La fine di un ciclo storico

Brexit, Trump e Referendum, la fine di un ciclo

Nel 2016 molti accadimenti politici nel mondo sono usciti dai binari che erano stati predisposti dagli stessi gruppi dirigenti che gli avevano promossi. Un segnale di crisi sistemica che sfugge ai più, ma non necessariamente indica un’ipotesi di fuoriuscita dalla stessa crisi. L’illusione che sia possibile ricostruire ciò che esisteva prima del 2008, mangia gli stessi spargitori di questa illusione.

I dibattiti che si snodano intorno agli accadimenti principali di questo 2016 peccano spesso di un “riduzionismo” nazionalistico che stride rispetto alle dinamiche sotterranee e potenti che stanno producendo effetti diversi, ma coerenti, nei differenti paesi.

Possiamo, infatti, analizzare la “Brexit”, la vittoria di “Trump”, quella del “NO” in Italia, la crisi dei partiti al governo nei vari paesi in Europa o il crollo della stessa dimensione europea nella percezione di massa, partendo dalle condizioni locali, dalle politiche di questo o di quel governo, mettendo a fuoco le ricadute che la crisi ha prodotto nelle strutture dei singoli paesi. Le analisi evidenzieranno errori, mancate percezioni della distanza, vere e proprie miopie sociali, corruzione diffusa, un ruolo incrinato tra media, poteri e realtà materiale diffusa. Insomma potremmo analizzare ciò che ci accade intorno e provare a mettere in fila delle ipotesi di soluzioni, più o meno efficaci, più o meno compatibili socialmente e cariche di giustizia sociale.

Ma una analisi di tale qualità, pur doverosa e necessaria rischia di rimanere inefficace nella fase storica che il mondo sta attraversando. L’errore più grande che si sta commettendo e nella comprensione della “qualità” della crisi che si è aperta nel 2008. Molti osservatori e commentatori, nel dispiegare le loro analisi, spesso si lasciano andare, stupiti, della durata della crisi. “Chi avrebbe detto che la crisi sarebbe durata così a lungo?” si giustificano politici, esperti, docenti, economisti nelle trasmissioni televisive e nei convegni per giustificare i loro errori, l’inefficacia delle loro ricette, l’incapacità di indicare una soluzione per il progressivo impoverimento della famosa “classe media”.

Sono sconfitti gli uni e smarriti gli oppositori, quelli che pensano che con l’accoppiata vincente del ‘900, fatta di indebitamento pubblico e conflitto politico-sociale per strappare una maggiore capacità di spesa a favore del mondo del lavoro, si possa ricostruire una dinamica di maggiore “uguaglianza” e “giustizia sociale”. Una incredulità percepita e percepibile sia nelle analisi, sia nelle proposte che emergono e, epidermicamente, si trasmette “a prescindere” dal messaggio costruito e distribuito dai leader di turno.

Ma da dove arriva questa percezione? Da dove arriva questo smarrimento? La potenza della narrazione dei media – la costruzione del senso della vita fatto attraverso la costruzione del sogno che struttura i bisogni – si dimostra enormemente più forte di qualunque forma di propaganda “circoscritta e puntuale” pur spalmata e allungata nel tempo. Il punto di rottura generalizzato e globale, a mio avviso, è rappresentato dalla distanza – concreta e misurabile – tra il sogno, iniettato a dosi massicce dalle strutture comunicative e costruito intorno alle strategie di marketing, e il bisogno “concretamente soddisfatto”. In poche parole, si è consumato il punto di tensione – percepito come concreto e reale – rappresentato dalla distanza tra l’immaginario e la realtà che, fino ad un decennio fa, si pensava superabile attraverso uno sforzo individuale, una capacità soggettiva, la possibilità di trovare scorciatoie personali (di qualunque tipo) e che avrebbero finalmente consentito di vivere esattamente come la sfera della comunicazione commerciale ci ha convinto che dovrebbe essere la vita.

Il punto è che non esiste più una narrazione – sociale e politica – che possa rimettere insieme una cinghia di trasmissione – ideologico-comunicativa – che ormai ha mostrato la sua incapacità a mascherare la realtà per quella che è, una realtà che si basa sul fallimento del modello economico sottostante, su una “crisi sistemica” che ci consegna l’impossibilità di produrre e distribuire la ricchezza che sarebbe teoricamente necessaria a far vivere 7 miliardi di persone con quel livello dei consumi, con quella vita. E anche se un economista ci consegnasse la formula magica di come far quadrare il sistema, ci sarebbe l’impatto di questo modello di vita sull’intero pianeta a ricordarci che anche quella formula sarebbe illusoria e falsa.

