mosaico di pace”, rivista a sua volta priva di visibilità. Ma perché non la hanno? Perché non c’è nessun investimento politico da parte delle forze politiche nazionali; gli investimenti politici vanno in altre direzioni. Ecco questa è una prima cosa che volevo dire: questa tempesta è una tempesta finanziaria, ma è anche una catastrofe politico-culturale che ha stravolto l’editoria italiana. Ora, c’è la possibilità di far fronte a questa situazione: le tecnologie le possiamo usare anche noi al servizio di una nuova cultura politica. La battuta sul toyotismo non era solo una battuta: non c’è bisogno di avere gerarchie decisionali in gran parte spesso fatte da competenti di controllo di gestione ma incompetenti dal punto di vista della cultura e delle scelte politico-culturali in genere. Questo è un tema che una forza politica secondo me dovrebbe approfondire, perché altrimenti rischia di correre dietro come spesso è accaduto nella sinistra italiana in maniera subalterna a innovazioni tecnologiche più o meno gonfiate e di perdere questo modesto trenino fatto di gente che fa il lavoro.
Un’ultima cosa. Siccome si è parlato di servizi, vorrei dirlo nel modo più concreto. Tutti ci siamo detti che il cd-rom, le nuove tecnologie hanno il loro luogo specifico di applicazione nel trattamento dell’informazione. Ne è venuto fuori anche un altro. Qualcuno, non mi ricordo chi, ha segnalato: guardate che i ragazzi già chiamano con i loro computer e si fanno delle stampate di pagine di libri. Ovviamente questi sono due usi in corso possibili. Volevo dire qualcosa sul primo. Quando si parla di enciclopedia utilizzabile sullo schermo, quindi un enciclopedia informativa che può essere anche ridotta – e io non mi scandalizzo perché la domanda dell’utente può essere limitata – ci muoviamo sempre nel campo della lessicografia. A me è capitato di lavorare all’enciclopedia Einaudi, anzi di scrivere proprio l’articolo Enciclopedia. Nella storia dell’enciclopedia c’è la Encyclopédie di Diderot e D’Alambert, che aveva un grande concetto della rete, dell’albero delle conoscenze dell’interconnessione; però è impossibile mettere l’Encyclopédie in cd-rom. Se ne possono mettere degli estratti, oppure se ne possono mettere gli indici, oppure si può mettere la rete di rinvii che mi è capitato di fare manualmente su schede con grande fatica. Esiste invece l’enciclopedia positivistica, il famoso Larousse che è perfettamente compatibile con il cd-rom e il trattamento dell’informazione. Ma allora bisogna decidere se vogliamo un’enciclopedia pensata secondo il criterio positivistico che a una parola corrisponde una cosa e allora il cd-rom è la sua sede giusta; oppure se invece pensiamo a una enciclopedia di concatenazioni come è stata l’enciclopedia di Diderot e tutte quelle che l’hanno seguita compresa la Britannica, compresa la Garzanti e la nostra Einaudi con tutti i suoi difetti. Una delle cose più ridicole successe all’Einaudi fu la messa su computer delle voci dell’enciclopedia perché la nostra enciclopedia era chiaramente incompleta e dall’elaborazione dell’elenco messo su computer si ritrovava esattamente quello che sapevamo che c’era: il 15° volume è perfettamente tautologico. Più in generale dobbiamo sapere che l’unica cosa che può passare su queste nuove tecnologie è un sistema di trattamento dell’informazione per cui a domanda rispondo: è una maniera univoca possibilmente, perché se vado a fare il ragionamento dialettico oppure se comincio a dire da una parte o dall’altra, non passa più, salta la macchina.
