Il pianeta, il lavoro e la crisi

L’insufficienza delle politiche congiunturali per uscire dalla crisi

Luciano Gallino nel suo articolo per il quotidiano La Repubblica avanza alla politica (non solo nazionale) il tema dei temi, come affrontare, cioè, la crisi attraverso un prisma, quello su cui si basa la nostra Costituzione: il lavoro. Il tema sembra essere o dato per scontato o oscurato. Come se il lavoro fosse una funzione dipendente della moneta e che le sue condizioni di svolgimento (salario, diritti, pensioni ecc…) fossero non il punto di partenza della vita di una collettività, ma una derivata delle necessità del ciclo della finanza.

Nel dibattito “economico” che riempie i giornali, la Tv e anche la rete ci si ferma solo a parlare delle vicende legate al dibattito finanziario, agli equilibri da raggiungere, alle regole che dovrebbero garantire un sistema monetario “sano”. Per fare un parallelo con l’agricoltura è come se un contadino parlasse di quali ceste devono essere usate per raccogliere la sua uva, la loro grandezza, la loro robustezza, la loro quantità. Ma dimenticasse, drammaticamente di discutere delle proprie piante, del loro stato di salute, dei parassiti, della quantità di braccia necessarie per fare il lavoro durante l’anno e nei giorni della raccolta.

Nel dibattito politico sembra essere avvenuta una sorta di inversione di prospettiva, un ribaltamento della logica con la quale andrebbero affrontati i problemi. E, infatti, i problemi non si risolvono, anzi. Nell’articolo di Gallino si denuncia, giustamente, l’aggravamento della condizione della produzione e un impoverimento reale delle nostre società.

La proposta di Gallino mi sembra importante per ribaltare la logica della discussione in corso: passare dal dibattito su la “BCE come prestatore di ultima istanza”, stampatore di banconote necessarie a garantire il meccanismo della finanza (e continuare a trasferire ricchezza in poche mani) alla più nobile funzione di pensare allo “Stato come datore di lavoro di ultima istanza” o Job Guarantee, come molti economisti stanno iniziando a chiamarla. Una idea che inizia a circolare negli ambienti economici che cominciano a risvegliarsi dalla sbornia neo-liberista di questi decenni. Credo che questa sia una necessità vera e una proposta da discutere realmente nella prossima campagna elettorale.

La sua proposta, accompagnata da un nuovo livello di tutele per chi non riesce comunque a trovare un lavoro (sul terreno ci sono varie ipotesi) sembrano rappresentare il “programma minimo” per affrontare l’emergenza. Ma non sono sufficienti, a mio avviso, né a raccogliere, nel mondo del lavoro, consensi “strategici” (che vanno cioè nel senso di una prospettiva nuova di società) né  a garantire una prospettiva economica per i prossimi decenni. Infatti, un intervento del genere, senza un ripensamento strutturale di come si produce, di cosa si produce e del perché lo si fa, non avrebbe il fiato lungo per resistere. Le tre questioni declinate in inglese, curiosamente, rappresentano tre delle cinque W  delle regole della buona produzione di informazione. E alludono, paradossalmente all’acronimo più importante degli ultimi 20 anni: il WWW di internet. Ma questo sembra solo una coincidenza.

La sinistra non può fermarsi alla prescrizione di una tachipirina per far scendere la temperatura sulla crisi del lavoro. Questo è un intervento in emergenza, ma occorre capire le cause di fondo della crisi strategica e predisporsi agli interventi necessari. L’intervento per affrontare l’emergenza va fatto, quindi, ma non può esaurire l’orizzonte della proposta. Certo, meglio spendere per salvare il lavoro che gli azionisti delle banche. Ma possiamo fermarci qui? Può essere questo l’orizzonte della sinistra di questo secolo? Sarebbe miope, infatti, pensare che da questa crisi si possa uscire con manovre congiunturali, con manovre che intervengano a lenire i disagi, “tanto, prima o poi, il ciclo economico dovrà riprendere e tutto tornerà a funzionare più o meno come prima”. Una sinistra che si fermi a questo si condanna all’auto-estinzione.

Il tema, infatti, va reso più complesso, come pure le ricette necessarie ad uscire realmente da questo tornante della storia, mantenendo in vita tutte le ragioni per cui la sinistra è nata, e restando fedeli alla sua missione: quella della liberazione umana dallo sfruttamento e per l’autodeterminazione delle persone e dei popoli. Per fare questo, allora, dobbiamo comprendere che la storia del lavoro è arrivata ad una svolta. Dopo i primi due o tre decenni di introduzione delle macchine automatizzate nel ciclo produttivo, siamo alle soglie di un loro salto di qualità. Chi si occupa di produzione sa che le proiezioni dell’impatto occupazionale della nuova generazione tecnologica sarà devastante. In un paese, gli USA, non tecnologicamente arretrato come il nostro (ricordiamo che secondo la Bocconi i nostri impianti sono stati mediamente installati a cavallo del biennio 1995/1997 e che, quindi, rappresentano il nostro vero spread) si parla della riduzione del 40% degli occupati nel settore manifatturiero nei prossimi 10 anni per l’impatto dell’innovazione tecnologica digitale. Immaginiamo per un attimo cosa accadrà nel nostro Paese quando la nuova generazione di apparati produttivi sarà installata nella nostra economia. Il rischio che si preannuncia è quello di un mondo del lavoro diviso sostanzialmente in tre parti: una prima “occupata”, con pochi diritti, sotto il ricatto dell’esercito di senza lavoro, con salari bassi e con pochi limiti orari; la seconda impegnata in lavori nel terziario, nei servizi o nell’artigianato, in genere precaria, con contratti a tempo, salari da sopravvivenza e assenza di tutele reali; l’ultima senza neanche più la voglia di cercare un lavoro o una formazione, una fascia ampia più o meno tutelata da sussidi sotto il livello di povertà.

Questa sembra essere la prospettiva che avanza. A questo quadro “lavorativo” va aggiunto il dato che da questa crisi non si esce con l’idea tout court di un nuovo rilancio della produzione. Sappiamo, dalle notizie che ci arrivano dalla devastazione di Sandy a New York, che ormai il tempo per tentare di evitare la catastrofe ambientale è agli sgoccioli, se non addirittura finito. La presunzione di ignorare questi dati e pensare che la soluzione di questa crisi sia nel far riprendere i livelli occupazionali basandoci sull’aumento della produzione delle merci che comporti il recupero delle attività finanziare “corrette”, è una visione miope di cui le generazioni future ci chiederebbero il conto.

Il quadro, quindi, è molto più complesso e difficile. Certo, vedere il dibattito politico italiano sostanzialmente fermo alla vicenda della corruzione (come sistemare la vicenda dei corrotti, che andrebbe sistemata di default, fosse la soluzione di tutti i problemi) e della semplice correzione di questa o quella spesa del bilancio pubblico (cosa sacrosanta e giusta, anche con implicazioni generali importanti, ma che non affronta il tema qualitativo della crisi che stiamo vivendo) appare veramente deprimente.

La sinistra è l’unico luogo ove questo dibattito può prendere piede, mettere radici, far crescere la pianta della politica di cui l’umanità ha bisogno ora. Ma deve fare un salto, produrre una discontinuità. Le primarie dovrebbero servire anche a questo.

 


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