Dopo il voto del 4 marzo mi ero fatto una promessa: non perderò tempo a leggere articoli che contengano riferimenti a possibili scenari di coalizioni come elementi risolutori della collocazione e dell’identità politica.
Per me, infatti, la crisi è sistemica e prima se ne prende atto, meglio è.
La risposta ad una crisi sistemica, sempre per me, non significa denunciarne i dolori con parole più forti, immagini che colpiscono o slogan più azzeccati. Significa analizzare le nuove strutture produttive, i nuovi processi di accumulazione, individuare, dentro tale scenario, i soggetti e le forme che “liberando loro stessi possono condurre alla liberazione di tutti”. Il resto, gli adeguamenti “sistemici”, gli equilibri, più o meno dinamici ma interni alle strutture esistenti, avanzano da soli, senza più bisogno della dimensione del “politico”. Dimensione che, infatti, si adegua trasformandosi ad essere pura “amministrazione” e “gestione” dell’esistente. Magari con qualche idea di miglioramento o aggiustamento, con un po’ meno di ruberie e, forse, una spruzzatina di diritti qua e là, basta che non intacchino il “sistema”. Come fa ogni buon amministratore di fronte ad un palazzo che nelle sue strutture rimane immutabile.
Una “crisi” di sistema, invece, prefigura un passaggio storico, una rottura con l’esistente verso equilibri nuovi. Quasi come un trasloco da un palazzo pericolante ad uno diverso, nuovo, con altri piani e altri appartamenti, un trasloco che non consente agli inquilini di passare automaticamente da una costruzione ad un’altra e forse di rischiare di rimanere senza una casa.
E la politica? Cosa dovrebbe fare la politica in un tale frangente? Beh, il tema della “Politica” è il tema del “Potere”: chi governa e a favore di chi?
L’interrogativo, però, non è più interpretabile in termini “partitici”. Non è il dilemma: governa il partito X (o la coalizione X) contro il partito Y (o la coalizione Y) o viceversa. L’illusione di tale semplificazione valeva (se mai è realmente valsa) quando i partiti rappresentavano le classi in campo. Ci fu un tempo in cui lo scontro tra partiti era anche uno scontro di rappresentanze sociali. Ad una certa collocazione sociale corrispondeva, grosso modo, una collocazione politica. Almeno come ispirazione teorica e coerenza di comportamenti (anche e soprattutto individuali).
Da dopo il 1989 con il crollo dell’URSS, la fine dei partiti di massa e della prima repubblica, ci siamo illusi (e hanno continuato ad illuderci) che lo scontro fosse ancora quello. Invece, in realtà, tutti erano ormai divenuti “partiti sistemici”, cioè amministratori (o aspiranti tali) della forma unica di vita, produzione e consumo che erano ammessi nelle nostre società. Nulla poteva più essere espresso come ipotesi alternativa nei modelli sociali, produttivi, politici (pardon amministrativi…). Non che gli amministratori fossero tutti uguali, per carità. Come in ogni buon condominio che si rispetti, infatti, c’è l’amministratore che è efficiente, che non ruba (o ruba poco), che sa ascoltare i problemi delle persone del “quinto piano”. È stato tanto vero che per un momento sembrò che riuscissero a convincere gli italiani che il voto politico dovesse servire ad eleggere il “Sindaco d’Italia”. Ricordate? Lo schema sotterraneo emergeva allo scoperto ma faceva intravvedere già una trama usurata e incapace di reggere la struttura del vestito.
Faccio un esempio? Se ne potrebbero fare tanti.
Se foste il responsabile di un laboratorio, nel caso di mancanza, che so, di una sostanza “M” dal tavolo, necessaria alla riuscita dell’esperimento, voi raccogliereste la parte mancante prendendone un po’ (poco in percentuale) nei pochi mucchi che ne hanno tanta o ne prenderesti molta (sempre in percentuale) ai molti mucchietti che ne hanno poca? Ecco sempre un recupero avreste realizzato, ma la situazione finale sarebbe completamente opposta. Questa è la scelta che ha di fronte a sé un amministratore. Uno di destra (sistemica) toglierebbe ai molti mucchietti una parte (percentualmente rilevante) per lasciare i mucchi grandi belli cicciotti e inviolati. Un amministratore di sinistra (sistemica) dovrebbe togliere ai mucchietti grandi (percentualmente poco) ma lascerebbe intatti quelli piccoli. Una differenza sostanziale di approccio, forse in apparenza anche esplicitamente schierata… ma che non metterebbe in discussione il fatto che la produzione della sostanza “M” continua ad ammucchiarsi in maniera diseguale agli angoli del laboratorio.
Oggi più nessuno vuole realmente mettere in discussione la struttura di produzione della sostanza “M” e i meccanismi della sua distribuzione. Questa, però, è la “Politica”. O si sta con chi ha in mano il controllo della produzione e della distribuzione o si sta dalla parte di un’altra idea di produzione e distribuzione. Il tema del “Potere” (e di chi governa e per chi) è funzione degli interessi economico-sociali che sono presenti nella società. L’illusione che ci siano interessi “neutri” è appunto parte del racconto che il sistema ha distribuito ad ampie mani, racconto che i “partiti sistemici” si sono incaricati di ripetere all’infinito.
Mi ha colpito come il Mattero Renzi, segretario di un partito erede di una delle dimensioni del politico della prima repubblica, accusasse esplicitamente il Movimento 5 Stelle di essere “antisistema”. Una sorta di grido disperato: “Il sistema siamo noi!”. In queste ore alcuni mi hanno scritto che le leggi come la Fornero o i Jobs act di questi anni (fatte dal PD e/o da tutti i partiti sistemici, ma in buona sostanza senza una vera opposizione, se non di facciata, soprattutto di quella delle parti sociali) erano obbligate per il funzionamento del sistema. Infatti. Il tema è proprio questo: se stai dentro il sistema, queste sono le regole a cui sei obbligato. Ma se fai questo divieni non solo incoerente con le ragioni che ti hanno fatto nascere come sinistra (ragioni che dicevano che sarebbe stato necessario un altro “sistema”), ma del tutto inutile (al sistema stesso) perché incapace di continuare a convogliare consenso verso il sistema stesso.
Funzione storica terminata.
Ed è quello che sta accadendo in tutto il mondo occidentale.
Tutto il resto e soprattutto il dibattito che si è aperto sulla collocazione sia dei cosiddetti gruppi dirigenti (delle varie formazioni) sia delle stesse formazioni politiche (in funzione della ipotetica “governabilità”), mi sembra un disco rotto (per i millennials un disco rotto era un disco che, sempre nello stesso punto, tornava indietro di un giro e ripeteva all’infinito la stessa monotona parte della canzone).
Nessun gruppo dirigente attuale ha più la legittimità per indicare una via a chicchessia. Un po’ come direbbe Minniti: “non seguitemi, mi sono perso anch’io”. E, infatti, non li segue più nessuno. Sarebbe più efficace, giusto e necessario prenderne atto. E farsi da parte, anche da quegli scranni conquistati in maniera rocambolesca (e spesso furbesca, infatti, le politiche e le coalizioni le sbagliano tutte, ma i collegi elettorali dove essere più o meno sicuri di essere eletti quasi automaticamente, quelli non li sbagliano mai). Sarebbe più credibile da parte loro dire: “siamo stati incapaci di indicare una rotta, una politica, una svolta… e siccome vogliamo restare a disposizione della sinistra, ripartiamo da semplici iscritti e lasciamo posto ad altri”. Anche quelli delle aule parlamentari.
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