Terraformattazione capitalistica ovvero la sussunzione del reale – Capitalist Terraforming or the subsumption of the real

Pubblicato sul numero 17 della rivista Riflessioni Sistemiche

Ipotetica manifestazione degli abitanti di Marte all'ennesimo arrivo di una sonda terrestre atta a comprendere la nostra capacità di abitare il pianeta rosso.
Contestazione mar(x)iana alla terraformattazione di Marte

di Sergio Bellucci                                                                                                                             Giornalista e saggista

Sommario

I processi di trasformazione investono oggi tutta la forma della realtà. Il capitalismo sta tendando di sovrapporre alla realtà una sorta di “doppio digitale”. Attraverso questo processo di matematizzazione della realtà si espande una forma di controllo che costruisce un ibrido di nuova specie. Questo processo di terraformattazione capitalistica tende a sottomettere la realtà alla propria logica di funzionamento e a rendere residuo tutto ciò che non riesce ad inglobare.

Parole Chiave: Terraformattazione Capitalistica, Sussunzione del Reale, Intelligenza Artificiale, Robotica, Lavoro Implicito, Transumanesimo, Singolarità

 

Summar

Transformation processes today invest all the form of reality. Capitalism is tending to overlap reality with a sort of “digital double”. Through this mathematization process of reality, a form of control that builds a new species is expanded. This process of capitalist terraforming tends to subjugate reality to its own logic of functioning and to make the remnant of anything that is unable to engulf.

Keywords: Capitalist Terraforming, subsumption of the real, AI, Robotics, Improper work, transhumanism, Singularity

Da più parti avanzano letture, spesso anche profondamente diverse, sulla fase di transizione che stanno attraversando l’umanità, i viventi e l’intero pianeta. Letture, che spesso divergono per il punto di vista di partenza e per la specificità di interesse d’analisi, convergono, quasi sempre, sugli esiti delle dinamiche prese in considerazione. Gli esiti di queste analisi, infatti, ci consegnano la certezza di una prossima discontinuità storica della vita sociale umana o della stessa storia evolutiva del pianeta. Da quasi tutte le parti si parla di un salto paradigmatico. Quasi mai tale discontinuità viene affrontata in termini sistemici e affrontata nell’intreccio complesso che i fattori di crisi o di totale trasformazione, potrebbero produrre.

Elementi come la crisi economica aperta con la crisi dei subprime del 2008, la Digital Disruption, i progressi nel campo delle nanotecnologie, le frontiere della bioingegneria, della Genetica, dell’intelligenza artificiale, della robotica, infatti, rappresentano fattori di devastante trasformazione delle condizioni dell’agire umano, del suo sistema di vita e delle sue stesse finalità, ma sono sempre affrontati come singoli elementi di trasformazione del quadro esistente. Difficilmente ci si trova di fronte ad analisi che intrecciano i fattori esponenziali evidenziati dalla capacità moltiplicatoria di tale intreccio. A tali elementi, inoltre, si intrecciano i fattori, ormai globali, rappresentati dagli effetti dei processi di industrializzazione generalizzata delle attività umane sulla superficie terrestre. Le attività umane prodotte negli ultimi due secoli, infatti, hanno prodotto una profonda alterazione dei cicli vitali, degli ambienti e delle risorse, rinnovabili e non, a disposizione dei cicli vitali, che vanno ad intrecciarsi, nella costruzione di un quadro complesso, con le potenzialità nuove introdotte dalle tecno-scienze.

Questa confluenza, questa convergenza dinamica – in cui i fattori e gli andamenti trovano, nelle nuove interrelazioni, elementi moltiplicativi che ne rafforzano effetti e conseguenze – producono nuovi e inaspettati aspetti in una spirale che assume caratteristiche sempre più esponenziali. Esistono filoni d’analisi e di proposta che affrontano tale prospettiva parlando addirittura del superamento di quella che è stata la centralità umana sulla vita del pianeta negli ultimi millenni. Chi mette l’accento sulla trasformazione (e superamento) della stessa forma umana così come la storia evolutiva ce l’aveva consegnata, definisce tale processo come Transumanesimo (More, 2013); altri, partendo dall’elemento tecnologico e della potenzialità prossime dei calcoli dei computer quantistici, parlano del raggiungimento di un punto di snodo, che definiscono come una Singolarità, (Vinge, 1993) una vera e propria biforcazione della storia evolutiva dell’intelligenza sul pianeta. Questo transito viene descritto come un vero e proprio passaggio di testimone dello sviluppo dell’intelligenza, con il passaggio da intelligenze basate sul carbonio a quelle basate sul silicio (o suo equivalente come nel caso dei computer quantistici). Esistono addirittura proposte di formazione universitaria che già si propongono come Università della Singolarità.

L’ipotesi di lavoro di tale scritto è che esista una tendenza ideologica, ormai egemone nel corpo della società umana, in base alla quale tutte le attività del reale possano essere industrializzate, che lo stesso ambiente possa essere controllato come se fosse una grande industria in cui i fattori possano essere pre-ordinati e governati come una immensa linea produttiva e che tutto questo sia possibile attraverso i processi di quella che potremmo chiamare la “matematizzazione del reale”, attraverso il controllo digitale dei fattori esistenti. Tale processo, che io definisco di “Terraformattazione Capitalistica” tende a inglobare tutti i fattori produttivi classici, quelli legati ai nuovi cicli economici dell’immateriale fino ad estendersi sul restante non umano che ancora sopravvive sulla superficie del pianeta. Tutto quello che rimane fuori dalle possibilità di estensione del controllo di tale processo di matematizzazione viene “percepito”, “pensato” e “vissuto”, sia sul piano economico-politico, sia come fattore socio-culturale, sempre più come residuo. Il processo di digitalizzazione, in pochi decenni è andato ad estendersi dalla rete e dalla sua “virtualità” originaria, caratteristica del web 1.0, verso la creazione della partecipazione sociale con il modello del web 2.0 quello della comunicazione del prosumer, per puntare ora, attraverso un processo di vera e propria “terraformattazione” del mondo, ad estendersi all’ambiente fisico, attraverso il web 3.0 o Internet of Things (IOT). Un processo rapidissimo, se visto con occhi storici, un vero e proprio battito d’ali, che quando esclude un’area o un settore lo condanna ad una rapida obsolescenza per riduzione del tasso di complessità circostante necessario alla propria sopravvivenza. E tutto ciò che mette sotto il suo controllo rimane in vita attraverso un sistema di ciclo vitale programmato dall’esterno che risulta fragilissimo.

