(Bozza del mio intervento)
Sergio Bellucci:
In primo luogo vorrei ringraziare per l’invito. Proverò a dividere il mio intervento in tre parti in maniera sintetica, forse un po’ schematica, ma i tempi a disposizione non consentono di più. In primo luogo, alcuni “tweet” in modo da essere il più sintetico possibile, ma provare a richiamare alcune linee quadro. Poi un piccolo pezzo di analisi, che sarà poco più di un’osservazione e, alla fine, una piccola proposta. Il tweet: nell’Ottocento si affermava che la democrazia è come una trave che poggia su due elementi: da una parte la distribuzione della ricchezza, dall’altra la libertà di informazione. Credo che questi due elementi siano abbondantemente stati minati alla base, probabilmente anche distrutti.
Primo tweet: io credo che la principale novità del Novecento di cui, qui, non abbiamo assolutamente parlato e che allude al tema evocato della “corruzione del carattere” di Sennet, – corruzione che ha consentito lo sfondamento che poi si è ri-prodotto nei luoghi di lavoro – è l’emersione di quella che io chiamo da anni “L’industria di senso”. È un tema nuovo nella Storia dell’umanità perché, per la prima volta, la costruzione del “senso della vita” non viene più prodotta nel dialogo sociale, nello scontro sociale, ma viene progettata, ingegnerizzata, realizzando un settore industriale che produce profitto nella costruzione del senso della vita. Questo consente di costruire e progettare il senso che le persone pensano di costruire autonomamente e di produrre logiche di flessibilità continue, atte ad adeguare i comportamenti in funzione dei bisogni del mercato. La logica del cambiamento diviene logica virtuosa della propria condizione e un dato permanente. Si produce, così, un grande movimento a spirale che rimane centrato su sé stesso, su una logica espansiva del consumo e della produzione (sia in termini qualitativi sia in termini qualitativi) regolata dai meccanismi del mercato e non dai bisogni. Questo schema, in qualche modo, produce, nell’individuo e nei corpi sociali, una “mutazione permanente e sempre uguale a sé stessa”. L’avvento “dell’Industria di Senso” è uno dei temi centrali dei quali la sinistra non ha compreso nulla.
Secondo tweet: siamo in presenza della costruzione di una nuova “Terra”. La metafora che voglio utilizzare deriva dall’astronautica. Quello che sta avvenendo lo chiamo: “Terraformattazione capitalistica del pianeta”. Questo ha riguardato e riguarda le risorse, il regno vegetale, quello animale e, ora, definitivamente l’umanità. Nel fare questo si sono alterati i cicli ambientali e le evoluzioni delle specie, intervenendo sul DNA. Assoggettati i viventi non umani a puri elementi del mercato del consumo. Si è iniziata la modifica della storia del codice genetico umano e si parla, direttamente, del “transumanesimo”, favorito dalla singolarità che si produrrà con il raggiungimento tra le capacità di calcolo digitale e quelle umane. La sussunzione formale del mondo nello schema capitalistico produce processi attraverso la virtualizzazione, processi di atomizzazione sull’individuo e passa alla sussunzione reale attraverso la marginalizzazione di tutto quello che non è matematizzabile. Tutto è basato, infatti, sui meccanismi di “matematizzazione del presente”: quello che non è matematizzabile diventa residuo. Questi processi vanno dalle sementi alla struttura cognitiva degli individui. Questa è la nuova accumulazione primaria che sta avvenendo nel pianeta.
Terzo tweet: il meccanismo della domanda e dell’offerta è, in termini tecnici, un feedback, cioè un sistema di retroazione che misura lo scambio. Questo misuratore ha un’efficacia limitata (come tutti i sistemi) e la sua efficacia diventa sempre più scarsa in funzione dell’aumento della complessità dei fattori produttivi e di scambio. Non posso sviluppare questo tweet per motivi di tempo, ma più aumentano le attese di valore d’uso tra gli individui, più questo meccanismo di feedback non è in grado di misurare il valore e, quindi, dimostra la sua obsolescenza. Come accennava Galbraith nel suo intervento, la complessità delle nuove strutture economiche allude alla possibilità di una “crescita negativa”, ma tale nuovo modello, che aprirebbe connessioni con temi come la decrescita, necessita di un nuovo strumento di feedback.