Al di là di ciò che consapevolmente è diffuso come comprensione cosciente, infatti, quello che sta emergendo è la percezione diffusa che questo mondo non è in grado di continuare sugli stessi binari sui quali era stato collocato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Che lo scarto, la biforcazione che stiamo vivendo, ci obbliga ad una discontinuità a prescindere dalle nostre singole volontà. Buona parte di quella cosa che negli ultimi due/tre decenni ci hanno raccontato fosse lo scontro politico, era in realtà un “dialogo sulla gestione del tragitto. Le forme della “amministrazione” di una rotta già decisa non può essere scambiata per “politica”. La politica era confronto sulla “rotta” non sul comandante della nave.

Durante una navigazione in mare tranquillo analizzare gli assetti del carico, distribuire i pesi nella stiva, garantire i pasti agli orari previsti e tutte le altre attività necessarie ad un buon e sereno viaggio, possono essere “normalizzate”. Avere una buona efficienza nella gestione delle procedure, significa saper “amministrare” la navigazione. In quelle condizioni le opzioni generali, l’indirizzo di marcia, la destinazione è pre-definita, considerata “naturale”. La volontà, la capacità e la necessità di cambiare rotta o nave, quella di spostare la distribuzione delle cabine o degli orari di vita nella nave, la qualità e la distribuzione dei pasti, insomma tutte le cose che cambiano il “sistema” di funzionamento della “nave” sembrano superflue o addirittura “nemiche”, dal punto di vista “sistemico” e dal punto di vista degli “amministratori”.

Ma se tutto questo è, forse, comprensibile o giustificabile durante la rotta nel mare tranquillo, tutto cambia quando la storia, volenti o nolenti, imbocca un tornante. Tutto si rimette in gioco nel momento in cui le strutture portanti della nave scricchiolano e il mare, sul quale si naviga, non solo è in tempesta ma la nave ha imboccato un vortice marino che sta inghiottendo il vascello sul quale si sta.

Quello è il momento in cui gli “amministratori” devono essere sostituiti dai “politici”. Dai capitani che intrattengono gli ospiti nei saloni al primo livello, sanno usare il bon ton, conoscono lingue e sanno omaggiare gli ospiti della convivialità da sogno a cui i passeggeri del terzo livello aspirano, bisogna passare agli ammiragli che sanno analizzare i venti e i mari, rompere gli schemi, cambiare gli ordini, spostare i carichi e gli incarichi, decidere come utilizzare i motori e indicare una rotta.

È il momento in cui dagli “amministratori” bisogna passare ai “politici”.

Questa è la crisi che stiamo vivendo, solo che l’inganno perpetrato nel nascondere la “qualità” della crisi fa scatenare nelle persone la percezione che l’unico problema che esista sia quello di una casta che vuole tenere per sé tutti i privilegi e negarli ai più. L’illusione che – nella nave – basterebbe cambiare il menù, o imporre la rotazione nelle cabine di prima classe, o rendere quelle di terza classe un po’ più ricche e confortevoli, per rendere tutto migliore.

Purtroppo non è più così. Forse lo è stato per i pochi decenni che sono andati dal 1945 al 2008. Il periodo in cui la selezione nelle democrazia ha depurato della “politica” il sistema e affidato alla rappresentanza solo uno stuolo di amministratori che, oggi, non sono in grado di indicare una strategia per uscire dalle correnti del vortice in cui la nave si è diretta.

Non è importante, in questa sede, discutere del perché si sia generato il vortice, se sia colpa della navigazione di questa nave, della miopia della sua rotta. Quello che sappiamo che la nave all’interno del vortice subisce ulteriori squilibri e che il vortice sta mettendo in discussione non solo la nave, ma la stessa superficie delle acque. È l’intero destino della vita del pianeta, degli equilibri pre-esistenti nella vita, del modello di evoluzione che il pianeta si era dato, del sistema complesso della vita, che abbiamo messo in discussione.

Il punto è che in una democrazia la decisione di quale ammiraglio, di quale squadra deve mettersi al comando della nave, passa attraverso una decisione collettiva che, se non si basa sulla comprensione della verità sulle condizioni del mare nel quale la nave si sta navigando, rischia di essere “inconsapevolmente” colpevole del disastro verso il quale ci si indirizza.

Il ciclo politico, economico e sociale che abbiamo alle spalle è terminato e le forze politiche consapevoli dovrebbero partire da questa consapevolezza e, al contempo, essere in grado di indicare, nelle grandi potenzialità che le conoscenze raggiunte ci mettono a disposizione, le soluzioni concrete per riorganizzare da cima a fondo la nave, decidere nuovi assetti, nuove forme di relazione, tentare di cambiare rotta per uscire dal vortice. E per questo servirebbe una consapevolezza internazionale che costruisca una alternativa al processo di globalizzazione che abbiamo subito in questi decenni.

Queste soluzioni rappresentano una vera e propria “Transizione” verso un nuovo modello, verso una nuova civiltà. È un passaggio possibile se cominciamo a raccontare alle persone la realtà che stiamo vivendo, se togliamo il velo del sogno permanente e lo sostituiamo con gli occhiali necessari a rivedere un orizzonte che sembra esserci stato strappato e negato da questo modello di vita.

 

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