Le vecchie aree delle foreste, ove si sviluppava una parte non irrilevante della dinamica evolutiva della vita del pianeta, gli stessi oceani, che in larga misura contribuivano al mantenimento del ciclo dinamico della vita, sono ormai ridotti a poco più che recinti, aree più o meno sotto uno pseudo-controllo umano o tendono ad essere pensate e gestite come tali. Forse tali esiti risultano senza una vera e propria decisione dall’alto, centralizzata, ma l’omogeneità ideologica di comportamenti di vita e di consumo, sempre più omologati nelle logiche della produzione e del consumo, stanno producendo il tentativo di una uniformazione della vita dell’intero pianeta a mera industria produttiva del “necessario al modello di vita umana sotto il dominio del mercato capitalistico”. Le conseguenze di tale omologazione, che non produce solo danni dal punto di vista sociale, delle conoscenze disponibili e ricercate, del consumo delle materie prime a disposizione, ecc.. sta producendo effetti sempre più rapidi di crisi verticale. Il nostro fare “inconsapevolmente controllato” e “senza responsabilità” apparenti dei singoli, ci ha condotti sull’orlo di una vera e propria catastrofe di cui gli elementi sono ormai già chiaramente percepibili. Possiamo analizzarne, per brevità, alcuni dei fattori strutturali.

 

L’aumento della concentrazione della Anidride Carbonica

Uno dei fattori, molto “gridato” ma quasi sempre ignorato nella suo complesso impatto sulla dinamica dell’equilibrio della vita sulla Terra, è l’aumento dell’anidride carbonica nella percentuale dei gas atmosferici. Da settembre 2016 la CO2 ha superato 400 ppm in modo permanente e nel mese di Aprile del 2017 ha registrato 412 ppm. Un incremento, misurato nel più antico laboratorio di analisi esistente al mondo, quello di Manua Loa delle isole Hawaii e che rivela un aumento più rapido di quello che i modelli matematici a disposizione avevano prospettato.

Spesso, a ricordarci tale squilibrio, intervengono le notizie di discussioni internazionali su accordi come quello di Parigi o di Bonn o i commenti a latere di eventi climatici estremi o di veri e propri disastri ambientali. Mai una notizia legata a tale fattore quando si fa accenno, ad esempio, alla crescita del PIL, alla apertura di una nuova fabbrica, all’aumento delle vendite di automobili, all’incremento dell’energia legata al funzionamento dei server di Internet, dei PC o degli Smartphone connessi, mai una connessione reale che colleghi il nostro livello di consumo individuale all’incremento di tale concentrazione e alle conseguenze che esso produce. A questo fattore, infatti, corrispondono elementi come l’innalzamento della temperatura, l’aumento del livello degli oceani, la riduzione dei ghiacciai nelle montagne e nei poli terrestri, i processi di desertificazione, la riduzione della disponibilità di acqua dolce, la riduzione dei raccolti agricoli, i cambiamenti delle aree climatiche con le modificazioni degli habitat per animali, piante, virus, ecc.. solo per soffermarsi ai più diretti.

Connessa a questo fattore, inoltre, risulta l’operazione di trasformazione della superficie delle terre emerse attraverso l’estensione delle aree occupate da attività umane. L’equilibrio dinamico raggiunto in milioni di anni e che aveva garantito il fiorire di una grande biodiversità animale e vegetale con ritmi di evoluzione che seguivano tempi “analogici”, aveva visto, già dal fiorire della civiltà agricola, una “deviazione” non piccola ma comunque “compatibile”. Il mantenimento dell’intervento su una scala micro, infatti, garantiva il mantenimento di una biodiversità necessaria al mantenimento di un ciclo ancora compatibile. Il processo di “specializzazione” di aree produttive grandi come intere aree geografiche, uno degli obiettivi dei processi di globalizzazione, il fattore di distruzione della complessità necessaria a produrre e mantenere la biodiversità necessaria all’autosostentamento della vita, nasconde il cuore di un vero e proprio elemento ideologico: il mondo inteso come industria, una sorta di taylorizzazione della vita e dei suoi processi che conteneva, in nuce, proprio il seme del processo catastrofico venturo.

