Deflazione, welfare familiare e salario di cura
“se sei invisibile nell’economia di una nazione, sei invisibile anche nella distribuzione dei suoi benefits” (Waring, 1999).
Il lavoro degli italiani, dentro la crisi, è aumentato. Dice Giuseppe Roma, Direttore del Censis che : «Nei lunghi anni della recessione le famiglie italiane hanno supplito con le proprie risorse ai tagli del welfare pubblico”. E’ un lavoro difficile, faticoso, non visibile, escluso dalle contabilità nazionali e dal computo del PIL.
Un lavoro tipico del Sud Europa( Spagna, Italia, Grecia ) che investe soprattutto, ma non solo, le donne, che sorregge il Paese, che è escluso dal circuito del valore.
Che senso ha parlare di salario di cittadinanza, senza poterlo, per altro, praticare e non interrogarsi su come far emergere questo enorme giacimento di valore escluso dalla economia formale e dalla circolazione monetaria?
In una fase in cui si è deciso di inserire nel computo del Pil il valore generato dalla economia illegale il lavoro di riproduzione continua ad essere escluso dalle stime ufficiali.
Portare a valore economico questa enorme fatica quotidiana, peraltro crescente, con cui i cittadini suppliscono alla inesistenza di un sistema di servizi mirato alla tutela delle persone costituisce la base per far emergere un fitto intrico di scambi e relazioni che sono parte integrante della ricchezza delle nazioni.
Su questo giacimento di valore si può fare perno per costruire un sistema di circolazione monetaria capace di riportare dentro l’economia formale una massa importante di donne e di uomini oggi esclusi od in condizioni precarie nel mercato del lavoro, corrispondendo loro un salario commisurato alle prestazione erogate nei confronti di propri familiari o di terzi.
Ci si dislocherebbe così ben oltre il sistema dei “lavori socialmente utili” che spesso utili non sono, sovente luogo di scandali o di frustranti ed inutili prestazioni etero dirette, scegliendo il campo di un “salario socialmente utile” che riconosca un lavoro nei fatti già svolto, spesso con una dedizione ed una accuratezza inusuale.
Ci si dislocherebbe inoltre su di un terreno radicalmente favorevole alle fasce più deboli della popolazione, quelle che non hanno accesso ai servizi di cura a pagamento, alle donne disoccupate o sotto occupate, ai disoccupati che occupano il proprio tempo badando ai figli, ai genitori ed agli amici.
La proposta che vogliamo avanzare nulla ha a che fare con l’idea conservatrice del “salario alle casalinghe”: che immagina una prestazione rivolta , indifferentemente, a un soggetto sociale generico con l’aggravante di voler incentivare l’esclusione dal mondo del lavoro “classico” delle donne, né con la generica idea di “salario di cittadinanza”, meccanismo puramente distributivo generato dallo status giuridico di appartenenza ad una comunità, bensì poggia su due precisi presupposti, l’esistenza di un lavoro, misurabile in termini di tempo e di prestazioni, che genera valore sociale e la sua trasformazione in valore economico.
Occorre immaginare una struttura analoga alle “banche del tempo” che assolva al compito di registrazione,classificazione e certificazione delle prestazioni erogate dai singoli nei confronti di familiari o di terzi e che trasformi in corrispettivo monetario, in “salario”, tale valore anche attraverso l’ausilio di strumentazioni informatiche open source, analoghe al modello dei “bit coin” e di una circolazione di moneta elettronica cosi da garantire il “ritorno” alla capacità di spesa di grandi masse di persone oggi marginalizzate.
Tale quantità di valore immessa nell’economia elettronica potrebbe costituire la base per far sviluppare, e non solo nel nostro paese, una vera e propria “industria digitale” dedicata alla realizzazione o commercializzazione di prodotti/servizi tramite web, producendo quello sforzo di innovazione del sistema Paese tanto celebrato quanto mai praticato, in primis per carenza di capitale da destinarsi a questo settore e a iniziative imprenditoriali di giovani.
Immaginare di far interagire questo tipo di sistema con “gruppi di acquisto” web based, giocare sull’approvvigionamento a km zero, costruire “reti di zona” di welfare dal basso, di servizi di quartiere (manutenzioni domestiche e non, produzioni artigianali di makers, ecc..) permetterebbe di disegnare una nuova economia basata sul valore del “lavoro sociale” capace di andare incontro ai bisogni più minuti e sempre più pressanti di una grande parte del Paese.
L’impatto sull’economia “formale” di questa “crescita dal basso” sarebbe straordinaria: una vera e propria via d’uscita “sostenibile” dalla spirale deflattiva che oggi si è innescata e da cui non si vedono soluzioni e che va ben oltre una impossibile politica redistributiva dall’alto, stretta oggi fra vincoli europei, crisi fiscale dello Stato e crescita del Debito pubblico.
L’idea è quella di una possibile alternativa al modello neoliberista, sia sul piano sociale, sia sul piano della sua struttura finanziaria. Abbiamo bisogno di progettare il “senso” di una moneta di nuovo tipo, una moneta che si basi sul valore del lavoro sociale e che, partendo da queste forti radici, sia in grado di egemonizzare la forma delle attuali monete. Intorno a questa opzione crediamo sia giusto aprire un confronto tra gli economisti schierati a sinistra per progettare la forma di questa nuova moneta e, attraverso i movimenti esistenti nella società, far germogliarne le radici.
Sergio Bellucci
Amarildo Arzuffi
Net Left (www.netleft.eu)
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