I Robot e l’ordine pubblico

Nei vecchi registratori esisteva un tasto che ci consentiva di vedere il contenuto di una video-cassetta a velocità aumentata. Fast Forward (FF), avanti veloce, ci indicava il pulsante, quasi a suggerirci la qualità nuova dei tempi in cui stavamo entrando. Una sorta di frullatore che, rompendo i tempi necessari ad introiettare il “senso” del racconto, alterava il contenuto stesso pur lasciandoci di fronte a tutte le informazioni che esso conteneva. D’altronde, i racconti orali prima, i romanzi e i film poi, ci avevano abituato per millenni ad estrazioni di senso dall’intero corso di una vita, ad un rapporto tra la vita vissuta (con i suoi tempi “lunghi”) e i racconti su di essa, la produzione di una sorta di “estratti”, di distillazione di “essenze” degli accadimenti, che dovevano alludere al “senso” interno, complessivo, dei fatti, in poche battute. Quella “sintesi” poteva e doveva rappresentare il senso e l’insegnamento di cui fare tesoro. Un accumulo esperienziale a cui attingere come mappa per la navigazione futura nelle nostre vite. Un processo analogo ci viene oggi imposto dal sistema delle comunicazioni di massa, solo molto più esteso e articolato rispetto ai racconti e ai poemi raccontati per anni davanti ad un fuoco in una tribù, in un villaggio o all’interno di una casa matriarcale o patriarcale.

In queste ore siamo sottoposti ad un flusso informativo enorme. I fatti di Dallas ci raccontano mille cose. Tutte importanti, alcune con portati istantanei – le uccisioni di agenti in risposta alle uccisioni di afroamericani, altre con implicazioni di lungo periodo – i rapporti sociali, le discriminazioni raziali, le condizioni di integrazione e discriminazione nella prima potenza del mondo -. Talvolta, però, all’interno di tali concentrazioni di senso si nascondono accadimenti che mutano il quadro degli eventi futuri e, spesso, vengono sottovalutati nel momento della loro produzione. I fatti che vengono raccontati contengono sempre diversi livelli sia di comprensione sia di significato. Ognuno di noi attraversa il (ed è attraversato dal) flusso delle informazioni disponibili con una duplice illusione: quella di aver compreso la realtà dei fatti e quella che tutti condividano la stessa forma di comprensione da noi sviluppata, per poi dividersi per scelte, cultura, convinzioni politiche o religiose. Il sistema mediatico, inoltre, ci ha abituato a concentrare la nostra attenzione sugli aspetti che il media specifico del quale fruiamo ritiene più rilevante degli accadimenti. Non sempre il racconto o l’esposizione dei fatti di un determinato accadimento, si spinge al di là dei criteri di selezione d’importanza, parametri basati sulla produzione della maggior produzione di ascolti. O di click o di lettori. La logica non cambia e mantiene la stessa forma.

Per questo motivo, spesso, il racconto mediatico tende a trascurare i fattori meno attraenti sul piano degli ascolti anche quando contengono un salto di qualità interno.

A Dallas non si è solo consumata una tragedia che racconta le discriminazioni e le risposte errate di un riservista addestrato nella logica di rispondere con la violenza alle violenze subite. La logica della guerra. A Dallas si è consumato un evento che verrà ricordato, probabilmente, nei libri di storia. Per la prima volta, infatti, un ricercato è stato eliminato dalla polizia con l’uso di un “Robot”. Alcuni giornali hanno raccontato la cosa, ma senza dare il giusto peso, senza descrivere il salto di qualità, la nuova stagione aperta dalla polizia americana.

Fino ad oggi i mass media ci avevano abituato agli interventi dei droni sui “campi di guerra”. Erano interventi deplorevoli, ma apparentemente lontani non solo “territorialmente” ma anche come spazio logico. Interventi dall’alto, da un cielo trasformato in incubo per molte popolazioni che pagano da anni i costi in vite umane degli effetti collaterali di tali strumenti di morte. Fino a ieri di robot militari terrestri che pattugliavano territori si parlava lungo il confine della Corea del Sud. O in altri territori apparentemente più asettici. Le tre leggi della robotica di Asimov (quelle che avrebbero dovuto garantire una convivenza sicura tra robot e umani) sembrano essere state archiviate ancora prima della diffusione di massa degli stessi robot. “Un robot non può recar danno a un essere umano né può permettere che a causa del proprio mancato intervento un uomo riceva danno” recitava la prima legge della robotica dello scrittore sovietico.

Nel gennaio 2014 il generale americano Robert Cone, all’epoca comandante del TRADOC (US Army Training and Doctrine Command), aveva annunciato delle prossime riduzioni nella Forza Armata – da 540 a 490 mila effettivi per la fine del 2015 – e ipotizzando una ulteriore riduzione degli organici delle brigate da 4 mila a 3 mila uomini. Inoltre il generale Cone avrebbe previsto, per il 2019, un’ulteriore riduzione di 70 mila uomini compensata dall’impiego di robot e piattaforme mobili di fuoco UGV (Unmanned Ground Vehicle). In alcuni documenti ufficiali statunitensi si fissa per il 2019 la diffusione generalizzata di robot negli scenari di guerra. Con alcune persone, anni fa, demmo vita ad una associazione per chiedere di mettere la robotizzazione fuori dagli scenari di guerra con un appello alle Nazioni Unite. Oggi ci ritroviamo con l’uso dei robot nelle nostre città per questioni di polizia, tragiche, ma sempre operazioni di polizia. Il salto di qualità non può essere sottovalutato per le implicazioni che apre per il nostro futuro. La legittimazione all’uso dei robot nei processi di intervento di polizia, quindi in ambito civile, pone degli interrogativi forti che travalicano il singolo episodio. È legittimo usare un robot per una operazione di polizia che ha in partenza lo scopo di uccidere chi ha commesso un reato? È questa la forma di intervento che stiamo legittimando con il nostro silenzio? Chi arma e chi guida tali robot? E visto che si stanno introducendo robot che hanno un Intelligenza Artificiale, quindi autonomi nelle decisioni, quali usi saranno concessi per i servizi di polizia? Io credo che vada lanciato un appello contro la possibilità di armare robot all’interno delle nostre città. Servono sindaci, ministri, capi della polizia che prendano l’impegno a non usare robot come arma o ad armare robot contro esseri umani.

Dallas ha inaugurato l’uso dell’uccisione robotizzata per scopi di ordine pubblico. Le implicazioni di tale scelta possono essere di lunga durata, anche quando l’umanità avrà compreso che il colore della pelle è un valore e non un’occasione di discriminazione. Speriamo di non dover distinguere , per quel tempo, le differenze tra la pelle sintetica e quella umana in campi di battaglia.


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