Con una metafora forse azzardata potremmo traslare la situazione kazaka da quella che precedette il 14 luglio del 1789. Dal “Maestà il popolo ha fame e non ha più pane”. “Se non hanno più pane che mangino le brioche” (il dialogo attribuito a Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena durante un tentativo di rivolta per mancanza di pane), al “Popolo ha fame, freddo e non ha il gas per fare il pieno all’auto”. “Allora dategli un wallet con dei Bitcoin!”.
Il mondo si interessa alla crisi del Kazakistan in maniera diversa di altre crisi di paesi fuori dalla “notiziabilità” classica. La ragione di questo interesse non è certo per un improvviso afflato di vicinanza con la sofferenza di un popolo (della situazione afgana, ad esempio, non si riempiono più le pagine dei giornali e i TG, anche se la crisi, in questi mesi, si sia solo aggravata dallo scorso agosto). Il punto è che le implicazioni geopolitiche di questa crisi si dispiegano non solo sullo sviluppo macroeconomico derivante dalla centralità del territorio kazako per lo sviluppo della “Belt and Road” o OBOR (One Belt, One Road) ma per le conseguenze immediate sul settore critico delle criptovalute e delle tecnologie legate alla Blockchain. La convergenza degli interessi tra Russia e Cina, le loro strategie interne ed esterne, infatti, sembrano trovare un punto di incontro proprio nel Kazakistan. Quello Stato, infatti, potrebbe rappresentare per entrambi i colossi geopolitici un luogo, una camera di compensazione e di sviluppo di interessi convergenti. In particolare, su un settore strategico di sviluppo che attiene alle tecnologie digitali globali e anche alle strategie di contenimento della produzione dei gas serra che vedono molti paesi lavorare non solo per il contenimento della loro produzione interna ma anche per la ricollocazione di quote di produzione al loro esterno.
E questo secondo tema sta diventando caldissimo dopo le decisioni che si stanno susseguendo negli ultimi mesi e che riguardano l’intero processo tecnologico del mondo. Non ultimo il tema del surriscaldamento globale e i carichi di CO2 attribuiti ai vari paesi e che, in realtà, divengono solo delle “esternalizzazioni” verso altri territori di quote di produzione necessarie al funzionamento delle “economie avanzate”. L’«universo« dei bitcoin – come calcolato dal Center for alternative finance – richiede il consumo di 123 terawattora l’anno che comportano l’emissione di 36 milioni di tonnellate di C02. Una quota pari a quella di interi paesi. L’incremento della richiesta di energia da parte del mondo della Blockchain è divenuto, ormai, un fattore geopolitico assoluto, soprattutto per le scelte energetiche che riguardano l’equilibrio delle attività umane con i cicli ambientali del pianeta.
Che la situazione sociale del Kazakistan fosse precaria, in ogni caso, era una informazione nota da tempo. Che precipitasse per gli equilibri digitali del nuovo mondo globale digitale legato alla Blockchain non era prevedibile (almeno negli schemi politici del passato).
Nei mesi scorsi, infatti, la Cina aveva assunto la decisione di eliminare i sistemi di criptovalute ad eccezione di quella statale, lo e-Yuan. Nel provvedimento era incluso il divieto di effettuare il cosiddetto “mining” delle blockchain sottostanti (la tecnologia su cui si basano le criptovalute e che per le transazioni necessita di una forte capacità di calcolo informatico – chiamato appunto mining nella prassi informatica – reso disponibile da veri e propri centri di calcolo che vivono di queste funzioni).
La Cina, fino a quel momento, era il primo territorio per capacità di mining nel mondo. Il Kazakistan, dopo questa decisione, diveniva il secondo dopo gli USA con una quota vicino al 20% mondiale.
I dati, sempre secondo il Center for alternative finance dell’università di Cambridge, indicano una distribuzione completamente nuova dopo le decisioni cinesi della scorsa estate.
Ora dobbiamo ricordare che Cina e Kazakistan non condividono solo un confine ma anche una sorta di “scambio” di popolazioni che caratterizza una sorta di “contiguità tra i territori. Da una parte il territorio kazako vede una parte della popolazione uiguri sul proprio suolo e, dall’altra, una fetta di popolazione di kazaka vive sul territorio cinese. I confini, come si sa, non dividono le popolazioni in maniera netta (forse solo in Europa – dove nasce la teoria politica dello stato-nazione – possiamo identificare i confini con i popoli e neanche in ogni caso…).
Nella fattispecie storica, la decisione della Cina di mettere al bando le tecnologie della Blockchain sul proprio territorio ha spinto alla migrazione verso il Kazakistan, ove esistevano già delle basi tecnologiche, logistiche e un know-how diffuso. In particolare, nel territorio della città di Almaty. Si calcola che in questi mesi si siano trasferite, spesso con attività clandestine, oltre 88.000 aziende impegnate nel settore, attirate anche dal basso prezzo dell’energia che quel paese offriva.
Si sa che il processo di mining richieda grosse quantità di energia (sia per il calcolo sia per il raffreddamento degli ambienti necessari ad ospitare gli impianti) e che l’improvvisa e nuova richiesta di energia da parte di questo comparto avesse messo in crisi l’intero sistema produttivo e distributivo del paese già dalla scorsa estate. Gli operatori del settore, infatti, avevano avvertito che il sistema energetico del paese non era in grado di soddisfare così tanti “minatori informatici” assetati di energia (e di potere) che lasciavano la Cina e trovavano un regime instabile, plasmabile e con una lotta intestina molto forte. Dopo la stabilità trentennale dovuta al governo Nazarbaev, infatti, la successione alla presidenza del paese di Toqaev ha determinato lotte di potere (più o meno sotterranee) che poggiano sulle condizioni materiali del paese per gli scontri aperti per i posti di comando del paese. Le difficoltà di approvvigionamento, infatti, hanno visto la rete limitare la potenza alle operazioni minerarie, ostacolandole nella grande caccia ai “bitcoin”.
Questa la miccia della rivolta kazaka e questo il grumo di interessi che sta sfruttando la grave situazione sociale sulla quale poggiano gli “ispiratori” della protesta. Non è un caso che, questa volta, anche in Occidente si parla apertamente di gruppi oscuri armati che capeggino e guidino la battaglia contro il governo. Scopo di questa rivolta non è l’equità sociale ma la realizzazione di un territorio “autonomo” al servizio del grande circo delle criptovalute speculative.
Questo non toglie che la condizione sociale sia critica e che il paese necessiti di riforme e di un nuovo livello di equità ma occorre comprendere che la crisi kazaka si sia innescata per le dinamiche legate allo sviluppo del mondo digitale e rappresenta la prima rivolta che poggia le sue motivazioni sulle necessità d sviluppo del nuovo mondo delle criptovalute.
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