La seconda cosa riguarda le stampate di pagine di libri. Questo è un uso molto interessante perché francamente avere la possibilità di accedere a qualsiasi libro conservato nella Library of Congress e farmi la stampata del pezzo che mi serve dico è molto superiore al farsi rapidamente le fotocopie alla Biblioteca Nazionale di Parigi. Devo dire però che questa è un’operazione per lettori avvertiti, cioè quando si conosce il libro allora si guadagna molto tempo ad avere questo accesso perché si sa dove mettere le mani. Ma allora è un uso che presuppone il libro, la conoscenza del libro. Da qui non si scappa: è una facilità in più che costa, comunque, se qualcuno vuole mettere sul mercato questo, perché no: avremo la nostra biblioteca più il computer che ci darà l’accesso alle maggiori biblioteche del mondo. Non mi sembra problematico, non ho niente contro; ovviamente resta come dire inevasa la necessità di garantire la vita dell’editoria di cultura e di darle una base.
ALBERTO SCARPONI
C’è una questione sulla quale mi pare necessario dire qualcosa, la questione che è stata definita indebolimento dell’autore. Questo indebolimento nasce da ragioni tutt’altro che tecnologiche. In realtà le nuove possibilità tecniche vengono usate per proporre un principio politico nuovo in Europa, nell’Europa continentale, e invece vigente da sempre in America. Dove il diritto d’autore non esiste, esiste soltanto il copyright, il diritto di copia, in possesso di chi abbia titolo ad autorizzare la copia, la riproduzione, dell’opera dell’ingegno di cui si tratta. L’esempio forse più clamoroso di tale concezione è quanto accade nel cinema: i film americani vengono formalmente presentati come fossero opera, non dei registi e tantomeno degli altri autori cinematografici per dir così parziali, ma del produttore. Ed è attraverso il fenomeno trainante del cinema americano che si sta imponendo da noi, nella zona dove vige il diritto romano, questo principio del diritto anglosassone. L’indebolimento della posizione dell’autore viene di qui, da questa cultura, da questa ondata culturale.
Io trovo, d’altronde, che derivi di qui, da questa stessa ondata culturale, il movimento no-copyright, vale a dire il movimento di quei giovani autori che intenderebbero diffondere l’uso dei testi non gravato da onorari all’autore. Qui si ha un’assunzione festosa di tale principio americano: l’autore non esiste e questa non esistenza viene festeggiata proclamando che “il testo è libero”. Il testo sarebbe finalmente re. E però non è affatto vero, Perché? Perché in tal modo è solo l’editore che si trova libero, libero di prendersi il testo gratuitamente e senza obblighi di sorta, di confezionarlo in un pacchetto microelettronico o a stampa e infine di vendere il tutto dicendosi proprietario del pacchetto (della presentazione del testo: basterà ricordare come in una recente legge sulla reprografia, cioè sulla fotocopiatura dei testi, il problema della scomoda presenza dell’autore è stato “elegantemente” aggirato sostenendo che occorre tutelare non l’opera ma appunto la presentazione dell’opera, la sua confezione; così si intende che viene fotocopiato non il testo dei Promessi Sposi, ma l’oggetto entro cui un editore lo ha confezionato). I segnali di ciò che sta arrivando sono molti.
Allora, il movimento della negazione dell’autore e del suo diritto è apparentemente ultramoderno, anzi – nel suo spazzare via ogni valore assoluto – sembra possedere una intenzione propriamente postmoderna, ma nella realtà sta tutto dentro una dinamica di ricentralizzazione della cultura, di tutta l’attività culturale, sull’impresa e non più (o non ancora) sulla creatività dell’individuo.
L’imprenditore diviene l’asse su cui poggia per intero la produzione culturale. Quando l’autore allegramente si suicida nel no-copyright, l’imprenditore di prodotti culturali diviene padrone assoluto del terreno. E si comporta allo stesso modo del costruttore di automobili, il quale ovviamente si rifiuta di regalare il proprio prodotto a prezzo zero. Abbiamo quindi un passaggio dal terreno della creatività, della invenzione, al terreno della semplice produzione di un bene.
Quanto poi all’incidenza di tutto ciò sul testo, io credo che si debba distinguere. Da un lato si apre la possibilità per l’inventiva dell’autore di creare cose nuove usando queste nuove tecniche; è possibile dunque un uso creativo delle nuove tecnologie; io infatti conosco qualcuno che sta tentando di scrivere tenendo conto delle opportunità nuove offerte dal computer. Ma è un po’ come per la piccola editoria che tenta di rendersi più libera profittando del computer e questo con le implicazioni che sono già state segnalate.