Uno degli “effetti collaterali” di tale scelta, infatti, è rappresentato dalla riduzione drammatica degli esseri viventi non umani sul pianeta – derivante dall’enorme trasformazione delle terre emerse in strutture produttive agricole industrializzate e caratterizzate da mono-culture che distruggono biodiversità e habitat necessari alla vita animale e vegetale – e che tocca percentuali ormai allarmanti e che fanno annunciare, negli studi condotti da alcune rilevanti università del pianeta, l’inizio della VI estinzione di massa della vita sul pianeta. Le ricerche, ormai, si accavallano quasi di giorno in giorno. Quello delle università di Stanford, Princeton e Berkeley, pubblicato su Science Advances, prende in esame il tasso di scomparsa delle specie di vertebrati viventi. Secondo il drammatico studio, infatti, dal 1900 ad oggi sono oltre 400 le specie scomparse e il ritmo della scomparsa sta drammaticamente accelerando. Nel loro studio i tre atenei americani hanno verificato che i vertebrati stanno scomparendo ad un ritmo che è 114 volte quello normale (Barnosky, Ceballos, Ehrlich, García, Palmer, Pringle, 2015).

tendenza della scomparsa di verebrati nel pianeta dal 1500 ad oggi
Figura 1 – La tendenza all’aumento della scomparsa di vertebrati nel pianeta dal 1500 ad oggi secondo lo studio delle università si Stanford ,Berkleey e Princeton


Uno studio analogo del MIT condotto da Daniel Rothman, co-direttore del Centro Lorenz, pubblicato sempre da Science Advances, afferma che <<Nell’era moderna, le emissioni di anidride carbonica sono aumentate costantemente dal XIX secolo, ma decifrare se questo recente picco di carbonio potrebbe portare ad estinzione di massa è stato impegnativo, soprattutto perché è difficile mettere in relazione le antiche anomalie del carbonio, che si sono verificate lungo migliaia di milioni di anni, con quelle sconvolgenti di oggi, che hanno avuto luogo in poco più di un secolo» (Rothman, 2017, pag.3). Lo studio afferma che “soglie della catastrofe” nel ciclo del carbonio porterebbero ad un ambiente instabile e, in ultima analisi, all’estinzione di massa nel momento del suo superamento. La correlazione tra aumento della concentrazione dell’anidride carbonica nell’aria e l’aumento della temperatura è poi direttamente proporzionale.

andamento della concentrazione di anidride carbonica nell'atmosfera e aumento della temperatura media globale
Figura 2 – Andamento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera e aumento della temperatura media globale


Il 2016 è considerato l’anno del grande passaggio: Il raggiungimento stabile e definitivo (almeno per un periodo storicamente significativo) delle 400 ppm. Gli esperti sottolineano come questo “punto di non ritorno” raggiunto rappresenti, di fatto, l’ingresso in una nuova era del clima e, quindi, della vita sul pianeta. Un elemento di accelerazione di processi che già prima della “rottura” hanno avuto effetti dirompenti.

Accanto alle “crisi” derivanti dagli effetti del nostro agire in termini di terraformattazione capitalistica del pianeta potremmo sommare altri elementi di crisi che puntano verso la biforcazione. Proviamo, cioè, a evidenziare le qualità della crisi sistemica, l’impossibilità ad affrontare, all’interno degli schemi tradizionali delle politiche novecentesche, le ipotesi di trasformazione che il capitale inizia a praticare con un vero e proprio salto di qualità che punta a trasformare l’intero pianeta.

Di fronte ad una crisi strutturale che si evidenzia sempre più chiaramente, infatti, invece di emergere un processo di messa a critica della logica che ha condotto l’umanità e il pianeta sull’orlo della catastrofe, si accelera sul terreno della terraformattazione come ipotesi di “messa sotto controllo” dei processi dei cicli vitali, attraverso la scelta di un riduzionismo drammaticamente incosciente dei feedback che il sistema, messo in condizioni limite o semplicemente non conosciute, potrà produrre. Si candida l’umanità all’intervento sui codici genetici degli esseri viventi, con la creazione di specie “aliene” da introdurre per il fabbisogno di volta in volta medico, o alimentare, talvolta di mero utilizzo industriale o di intervento in catastrofi ambientali ove il “fare umano” risulta incapace a mettere sotto controllo processi sfuggiti alla ingegnerizzazione della realtà.

L’accelerazione dei processi di industrializzazione del reale derivanti dall’impatto del digitale nella produzione degli disequilibri sociali.

Oltre che sulla portata del processo di terraformattazione del pianeta, l’impatto delle tecnologie digitali sulla vita delle società umane può cominciare ad essere misurato anche quantitativamente. Sul profilo della dimensione del lavoro il loro impatto è stato misurato, anche se in maniera prudente, anche dal World Economic Forum di Davos. La ricerca (WEC, 2016) prevede che nei prossimi cinque anni saranno persi 5 milioni di posti di lavoro per effetto degli avanzamenti tecnologici nel digitale. (Schwab, 2016 ). Le nuove tecnologie, prevedono i ricercatori del prestigioso Forum, sostituiranno molte mansioni oggi svolte dall’uomo in pochissimo tempo, solo da qui al 2020, cioè nell’arco di poco più o poco meno di un triennio. Nella ricerca si legge che un bambino, oggi alla prima elementare, avrà una probabilità su tre di fare un lavoro oggi esistente. Quello di cui non parla il rapporto è la drammatica separazione che si produrrà nella forma del lavoro. Una focalizzazione su due punti sempre più distanti di quel “residuo” di lavoro salariato che resterà in piedi. Da una parte i lavori creativi, ben pagati e riconosciuti, ma sempre più ristretti in termini numerici e con un quadro cognitivo e conoscitivo necessario al loro svolgimento assolutamente elitario. Dall’altro un numero di lavoratori, a sempre più bassa qualificazione, con trattamenti ridotti e tutele e diritti decrescenti. In mezzo un esercito di sussidiati.