Quarto Tweet: io credo che la sinistra per restare tale e se vuole avere un futuro in questo secolo, deve riuscire a mantenere l’idea che il lavoro resta un elemento centrale, sia in termini di realizzazione del sé, sia in termini di produzione e redistribuzione della ricchezza prodotta. La sinistra si ri-fonda se reinterpreta la coppia: “realizzazione del sé” – “redistribuzione del valore prodotto”. Per mantenere il valore di questa coppia dobbiamo cambiare quasi tutto. Il lavoro deve essere pensato e gestito in modo diverso da come abbiamo fatto nel Novecento. D’altronde il lavoro è sempre stato storicamente determinato e mai uguale a se stesso (almeno dall’Era industriale) e quello del secolo breve non era certo “Il” lavoro, inteso come assoluto, anche se nel secolo scorso siamo riusciti a costruire tutele e a rivendicare il ruolo di “direttori di marcia” a partire dalla sua parzialità. Ci diceva Aldo Bonomi: il comando passa dai mezzi di produzione ai flussi. Questo significa che l’informazione e la comunicazione diventano il cuore della macchina produttiva – dalla produzione immateriale, ai processi di automazione per arrivare ai robot antropomorfi – e che elementi crescenti di pezzi di vita vanno a finire permanentemente nel sistema di produzione. Penso ad esempio, al tema dei big data. Dirò una cosa dopo su questo punto, ma vale la pena ricordare che stiamo parlando di un’estrazione di valore dai comportamenti sociali che valeva, nel 2012 11 miliardi e cresce al ritmo del 40% l’anno negli ultimi 3 anni. Questo è uno degli elemento su cui calcolare il “reddito di base umano” perché credo che sia un reddito non riconosciuto, un reddito che evidenzia una parte di quel “Lavoro Implicito”, che la nuova organizzazione del lavoro del taylorismo digitale ha introdotto e che la sinistra e gli economisti non hanno visto e non vedono.
La tesi che vorrei proporre qui è che questa trasformazione complessiva del panorama nel quale siamo inseriti, una trasformazione della geografia e delle strutture sociali, punta veramente alla costruzione di un uomo nuovo e di un nuovo “ambiente”, nei termini di produzione, di consumo, di modelli decisionali, di forme di relazione, di strutture cognitive. Appunto una “Terraformattazione”.
Credo che le mappe cognitive umane, con cui abbiamo fatto conto da quando è stata inventata la scrittura fino all’arrivo delle tecniche digitali, stiano per essere travolte. Su questo punto non avrò tempo di argomentare, ma è evidente che già la prima generazione digitale sta ben oltre le strutture cognitive dell’era della scrittura.
Credo che questo nuovo mix, produttivo, sociale e cognitivo, alluda sempre più al superamento delle forme decisionali delle strutture economiche e sociali esistenti, verso nuove e diverse forme di partecipazione e di decisione. La domanda che sorge spontanea, quindi, è se la partecipazione alla vita pubblica, sempre più mediata da nuove infrastrutture relazionali – digitali e tecnologiche – possa mantenere l’orizzonte della stessa democrazia rappresentativa come ultimo modello delle forme decisionali umane. Probabilmente no.
Il nostro dibattito a sinistra, però, rimane al di sotto dei cambiamenti in atto. Quando partecipo, ormai raramente, a dibattiti su “la crisi e la condizione del movimento” sento sempre parlare di sgravi fiscali, tassazione, debito pubblico, ecc… Tutte le tecnicalità del ciclo economico che abbiamo utilizzato fino ad oggi. Raramente sento parlare di quello che è oggi l’impatto tecnologico in termini quantitativi e, mai e poi mai, della sua “qualità nuova” dentro la struttura sociale e produttiva e le implicazioni cognitive e finalistiche della tecno-scienza. Sono contento che Galbraith, invece, abbia messo questa dimensione dentro la sua riflessione di carattere economico. Ricordo come abbia parlato di quattro elementi: la finanza, l’energia, l’esercito e la tecnologia. Credo che questo sia un bel quartetto dal quale partire per discutere.