Dall’altro lato sta invece il tipo di incidenze sul testo che ci porta direttamente alla politica. Voglio dire: è vero che è nata la possibilità di intervenire interattivamente sul testo, ma alla fine si tratta di un gioco. Il testo vero invece è quello che a un certo punto è fisso, non è modificabile, è il testo che ci viene fornito dall’atto creativo di un autore (il quale può aver tenuto conto dei nuovi strumenti tecnologici oppure può liberamente aver usato la vecchia maniera di scrivere). Il nuovo linguaggio del computer, se si vuole il suo gergo, presenta certamente nuove possibilità di codificazione, ma non si tratta di altro che di gioco, niente di più. Tecniche ludiche che possono essere molto utili nei processi di apprendimento, ma nient’altro. O poco più: per esempio, sono tecniche d’archivio (che non toccano la creatività in quanto tale).
Bisogna fare molta attenzione a non preoccuparsi troppo di queste cose. Ricordo che anni fa un filosofo tedesco, mio amico, si preoccupava molto per quello che lui riteneva un pericolo imminente: la fine del pensiero dialettico. E perché? Perché – sosteneva – la diffusione del divorzio stava togliendo a un numero crescente di bambini la percezione psichica della compresenza perenne di due poli, maschio e femmina, nero e bianco, positivo e negativo. La mancata esperienza di due genitori contemporanei avrebbe provocato la fine del pensiero dialettico per ragioni psichiche. Io sentivo in questo modo di ragionare un che di piattamente positivistico, se non di volgarmaterialistico. E mi sembra di intravedere un positivismo un po’ piatto anche nelle preoccupazioni attuali circa il computer e la microelettronica.
Al contrario, mi pare di vedere grandi possibilità nelle nuove tecnologie, se le si guarda come strumenti per produrre testi e libri. Insomma alla fine il prodotto è sempre il libro. Allora il problema vero – dicevo prima – è direttamente politico. Cioè: il problema non sta nel modo in cui noi leggiamo un testo che diventa libro, ma nel modo in cui questo libro si costruisce, si conserva ed è liberamente accessibile. Questo è un punto squisitamente politico.
Uno degli aspetti su cui non ci siamo fermati troppo (qualcuno l’ha citato) è l’esistenza delle banche dati. Intanto ritengo si possa dire che il cd-rom ha le ore contate, presto andremo tutti sulle grandi reti a rifornirci di informazioni presso le banche dati. Ora, pare che attualmente siano in formazione, non in Italia, grandi archivi di opere letterarie dove trovano posto, per quanto ci riguarda, non solo I Promessi Sposi ma anche gli ultimi romanzi pubblicati. Lo si fa senza grandi proclami, lo si fa e basta. Ma perché questo tacito lavoro di immagazzinamento? Perché presto o tardi tutti noi (in mancanza di meglio) saremo costretti a rivolgerci a queste banche dati, che finiranno così per sostituire l’editoria normale. Lascio qui il discorso, che potrebbe continuare a lungo sui pericoli di questa concentrazione:
Ma un breve cenno finale alla piccola editoria mi pare necessario. Nel segnalare il grosso nodo della gestione di tutto questo materiale informativo e del costituirsi di soggetti giuridici forti che potrebbero orientare deterministicamente le dinamiche dell’attività culturale ovunque, intendo riallacciarmi a uno degli ultimi concetti esposti da Salsano: quello secondo cui occorrono politiche culturali avvertite ed esplicite. E una di queste politiche deve essere senz’altro il forte sostegno alla piccola editoria, l’elaborazione di strumenti politico-strutturali a vantaggio e promozione delle piccole case editrici. Si possono portare molti argomenti a tale proposito. Ma termino limitandomi a fare questa perorazione.
NICO ORENGO
Credo che sulle parole di Alberto Scarponi si possa chiudere questa Tavola Rotonda, che è stata – a mio avviso – estremamente utile e proficua.