Il quadro delle novità che si preannunciano sul piano del lavoro e della redistribuzione della ricchezza, prodotta attraverso di esso, è enorme. Questi processi devono essere analizzati e compresi, sempre più, non solo nella loro dimensione sistemica, ma attraverso la comprensione del loro sviluppo dinamico. Le innovazioni nell’era del digitale, infatti, si producono tramite processi di ibridazione che sono caratterizzati da un andamento esponenziale. Da questi nuovi processi di comprensione che si evidenzieranno sia “conflitti oppositivi” di nuova generazione, sia delle vere e proprie riorganizzazioni della vita sociale, produttiva e di consumo.

I processi di innovazioni tecnologica, inoltre, stanno producendo due fattori di crisi che potremmo definire sistemica. Da un lato le tecnologie che inglobano sia i processi di robotizzazione sia i nuovi algoritmi basati sulla Intelligenza Artificiale, produrranno una sostituzione di una crescente fette di lavoratori non più all’interno delle solite fabbriche, ma in tutto lo scenario dei lavori. In particolare le innovazioni dell’Intelligenza Artificiale modificheranno la geografia dell’occupazione per funzioni e ruoli che, fino ad oggi, garantivano occupazione alla classe media impiegatizia, alle funzioni manageriali, ai ruoli dirigenziali. Non solo, quindi, un impatto “quantitativo” sul numero degli occupati e sui lavori che rimarranno esterni a questa ondata di trasformazione, ma questi si modificheranno nella loro “qualità” professionale, ridisegnando le mappe sociali e retributive di grandi fette del mondo di lavoro. Dall’altro lato, nessuno sembra cogliere la complessa relazione che esiste tra la qualità del lavoro socialmente esistente e la presenza del modello di welfare delle nostre società. Poco lavoro molto ricco e tutelato e un numero di lavori di scarsa qualità senza tutele e riconoscimenti economici, con in mezzo una crescente fetta di lavoratori/cittadini ai quali garantire un reddito di mera sopravvivenza/sussistenza, faranno implodere il quadro delle “riserve matematiche” di sistemi come quelli pensionistici, di quelli sanitari, scolastici e formativi o dei servizi alla collettività che l’intervento pubblico ancora garantisce.

Il quadro dei cambiamenti assume novità che fuoriescono fortemente dal quadro passato. La stessa forma del lavoro, così come è socialmente percepita, è in profondo mutamento. Le attività umane necessarie alla vita di ogni individuo e delle stesse comunità non sono state definitivamente sussunte all’interno del quadro di lavoro capitalistico. Non tutto è divenuto “merce-lavoro” anche se i processi di mercificazione sono avanzati enormemente nel corso dei due secoli e mezzo di capitalismo. Ma alcune cose, e non secondarie, sono rimaste fuori. Non tutto il lavoro necessario alla vita, infatti, è divenuto salariato. Si pensi, ad esempio, al lavoro di cura e a quello di riproduzione, ancora fortemente fuori dal recinto salariato, anche se sotto “attacco” dai processi di robotizzazione da un lato e di ingegneria genetica dall’altro. Nella storia delle sinistre, forse per mera contrapposizione allo schema capitalistico, le stesse formazioni del Movimento Operaio ignorarono la realtà di tali forme di lavoro extra-capitalistico: difficile organizzare conflitto contro il capitale se il capitale lì, almeno apparentemente, non c’era.

Il lavoro, quindi, storicamente non è sempre stato salariato, né è tutto salariato, anche nelle società capitalistiche. Solo processi di “riduzionismo” ideologico, anche dal punto di vista delle forze critiche, possono produrre una tale semplificazione. Oggi, inoltre, emergono nuove e potenti forme di lavoro che, almeno in potenza, sfuggono alla semplice forma salariata e che alludono alla possibilità di produzione di nuove forme di economie e che il capitale tende a inglobare al proprio ciclo. Un processo che andrebbe evitato.

L’avvento del Lavoro implicito e le sue forme

Nel descrivere le forme del lavoro implicito possiamo affermare che esso si caratterizza per tre forme e due qualità. Le tre forme sono caratterizzate dalle modalità di estrazione che le tecnologie abilitano e le due qualità dagli approcci richiesti al lavoratore implicito dalle forme stesse.

La forma iniziale, quella che definisco 1.0, è la forma che si estende in maniera permanente per tutti i siti e le strutture digitali. Spesso risulta essere una parte fondamentale per essere abilitati alle funzioni della piattaforma e che oggi assume la dimensione e i confini delle piattaforme dell’e-commerce. È la forma preconizzata negli anni ’80 dal M.I.T.I. – il famoso Ministero della programmazione giapponese – in uno studio definito Sixth Generation Computing System (SGCS)  (M.I.T.I., 1985). Secondo tale impostazione si doveva favorire una nuova forma di organizzazione del ciclo produttivo (quello classico delle merci materiali, l’unico realmente esistente in quegli anni). È una forma che ogni piattaforma, nel bene e nel male, adotta per avere sia informazioni sul cliente, sia per affidare al cliente stesso una serie di funzioni produttive che necessitano l’apertura di una specifica produzione. Nella prima fase di applicazione questa forma di lavoro implicito si affermò più rapidamente nelle società di servizi, ma una azienda come l’Amazon credette, con pervicacia, allo sviluppo di un settore rilevante nei vecchi confini delle merci materiali e oggi si ritrova ad essere l’azienda principale del pianeta nel fornire, all’intero mercato delle merci materiali, il famoso rapporto di mediazione che il M.I.T.I. indicava come necessario per la sopravvivenza delle aziende. Una intuizione che la fa essere, a buon ragione, nelle prime 7 aziende del pianeta per capitalizzazione.

