I lavoratori della Silicon Valley vincono la lotta contro i giganti della rete.
Ma il loro conflitto prende strade inattese
64.000 lavoratori della Silicon Valley hanno attivato una class action contro Apple, Google, Intel e Adobe e hanno vinto. I grandi colossi sono stati costretti a patteggiare perché accusati di aver creato un sistema di “dumping sociale” per tenere bassi i salari dei lavoratori dentro le loro aziende e sul mercato, in modo di contenere la spinta salariale e aumentare i profitti. Il legale dei lavoratori, Kelly M. Dermody, ha affermato che la sentenza “è una eccellente soluzione del caso che porterà benefici ai membri della class action“.
Il fatto buffo è la totale inversione della prospettiva rispetto alla storia dei conflitti sociali come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi: i lavoratori hanno vinto in base al mancato rispetto di norme dell’antitrust che impediscono la formazione di un cartello tra imprese.
In altre parole, si sono paragonati o ad una impresa (che ha avuto un danno dal mancato rispetto delle regole della concorrenza) o come consumatori che vedono aumentato il prezzo dei prodotti per gli accordi tra aziende produttrici.
I termini dell’accordo non sono ancora stati resi pubblici, ma l’intera vicenda potrebbe aprire un capitolo nuovo nelle forme di conflitto tra lavoro e impresa o, per meglio stare nello schema adottato dai 64.000 lavoratori informatici, tra “soggetti della produzione” differenti, ma uguali.
La domanda spontanea che sorge è perché tale esigenza non sia sfociata in un tradizionale conflitto attraverso l’organizzazione di rappresentanze sindacali e non si sia incanalata dentro lo schema tradizionale.
Anche i soggetti sottoposti al più avanzato schema di taylorismo digitale cercano forme di rappresentanza e di lotta e le strade che intraprendono sembrano le più diverse.
Lascia un commento