L’osservazione di partenza che su questo elemento voglio fare è facilmente riassumibile: noi siamo in presenza della rottura di quella che è stata definita tanti anni fa la “automazione ricorsiva” o la rocrsività tecnologica”. Il fatto, cioè, che quando arriva una tecnologia nuova distrugge un posto di lavoro, ma ne produce due nell’industria che produce quella macchina. Questo aveva prodotto un equilibrio dinamico, da una parte l’aumento della valorizzazione del capitale, dall’altro l’aumento del lavoro salariato. Eravamo tutti contenti perché pensavamo ognuno di “ingannare l’altro” e di poter vincere questa battaglia alla fine. Le tecnologie digitali hanno rotto questo meccanismo, l’equilibrio dinamico non c’è più, stiamo dentro un cambio di paradigma con una nuova accumulazione primaria.
Questa nuova fase del rapporto tra capitale e lavoro può essere distinta, scusate la schematicità, in tre fasi: la prima, quando sono state introdotte per la prima volta le macchine a controllo numerico ed applicati ai computer ai primi lavori impiegatizi. La seconda: quando sono stati sviluppati i lavori relativi allo sviluppo della rete. Queste prime due fasi sono state caratterizzate da un grande schema che da quasi 20 anni chiamo il passaggio dal “taylorismo fordista” al “taylorismo digitale”. Parcellizzazione, cooperazione e controllo sono stati reinterpretati, estesi e rafforzati. Ove possibile sono stati smaterializzati e inclusi all’interno del software, diventando impalpabili, “oggettivi” e componente “naturale” della razionalità nuova del lavoro, della vita sociale. Si anche della vita sociale perché anch’essa avviene, in larga misura e in maniera crescente, all’interno della stessa infrastruttura tecnologica.
A queste due prime fasi stiamo assistendo oggi alla nascita della terza fase, la terza ondata del digitale, cioè all’impatto massivo e parallelo, sul lavoro e sulla vita. Sta emergendo una nuova forma dell’organizzazione del lavoro che sarà più pervasiva addirittura di quella sperimentata con il taylorismo digitale perché è generalizzabile all’intera sfera delle relazioni umane. Se la pruduzione è flusso, come dice Bonomi, e la stessa comunicazione interpersonale e sociale passa sempre più sui flussi possibili attraverso la tecnologia, le relazioni umane divengono sempre più isoformi allo schema lavorativo. Gli individui perdono la distinzione tra lo schema del lavoro e quello delle relazioni, tra il momento del lavoro e quello della vita.
Questa isoformità rende possibile mettere a lavoro la stessa vita, come la vicenda dei big data rende esplicito. Questa messa al lavoro della vita, che io appunto chiamo il “lavoro implicito”, non solo non viene retribuita, ma costringe gli individui a pagare con le loro tasche la possibilità di avere gli apparati necessari (PC, Tablet, smartphone e cellulari), a pagare la connessione alla rete e i costi energetici per far funzionare gli apparati e la formazione-addestramento necessari a gestire apparati, software, moduli on-line ecc…
Quello che non è dentro questo schema e, cioè, che non è, oggi, ancora matematizzabile – sia essa una parte materiale, sia una parte di lavoro vivo – viene vissuto come un male necessario non solo dalla logica di ingegnerizzazione produttiva, ma dallo stesso individuo quando lavora. Una parte della nuova solitudine operaia all’interno della linea produttiva (dal ciclo toyotista in poi), a mio avviso, è proprio nella percezione della transitorietà tecnologica del suo saper fare. Ma questo necessiterebbe di un convegno apposito. La finanza, il mercato smaterializzato delle monete, è lo schema principe di questo modello. Non è un caso che la prima grande applicazione della rete, dopo gli usi militari, sia stato proprio quello delle monete, ancor prima dello scambio delle informazioni e della comunicazione e che il primo accordo del nascente WTO riguardasse proprio la dimensione della rete TLC.