La forma del lavoro implicito 2.0 è quello generato dall’avvento delle piattaforme social. L’avvento del web 2.0 segnò il passaggio ad una nuova stagione dell’era digitale. La possibilità di far produrre contenuti pubblici da parte degli utenti – quella che in termine tecnico viene chiamata la UGC, i contenuti generati dagli utenti – generò un’innovazione dirompente. L’ostacolo tecnologico, che nella prima fase di sviluppo della rete aveva impedito la pubblicazione e la produzione di contenuti pubblici da parte della stragrande maggioranza degli utenti del web, fu superato con la messa a disposizione di piattaforme che consentivano di pubblicare un contenuto scritto o filmato solamente attraverso l’iscrizione alla piattaforma. Una semplificazione gigantesca che aprì alla possibilità di moltiplicare, all’ennesima potenza, la quantità di contenuti fruibili on-line, amplificando l’uso e la necessità di connessione che era possibile attraverso tali piattaforme. In questo quadro emerge la nuova forma del lavoro implicito, quello della fase 2.0. Questo lavoro implicito poggia su una qualità nuova: sia la produzione “creativa” di contenuti, sia la misurazione del consenso permanente, da parte dell’ecosistema di riferimento, rispetto al contenuto stesso. Il livello di estrazione di valore del lavoro implicito, in questo quadro, riguarda sia il produttore del contenuto, sia il fruitore che interagisce con il contenuto stesso. E questa interazione può essere esplicita (nelle varie forme di gradimento o meno, come nel caso dei LIKE), sia implicita (la sola vista del contenuto). Entrambe queste forme sono in grado di estrarre valore da un comportamento e segnalano l’esistenza di un lavoro implicito di livello 2.0. L’avvento del web 2.0, la produzione di contenuti gratuita, massiva e generalizzata, ha ufficializzato, rendendola esplicita, l’entrata in una nuova era. Da quel momento la forma di lavoro implicito evolve esponenzialmente.

La forma del lavoro implicito 3.0 è la forma di nuova generazione che deriva dalla esplosione delle interazioni che sarà sempre più dirompente con quella che viene definita la IOT o Internet delle cose. Ogni nostro comportamento, ogni nostro spostamento, ogni nostra interazione, ogni nostro oggetto digitale produce connessioni e, attraverso tali connessioni, produce dati che sono trasformati in valore da una molteplicità di aziende e di soggetti che sono collocati sul ciclo del flusso dell’informazione.

Le tre forme descritte di lavoro implicito, inoltre, possono prendere sia la conformazione di un processo che si basa sulla consapevolezza di una interazione, potremmo dire una modalità attiva, sia la configurazione di una produzione inconsapevole o passiva. Con la nascita di piattaforme che impongono, per il loro utilizzo e per usufruire dei loro beni o servizi, una attivazione dell’utente, nasce la forma attiva del nuovo lavoro implicito. Non che i dati prodotti passivamente non siano già presenti nella rete fin dall’inizio, ma fino ad un certo punto non sono considerati dei veri e propri “valori economici” diretti. La richiesta dell’attivazione dell’utente, invece, è immediatamente percepita come la possibilità di costruire un ciclo dell’organizzazione del lavoro di tipo nuovo.

Le aziende inaugurano siti nei quali sono allocati dei form di lavoro che sono obbligatori per gli utenti. Sempre più questi form sostituiscono lavoro interno (spesso di tipo amministrativo-contabile-logistico) e allocano, verso gli utenti, la compilazione di istruzioni per la produzione, parti dirette di processo produttivo che prima erano interne. Comportamenti del corpo sociale, degli utenti divengono pezzi del ciclo di produzione.

Proprio come previsto dal rapporto del M.I.T.I. di pochi anni prima, una porzione della rete inizia a configurarsi come una parte dell’azienda, la parte che gestisce gli input produttivi e affida alla “folla” la decisione di parti fondamentali del proprio ciclo. Uno dei punti centrali del processo decisionale dell’impresa si sposta verso l’esterno della fabbrica, ma la sua forma viene “piegata” ad una formalità che ne estrae tutto il valore decisionale all’interno di una “formalità a libertà negata” che consente di mantenere il processo di comando saldamente all’interno delle sue mura, anche per quelle forme di lavoro implicito che vengono allocate fuori. Le forme di questo lavoro implicito e i gradi di libertà connessi, sono incapsulati all’interno di procedure che impediscono qualsiasi forma di vera e propria autonomia. L’organizzazione del lavoro è ingegnerizzata alle estreme conseguenze. Nulla può essere fatto se non quello che è rigidamente previsto all’interno del form con il quale è concesso interagire e, spesso, attraverso sequenze pre-ordinate e step obbligatori.

Sul lavoro implicito non c’è contrattazione, almeno nella sua forma classica, ma solo possibilità di “adesione”. Si può decidere di svolgere o meno quel lavoro, ma non si può contrattarne la forma e, meno che mai, la sua retribuzione; Il vero oscuramento avviene attraverso la percezione di tale scambio. Quello che viene percepito dall’utente/lavoratore implicito come l’acquisizione di un “vantaggio” – derivante dalla percezione di una “semplificazione o facilitazione della vita” – risulta essere per l’azienda l’esternalizzazione di mansioni verso l’utente che diviene un lavoratore non riconosciuto come tale.

Connessioni, introduzione di dati per fruire di piattaforme di beni e servizi, produzione di contenuti social (UGC), abilitazione di infrastrutture, ecc.., rappresentano le forme classiche del lavoro implicito di tipo attivo. Le forme di tale lavoro implicito, oltre che essere ingegnerizzate vengono permanentemente ricontrattate nella grande nuvola della sperimentazione delle soluzioni – spesso all’interno del mondo open-source –  assumendo, quindi, una forma di contrattazione diversa da quella classica. La forma del modello evolve all’interno dell’eco-sistema digitale, stabilizzandosi per alcuni periodi – anche in funzione dello sviluppo di normative, specialmente quelle legate alla privacy – ed trasformandosi in altre. Nei momenti di transizione, spesso, le forme evolvono attraverso dei veri e propri processi egemonici di soluzioni o, se si vuole, attraverso l’emersione di forme adattive classiche degli ambienti complessi.