Ringrazio tutti i partecipanti per la ricchezza degli interventi e la pluralità degli argomenti, con l’augurio che presto si possa tornare a parlare di Editoria anche con altri interlocutori.
SERGIO BELLUCCI
Io vorrei ringraziare i partecipanti a questa giornata di lavoro e spendere soltanto un minuto per perorare ancora la causa di definizione di “tempesta”. Mi sembra che dalla discussione di questa mattina, ma anche da quella di oggi pomeriggio gli stravolgimenti che hanno attraversato il mondo editoriale negli ultimi dieci anni siano talmente evidenti da giustificare il concetto di “tempesta”. L’abbiamo definita digitale perché oltre alla rivoluzione degli assetti finanziari che hanno coinvolto questo settore e che riempiono le pagine dei giornali quotidianamente, c’è, sotto, il cuore della grande trasformazione che il mondo editoriale sta vivendo che è, appunto, questa potenzialità tecnologica che in qualche modo ha penetrato non solo gli aspetti tecnico-produttivi, come è stato raccontato abbondantemente dall’esperienza delle case editrici presenti, ma come abbiamo tentato di vedere oggi pomeriggio anche dentro i prodotti. Ora io non so quanto cambierà il prodotto libro, sotto la spinta dell’ipertestualità, so che la modalità di costruire, ad esempio il romanzo, è mutata con l’avvento del linguaggio cinematografico. Non so quanto muterà la costruzione di un romanzo scritto su carta intorno al 2050 o 2100. Nella storia umana, probabilmente, l’immissione degli ipertesti della gestione di immagini, suoni eccetera, come può avvenire oggi attraverso la digitalizzazione, modificherà tantissimo; forse il testo scritto su carta rimarrà, come rimarranno altre forme di produzione culturale. Quello che interessava capire e io ringrazio tutti i partecipanti perché mi sembra che abbiano dato un contributo importante, è come ci poniamo di fronte a questo cambiamento. Vengo da Bruxelles dove abbiamo avuto una riunione dei partiti europei su questi temi e devo dire che in tutta Europa c’è, a questo stadio della storia dell’uomo, un’attenzione e una “paura”, per usare una parola di Nico Orengo, una “paura” di fronte a quello che potrebbe avvenire se non immettiamo qualche indirizzo democratico in questo tipo di sviluppo. Il nostro tentativo quindi, non è sicuramente quello di sposare un nuovo determinismo tecnologico (che non ci appartiene), né quello di essere subalterni a questo cambiamento (che anch’esso non ci appartiene neanche sulle sue sfere politiche più generali). Perché, quindi, dovremmo essere, proprio in questo settore, subalterni alla tecnologia e agli assetti finanziari del potere? Per carità, vogliamo soltanto tentare di indagare, dare un contributo, cercare di tirare le redini di un processo che se oggi viene in qualche modo indirizzato può ancora avere dei margini di recinzione, di salvaguardia di modalità che attraverso le forme varie di espressione culturale, l’uomo ha fino a oggi prodotto. Altrimenti dovremo accettare, definitivamente, che la Microsoft, o chi per lei, in qualche modo a livello mondiale, decideranno cosa vedremo, cosa leggeremo, cosa gusteremo e probabilmente, fra qualche decennio, anche come parleremo, perché questo è ormai all’ordine del giorno. Detto questo, ringrazio Nico Orengo e tutti i partecipanti questa tavola rotonda e anche chi ha partecipato soltanto come uditore al nostro dibattito pomeridiano e alla riunione di questa mattina. Un sincero ringraziamento agli amici e ai compagni che ci hanno aiutato: la Federazione torinese e, in modo particolare, Susanna Maruffi che ha contribuito molto allo svolgimento di questa nostra giornata, augurandole successo per la libreria che ha appena aperto, la libreria Village, che spero sia uno dei punti dai quali ripartire: vogliamo più librerie, più case editrici e, anche per questo, stiamo tentando di stare in campo. Grazie a tutti.
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