La terza fase, la nuova ondata dello sviluppo digitale, è caratterizzata anche da alcuni elementi nuovi, anzi nuovissimi, che travolgeranno anche quello che fino ad oggi, diciamo così, è rimasto ai margini. Alludo, ad esempio, alla apertura della fase dell’autoproduzione e dalla produzione, diciamo così, slegata al circuito industriale, quella legata alle macchine automatiche come quelle della 3D. Oggi, infatti, auto, merci, cibo, case, organi da trapiantare, in qualche modo iniziano ad essere producibili dentro i nostri appartamenti o dentro piccole botteghe artigiane che trasformeranno in maniera definitiva l’impianto industriale in pochissimi anni. Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, in un citatissimo saggio “Race agains the Machine”, pubblicato negli Stati Uniti alla fine del 2011, affermano che l’impatto di queste nuove ondate tecnologiche, che arriveranno nel sistema produttivo, espellerà negli Stati Uniti il 40% del lavoro manifatturiero entro il 2020. Non so cosa potrebbe accadere qua da noi, visto che nessuno si sta occupando di queste questioni nel nostro paese, né a sinistra, né a destra, né nel settore industriale, né in quello accademico. Vi dico, però, quello che sta accadendo nelle singole imprese: software come Eliza o Blue Prism, ad esempio, che sono dei programmi che sostituiscono i famosi lavoratori precari dei call center, già oggi consentono di tagliare posti di lavoro in maniera incredibile. Un’azienda telefonica, lo scorso anno, attraverso l’introduzione dell’applicazione Blue Prism, ed è la prima che io ho intercettato, ha cancellato 45 persone, passando da un costo del lavoro di 1 milione e 300 mila euro l’anno a 100 mila euro di investimento sul software. Ha sostituito quelle 45 persone con un software e 12 ingegneri neolaureati. Un saldo negativo di 33 persone con un aumento della capacità produttiva sia in termini quantitativi sia in termini qualitativi. Per non parlare di Baxter. Non so chi conosce questo robot – che è anche un robot antropomorfo – ma che, soprattutto, è in grado di essere programmato e riprogrammato in maniera semplice da un qualunque operatore direttamente sul tavolo di lavoro. Si dice riesca a svolgere tra il 70 e l’80% delle mansioni manuali su una linea produttiva e il suo costo, 22 mila dollari, corrisponde a 2 mesi di lavoro vivo in un ciclo h24. La Foxcon, che è la più grande industria manifatturiera del pianeta con 1 milione e 400 mila dipendenti ha acquistato, prima della scorsa estate, 1 milione di Baxter, con l’intento di sostituire un numero imprecisato di lavoratori.
Lo schema al quale stiamo assistendo slitta dal lavoro salariato verso il lavoro a basso costo e verso i processi massicci di automazione “del possibile”. All’interno di tale impostazione strategica, l’ipotesi produttiva (e sociale) a cui lavora, per l’oggi, una parte preminente del “capitale” sembra riassumibile in uno schema tripartito: il minor numero possibile di lavoratori a tempo indeterminato con un contratto che sia il più leggero e destrutturato possibile; un grande numero di persone “precarie”, “flessibili” utilizzate nei gangli che il sistema non è ancora capace ad automatizzare o a ingegnerizzare stabilmente; una terza parte definitivamente espulsa dal ciclo produttivo e relegata a salari di sopravvivenza. Molte delle politiche sociali europee e anche quelle di una parte della sinistra, tendono ad assecondare tale impostazione.
Tutto questo e vengo alla chiusura ed alla proposta, può essere arginato soltanto se noi cominciamo a fare qualche cosa di diverso da quello che abbiamo fatto fino ad oggi. Alcune cose sono del vecchio armamentario, altre sono completamente nuove.
Primo: se si pensa che il lavoro deve servire alla redistribuzione della ricchezza, nell’era della robotizzazione bisogna avere il coraggio di dire che la riduzione di orario generalizzata e a parità di salario, una riduzione reale, consistente, un abbattimento verticale dell’orario di lavoro è ormai un elemento imprescindibile. Altrimenti si va alla società dei tre terzi, dove pochi lavoreranno e molti saranno in sussistenza. Da questo punto di vista credo che ci voglia un salto politico e culturale che la sinistra deve riuscire a mettere in campo, serve questa dimensione a livello almeno europeo, serve una capacità di contrattazione nell’organizzazione del lavoro nell’era digitale. Non si può continuare a contrattare esattamente come abbiamo fatto negli anni ’60, ’70 e ’80. Noi dobbiamo contrattare l’ingresso di questa nuova generazione tecnologica nel sistema produttivo. O facciamo questo o la sinistra viene cancellata da questo secolo. O noi, sia sul piano politico che sul piano sindacale, siamo in grado di intercettare, oggi, l’ingresso di questa nuova generazione tecnologica nella produzione e nella società, oppure non saremo più qui a discutere, saremo finiti. Saremo stati gli ultimi che discutono di un progetto autonomo e, forse, addirittura umano.