Il lavoro implicito, però, assume anche una qualità che potremmo definire “passiva”. Ovviamente la possiamo definire passiva in contrapposizione alla forma attiva sopradescritta anche se, in realtà, ogni forma di fruizione di contenuti o di scambio cognitivo presuppone un’attività cosciente e qualitativamente riconoscibile come una vera e propria “attività”. Passivo possiamo definire quel lavoro implicito nel quale si fruisce dei contenuti come se fossero oggetti venduti/offerti sul grande mercato delle merci comunicative, sempre più spesso prodotte dal lavoro implicito attivo di altri utenti.

Come abbiamo accennato le trasformazioni nell’ambito del lavoro, i cambiamenti introdotti nel ciclo economico della produzione immateriale minano la struttura delle democrazie del welfare sia attraverso la riduzione degli occupati sulla base dei quali estrarre risorse per il funzionamento dei cicli delle varie strutture di welfare (pensioni, sanità, scuola, università, servizi, ecc…), sia per il totale smarcamento delle “logiche” di intervento pubblico statale. La logica burocratico-amministrativa sulla base della quale le strutture pubbliche basano il loro funzionamento, diventeranno presto lontanissime dalla percezione del funzionamento della vita sociale e produttiva con la conseguente creazione di veri e propri meccanismi di rifiuto da parte dei corpi sociali. In poco tempo, infatti, la potenza della “riorganizzazione possibile del reale”, attraverso le logiche digitali, porterà ad una crisi strutturale dei modelli di organizzazione dei servizi pubblici e alla possibilità del crollo delle sue logiche, della esistenza degli stessi apparati e del numero di dipendenti giustificabili socialmente. L’unica chance possibile per contrastare tale deriva sarebbe quella di riorganizzazione attraverso la logica di “bene comune”. Ma questa è un’altra storia.

 

Il quadro energetico della rete

Passando dal quadro sociale a quello della compatibilità planetaria, potremmo parlare di parametri come quelli del consumo energetico. Se la “rete delle reti” fosse uno Stato dovrebbe già trovare posto all’interno di un ipotetico G5 dell’energia e forse sarebbe chiamato a presiedere la struttura vista la dinamica di crescita che lo caratterizza e che non ha pari a livello mondiale. La costante connessione di più di 3,5 miliardi di apparecchi mobili sempre connessi 24/24 impegna la rete ad un costante scambio con i relativi impieghi energetici. Nei calcoli ufficiali, inoltre, raramente viene calcolata la quota energetica consumata dal sistema mobile personale, essendo considerato “residuale”.

Ma ciò che è stato fino ad oggi era solo il prologo e l’avvento della struttura del web dell’IOT prelude ad un vero e proprio salto qualitativo. La tecnologia di base che si avanza per tale struttura potrebbe corrispondere alla ormai famosa Blockchain, la tecnologia su cui si basano le criptovalute. La stessa impennata che stanno avendo questi nuovi asset finanziari basati su questa tecnologia, rappresentano una vera e propria impennata nell’uso di energia. Trasferendo via internet 20€ in equivalente valore di una criptovaluta come Bitcoin, infatti, si affronta una spesa elettrica di 20€, l’equivalente dell’energia che impiega un’auto elettrica per percorrere 1000km. E l’effetto non è stabile. Infatti, se il valore del Bitcoin aumenta, a parità della ricompensa in nuovi Bitcoin immessi, aumenta il valore della retribuzione per i miners, i soggetti impegnati nell’elaborazione diffusa del calcolo necessario a “sminare” la Blockchain, il calcolo necessario a svelare il segreto matematico interno alla “catena di blocchi” che rappresenta il Bitcoin. Ai miners, quindi, conviene impiegare più hardware nel calcolo, consumando più energia elettrica per unità di tempo. In quel momento la struttura del sistema Bitcoin individua l’aumento della potenza di calcolo del mining e cerca di compensarlo aumentando la difficoltà della ricerca del segreto matematico intrinseco, in modo da mantenere costante l’intervallo di tempo in cui un Bitcoin deve essere immesso nel circuito di quelli disponibili, cioè, “sminato” (De Collibus, Mauro, 2016). L’aumento della difficoltà del segreto da calcolare, compensa l’aumento della potenza di calcolo e fa sì che venga impiegata sempre al 100%, quindi al massimo consumo energetico possibile. Dal punto di vista ambientale, una follia.

L’aumento esponenziale del valore è anche legato proporzionalmente all’energia impiegata nel calcolo e la tendenza è drammaticamente in crescita sia per il valore delle singole criptovalute e, quindi, dell’interesse a sminare prima degli altri e accaparrarsi l’emissione, sia per il loro numero visto che dopo una lenta affermazione della prima criptovaluta, il Bitcoin, quelle attive, avrebbero ormai superato la quota delle 1.500, con una tendenza al lancio in forte crescita.

