C’è un bisogno che questo expo soddisfa. Ovviamente ogni informazione socializzata con una certa forza, produce effetti sui corpi sociali poggiando su una necessità già depositata, stratificata. E l’Expo non può fare eccezione.
Ma questa volta c’è un di più, un elemento aggiuntivo che si rafforza per la presenza di un sedimento presente nelle persone, nei gruppi sociali, nel territorio.
Partiamo dall’ultimo punto quello del territorio. Milano e il suo sistema territoriale vivono da anni, da prima della crisi del 2008, una decadenza che è figlia, paradossalmente, proprio del modello che ne aveva drogato la crescita negli anni della “Milano da bere”. Il modello vincente di quegli anni fu quello che potremmo definire il “paradigma fininvest”. Questo modello trasformava l’idea di impresa nazionale. Si traslò, infatti, da una capacità autonoma produttiva, capace di costruire un mercato interno e di competere con questa forza nello scenario Internazionale, ad un modello di tipo “gateway” per i competitors planetari. Una sorta di modello aziendale nel quale la struttura nazionale era funzione degli interessi di gruppi o settori internazionali che necessitavano di facilitatori locali per conquistare e mantenere pezzi di mercato necessari ai loro bisogni. La televisione del gruppo di Berlusconi, infatti, poggiò la sua fortuna sulla capacità produttiva dell’industria audiovisiva americana e sugli interessi degli investitori pubblicitari statunitensi con i loro interessi: la vendita delle merci che provenivano dalle loro industrie e che dovevano sostituirsi a quelle prodotte e pensate nel nostro paese. Il modello fininvest portò grandi opportunità di guadagni immediati, ma sul lungo periodo le aziende si trasformarono in meri rivenditori di prodotti e servizi che portavano il vero valore aggiunto in altri paesi e il valore del lavoro, del management, della ricerca risultavano sempre più penalizzati. La crisi di questi anni, nel nostro paese, è anche figlia di tali scelte e di tali politiche che hanno distrutto un apparato industriale di primo livello. E anche di una incapacità a tenere legati a doppio filo le necessità produttive ai bisogni di un territorio.
Gli stessi gruppi sociali, figli dell’equilibrio politico ed economico possibile in una società che aveva una propria industria nazionale, andarono smarrendo la loro funzione e il loro ruolo. Grandi aziende, grandi associazioni, padronali o del mondo del lavoro, svolgevano una funzione centrale nel mantenimento di processi di redistribuzione, di progettazione, di compensazione. La politica poteva poggiare il proprio ruolo in una posizione centrale di mediazione e di indirizzo.
Gli individui avevano davanti uno scenario nel quale la mobilità sociale, la conquista di diritti, la possibilità di ricercare una chance di realizzazione sembrava possibile attraverso l’impegno personale e l’esistenza di regole e logiche condivise.
Ora la crisi ha cancellato tutto questo mettendo a nudo l’insensatezza di questo modello basato su uno sviluppo che non tiene conto della complessità della vita.
Anni di riduzione dei diritti, aumento della disoccupazione, riduzioni reali del salario, hanno prodotto una perdita del “senso del fare”. Una perdita legata alla incapacità di riprogettare il proprio modello di vita e schiacciata tra l’aspirazione rimasta intatta di un livello di consumo, che l’industria di senso ha lasciato inalterata, e la condizione reale che si separa sempre più dall’immaginario socialmente disponibile e distribuito.
È qui che l’Expo si insinua, nello spazio mentale tra il bisogno individuale alla progettazione del proprio futuro e quello socialmente disponibile . Anche se, nella realtà, proprio questo Expo rappresenta il proseguimento della logica che ci ha portato fino a questo punto. Chi contesta questa kermesse viene vissuto con un certo fastidio perché mette a nudo questa contraddizione. Pone il tema della necessità di una transizione dall’attuale modello di vita ad uno sostenibile sul piano dell’impatto ambientale, che poggi su una socialità diversa con una redistribuzione non solo della ricchezza, ma dello stesso senso del fare umano, una redistribuzione in relazione a tutta la sfera del vivente, delle risorse disponibili, dei cicli del pianeta.
Si difende questo Expo pensando di difendere il diritto ad un futuro che si sente negato non accorgendosi che, in realtà, proprio esso rappresenta concretamente la summa ideologica del modello economico-sociale che sta per estirpare le radici stesse di questo diritto.
In gioco, qui a Milano, non c’è la possibilità o meno che un’ipotetica nuova stagione del made in italy porti nuovo sviluppo, ma la messa in discussione del modello che ha portato l’umanità sull’orlo del baratro.
Se un altro mondo è possibile dobbiamo poterlo praticare qui ed ora. La transizione verso questo diritto al futuro è un nostro diritto!
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