Per fare questo credo che, ad esempio, l’agenda digitale di cui l’Europa si è dotata vada piegata a questo obiettivo, non a, diciamo così, agevolare l’ingresso delle tecnologie come se fossero neutre, ma ad inserire queste tecnologie dentro un piano sociale e politico.
Accanto a questo credo che noi dovremmo avere il coraggio di lavorare per la demercificazione di pezzi crescenti di elementi necessari alla vita. Oggi è possibile farlo in modo più radicale e pervasivo di ieri. Queste tecnologie 3D, per portare un solo esempio, consentono oggi di riorganizzare il livello della produzione esattamente sul livello del valore d’uso e su un livello di bisogni più consapevole e maturo. Oggi possiamo immaginare di poter rompere lo schema industriale che abbiamo vissuto fino ad oggi. Ma per fare questo ci vuole in qualche modo una capacità politica di produrre il terreno sul quale questo si rende possibile. Credo, infatti, che oggi sia possibile affettare pezzi di PIL e farli uscire fuori dall’area del mercato. Produrre, quindi, gestioni sociali, scambi extra mercantili e processi di demercificazione che possono andare a creare delle vere e proprie zone di relazione (economiche e sociali) che io chiamo “Zone Definitivamente Umane”, cioè aree definitivamente fuori dalla logica del capitale.
Questo oggi è possibile perché con la rete è possibile dare un nuovo senso a parole antiche. Cooperazione, autogestione, condivisione, consapevolezza, competenza, autonomia, sono, oggi, reinterpretabili per la generazione digitale che non sente più le parole della sinistra. C’è, in qualche modo, la possibilità di aggiornare anche il nostro lessico e la nostra proposta, connettendolo ai cuori di una generazione che si affaccia oggi alla vita.
Ultima cosa, mi dispiace, avevo altre cose da dire ma il tempo è tiranno. Credo che per la sinistra sia giunto il momento di riprendere il cammino della costruzione di pratiche e organizzazioni autonome che sappiano confrontarsi al livello delle innovazioni che il Capitale produce. Questo riguarda l’aspetto produttivo (rilanciare le formule della cooperazione e reinterpretarle alla luce delle esperienze concretamente operanti nei settori dell’innovazione come il co-working), gli aspetti relazionali (sostenendo le pratiche di nuove forme di gestione sociale che la rete mette a disposizione (penso ai coordinamenti possibili e agli scambi sulla gestione intelligente dei tessuti urbani che sono cosa ben diversa dalle smart cities lanciate dalle multinazionali); penso alle possibili forme di trasmissione culturale (basate sulla autoproduzione, la condivisione gratuita e le forme alternative dei diritti di copyright); penso alle possibilità di costruire una moneta mondiale alternativa autogestita. In questi giorni è alla ribalta BitCoin, una moneta elettronica creata nel 2009 da un anonimo conosciuto con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto. Le autorità americane ne hanno riconosciuto il valore affermando che offre un “servizio finanziario legittimo”. Al di là dell’importanza dell’esperimento (BitCoin è una piattaforma “open” che non ha un centro di comando e usa un database distribuito tra i partecipanti per determinare i meccanismi dello scambio), quello che sarebbe fondamentale è che la sinistra uscisse dalle discussioni su come è fatto l’Euro o il Dollaro, sul ruolo della BCE e simili, per affermare di voler prendere in mano il destino del pianeta costruendo una moneta dal basso, autogestita e riconosciuta a livello internazionale.
Oggi è possibile proporre la nascita e la creazione di una moneta internazionale alternativa. Partendo da strutture come il Forum Sociale Mondiale che coordinano migliaia di associazioni, coordinando il ruolo delle 5000 monete integrative che oggi esistono nel mondo.
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