 

Il processo di terraformattazione capitalistica come sussunzione del reale

La terraformattazione capitalistica del pianeta, come sussunzione del reale attraverso il processo di digitalizzazione del pianeta, può essere pensata come la costruzione del doppio matematico del reale che mira al suo controllo. Il processo di digitalizzazione, quindi, non si presenta solo come la produzione di un mondo della virtualità, altro e autonomo, ma affiora con l’ambizione di mettere sotto controllo la forma del reale e la sua autonomia. In altre parole, potremmo affermare che la costruzione del processo di digitalizzazione coincide con il tentativo della realizzazione del Panopticon Digitale Totale. Tutto quello che sfugge a tale processo di accumulazione-inglobamento risulta divenire un residuo e percepito come residuale nella percezione sociale. L’estensione del meccanismo della digitalizzazione, quindi, ha una conseguenza che non era mai stata sperimentata dalle società umane. La tensione che punta a costruire un mondo totalmente connesso produce non solo una immensa virtualizzazione dell’esistente, una sorta di doppio elettronico del reale, e tende a rendere invisibile tutto ciò che la matematizzazione non è in grado di sussumere. Inoltre, costruisce una gerarchia inesplorata tra la forma del reale e quella del controllo del doppio digitale.

Alla vecchia sussunzione reale di stampo marxiano, quella che portava all’aumento del capitale fisso attraverso la costruzione di macchine sempre più autonome che integravano progressivamente il saper fare del lavoro, dovremmo oggi affiancare una critica della sussunzione del reale come incapsulamento della realtà e la sua trasformazione in una fattispecie nuova, una realtà composta da elementi che, contemporaneamente, sono sia fattore del ciclo produttivo, sia una merce, sia un vero e proprio indirizzo della stessa linea evolutiva.

Infatti, la duplicità di funzione, caratteristica nel ciclo immateriale, fa avere al singolo elemento esistente una duplice realtà che potremmo dire, parafrasando la fisica quantistica, di duplice natura.

Il reale socialmente disponibile, quindi, evolve in una forma complessa e nuova, nella quale l’interazione tra i due aspetti determina risposte nuove ai processi della stessa evoluzione delle forme della produzione, della società, delle merci e della stessa vita. L’affermazione del processo di sussunzione del reale passa attraverso un enorme ed esteso processo di sussunzione reale, classicamente marxiano, caratterizzato dalla potenza dell’inglobamento dell’intelligenza attiva umana caratterizzato dal processo dell’open source. Il processo collaborativo di sviluppo del software libero a livello planetario ha consentito un processo di sussunzione reale che nessuna azienda avrebbe mai potuto produrre, mettendo a disposizione, socialmente, un enorme dispositivo di intelligenza produttiva sfruttato oggi dalle principali aziende del pianeta.

Le nuove forme tecnologiche del digitale, come quelle del Blockchain, alludono a possibilità di controllo decentralizzate e orizzontalmente partecipate e abilitano all’instaurazione di un ciclo di scambio che potremmo definire di neo-baratto tecnologico. Tali possibilità spingono l’oggetto ad assumere una duplice realtà, la forma di merce finita e, al tempo stesso, di un valore d’uso direttamente scambiabile senza la necessità di esistenza di un classico “valore di scambio”. Un vero e proprio Quanto della nuova realtà ibrida caratteristica della Surrealtà figlia del processo di terraformattazione capitalistica.

Nel ciclo immateriale, ove l’atto del consumo produce materia prima aggiuntiva, si genera un flusso paradossale nell’economia materiale. Al termine del ciclo, infatti, il risultato è un aumento della materia prima a disposizione, una montagna di “materia prima” che oggi si tenta di mettere sotto controllo attraverso le attività che vanno sotto il nome di Big Data. Il ciclo immateriale vede nella esclusività della proprietà dei fattori produttivi, come il copyright, un restringimento della potenza stessa del ciclo produttivo complessivo e che vede il confine di proprietà come una limitazione al suo sviluppo; un ciclo che, poggiando su una “macchina produttiva” basata sulla comunicazione umana, è sociale per definizione e che per essere “privatizzata” deve passare attraverso un atto di oscuramento puramente ideologico che le forze della sinistra non hanno mai tentato di svelare per miopia culturale, pigrizia politica e conservatorismo sociale.

Proprio queste “ambiguità” che emergono fattivamente dal ciclo immateriale esistente consentirebbero l’istaurazione di logiche nuove alle attività di soddisfacimento dei bisogni umani, di cicli economici basati su logiche altre, più compatibili con i processi vitali del pianeta.

 

La terraformattazione come processo ideologico

I cambiamenti nella produzione e nelle trasformazioni del lavoro e della sua organizzazione, l’affermazione di cicli economici immateriali e l’affermazione dell’industria di senso, hanno costruito – ognuno per la propria parte, ma con una convergenza finale – una solida base di consenso ad un modello di vita, ad una percezione di se stessi e del mondo, che tende a trasformare in residuo ogni cosa esterna a questa nuova forma del processo di accumulazione. Queste tre principali novità del capitalismo del ‘900 hanno prodotto sia la crisi della vecchia struttura economico-sociale pre-esistente, sia un ambiente sociale facilmente predisposto alle trasformazioni sistemiche che il capitale annuncia per questo secolo.  Le strutture istituzionali e politiche, in particolare quelle del vecchio continente, si sono rinchiuse, progressivamente, all’interno di uno schema interno alla logica del sistema. Anzi, i vari soggetti sociali e politici sono divenuti, progressivamente, elementi di un gioco sistemico tutto rinchiuso all’interno di uno schema unico.

Non solo.

Proprio la forza del modello sociale europeo ha prodotto una forma di “resistenza” ai processi di innovazione. Per circa un trentennio la semplice resistenza ha garantito una sorta di impermeabilità sociale alla rimodulazione che si produceva nel resto del mondo, in particolare negli USA ma nella stessa Cina. Non aver governato tali processi di innovazione, comprendendone tendenze e orientando gli esiti, ha prodotto un doppio fattore di crisi per l’Europa intera. Da un lato è la prima volta, dall’età dell’Antico Egitto, che una rivoluzione tecno-scientifica non ha il suo cuore nel vecchio continente. Questo ritardo sta condannando l’Europa ad un declino strategico che pagherà carissimo.

Anche i tentativi di una ipotetica accelerazione del sistema, con provvedimenti come quelli denominati “Industria 4.0”, sono errati nella concezione e devastanti negli esiti. Infatti, invece di sviluppare strutture sul nuovo ciclo immateriale, ove si produce la nuova forma di accumulazione, si investono soldi pubblici per accelerare un ammodernamento delle aziende del vecchio ciclo produttivo, con i relativi saldi occupazionali negativi. La scelta, miope ma comprensibile compiuta dalla Germania e fatta sulla base delle necessità della sua struttura produttiva industriale, è stata imposta a tutta l’Europa e duplicata, senza nessuna visione e analisi strategica, anche nel nostro paese. Dall’altro lato, quando la nuova dimensione di sviluppo diventerà predominante nel mondo, lo stesso modello europeo rischierà di crollare insieme alle vecchie industrie del ciclo precedente e alla marginalità della nuova industria europea.

 

Conclusioni

Il quadro della sussunzione del reale si affianca alla classica definizione di matrice marxiana della sussunzione reale e formale, estendendo, al nuovo processo che caratterizza il capitalismo cognitivo dell’era digitale, il processo di inglobamento dell’esistente nella sua logica e nei suo gangli. La sua progressiva affermazione determina la costruzione di un ibrido di nuova generazione. Tale ibrido è costituito dal processo di sintesi tra il mondo delle cose e quello della sua rappresentazione e scioglie la contrapposizione tra reale e virtuale che ha caratterizzato i primi decenni di dibattito teorico e politico attraverso la creazione di una vera e propria surrealtà. Questa dimensione è caratterizzata da un ambiente completamente nuovo, un habitat di nuova generazione, ove conflitti, diritti e potenzialità sono declinate in maniera nuova e inedita. In questa fase di transizione coesistono vecchie e nuove forme di dominio e di controllo, nuove e vecchie classi sociali; ruoli sociali o partecipazioni al ciclo produttivo e di consumo, divengono ibridi e collassano su forme temporanee, a volte istantanee, a volte semi-permanenti. Nulla più come è stato in passato sembra sedimentarsi attraverso forme che mantengano anche delle fondamenta, delle radici. Anzi, quello che sembra mantenere delle radici appare repentinamente invecchiare. Nuove tecnologie digitali, quelle che sono alla base della nuova stagione della finanza e dello scambio come la Blockchain, sembrano allungare la loro mano innervando della loro logica i nuovi processi produttivi e di scambio. La terraformattazione capitalistica, ovvero il processo di costruzione di questo ibrido, si produce attraverso la sussunzione del reale, generando una vera e propria surrealtà, fatta dal collasso tra reale e virtuale.

Non tutto, però, è scontato o definitivamente indirizzato. Anzi.

Sia i fattori complessi che ne costituiscono le fondamenta, sia l’accelerazione temporale, l’ubiquità sociale e culturale ove essi si muovono e si ri-producono, ma anche le stesse classi sociali in movimento e i fenomeni migratori, costruiscono un quadro dinamico molto turbolento, un quadro ove i processi di critica possono consentire non solo di indirizzare esiti e destini, ma di generare forme alternative di soluzioni alla mera terraformattazione capitalistica.

La qualità e le forme della crisi dovrebbe aprire squarci nella visione della generazione dell’esistente. Riconnettere la voglia di comprendere a quella di sperimentare nuove forme, dovrebbe essere un imperativo per il pensiero critico. La potenza ubiqua e flessibile delle tecnologie digitali consente la creazione di modelli di lavoro, di produzione, di consumo e di relazione non solo su logiche totalmente extramercantili e, quindi, extracapitalistiche, ma anche a basso costo.

Non redditi di cittadinanza, forme di emarginazione dai processi di produzione della vita, personale e sociale, figli di una idea atomistica della realtà, ma la capacità di costruzione di processi di produzione di economie del valore d’uso abilitate dalla potenza di apparati produttivi basati sulla intelligenza collettiva e la conoscenza diffusa che il sistema macchinico globale digitale ha inglobato e messo a disposizione dell’intera umanità. In altre parole, la capacità di vedere la potenzialità che le forme nuove di lavoro, come quelle del Lavoro Implicito, hanno nella possibilità di riorganizzare il ciclo di soddisfacimento dei bisogni, ritarandolo all’interno di un fare che sia sostenibile dal punto di vista dei cicli vitali e ambientali.

Nuovi cicli economici con predominanti immateriali, nuovi lavori che fuoriescono dalla forma salariata e indirizzano verso economie del valore d’uso, nuove forme di bisogni socialmente organizzabili, nuove relazioni sociali e interpersonali, sono tutti elementi che si stano generando spontaneamente e che solo i processi di produzione capitalistica tendono a inquadrare e a sussumere all’interno del proprio schema. Processi che, invece, necessiterebbero di una capacità di critica e potrebbero già essere organizzati con logiche alternative a quelle del mercato. Una necessità che, d’altronde, resta obbligata dalle dinamiche che i cicli ambientali, i processi di riduzione della biodiversità, l’innesco della VI estinzione di massa della vita sul pianeta, rendono non solo urgente, ma obbligata.

È proprio qui in Europa, che sul piano teorico, sociale e tecnologico ha svolto da sempre tale funzione creatrice e critica al tempo stesso, che le forze che guardano ad un altro futuro possibile devono tornare a svolgere questa incancellabile funzione: essere costruttori diretti di un’altra realtà.

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