Un appuntamento storico per la sinistra e la politica italiana
Il 2013 sarà l’anno zero della politica italiana. La crisi del nostro paese, infatti, sta giungendo ad un suo punto di svolta. La crisi della forma dei partiti che hanno contrassegnato la vita di quella che è stata chiamata seconda repubblica sta diventando la crisi della nostra democrazia. In pochi mesi, tutto cambierà. I confini e i contenuti delle forme politiche organizzate saranno travolti dalla incapacità della proposta politica di aderire ai processi reali che attraversano le nostre società contemporanee.
La sinistra rischia di essere definitivamente cancellata per mancanza di capacità prospettica. Il nostro sguardo è troppo condizionato dalle formule economico-sociali nelle quali eravamo “forti” e rischiamo di essere cancellati dalla velocità e qualità dei nuovi processi. Manca una lettura dei processi economici adeguata a fuoriuscire dalla strettoia monetarista. Manca una lettura dei processi produttivi che sappia fare i conti con le innovazioni che si stanno producendo nel mondo del lavoro. Manca una lettura delle forme delle relazioni umane che stanno costruendo diverse modalità di stare insieme, partecipare e decidere. Manca un gruppo dirigente che sappia mettere all’ordine del giorno la materialità della crisi con uno sguardo sul futuro possibile in termini di “innovazione” e non di “riproposizione”.
Per restare “fedeli” e “ancorati” alle idee di eguaglianza, liberazione, cooperazione, condivisione e autodeterminazione umana, oggi, dobbiamo avere il coraggio di nuove idee, di nuove prassi, di nuove forme di organizzazione. È tempo di smettere di rimpiangere il passato e di guardare a quello che potremmo essere e non a quello che siamo stati.
Per questo credo che il tema centrale, ancora una volta, sia avere chiaro su quale pilastro poggiare il processo di “liberazione”. Io penso che il lavoro sia ancora il centro della sinistra. Le persone devono poter contare su un processo di autonomia personale che sia radicato sul piano politico e non puramente garantito sul piano etico. Se non cambieremo le nostre modalità di conflitto, i nostri obiettivi sindacali, se non avremo la capacità di indicare un orizzonte di liberazione del lavoro dalla forma che sta prendendo, nei prossimi anni, l’impatto delle tecnologie digitali sulla forma del lavoro e della produzione sarà devastante. Quello che negli ultimi 20 anni è stato un semplice “assaggio” delle trasformazioni del ciclo produttivo sta per diventare dirompente. Sia sotto il profilo “quantitativo” sia sotto quello “qualitativo”. Sul piano “quantitativo” l’impatto delle nuove macchine robotizzate farà aumentare la capacità produttiva degli impianti, aumenterà la flessibilità della produzione, ridurrà enormemente l’occupazione necessaria. Le implicazioni di tali processi saranno epocali. Nell’apparato produttivo USA si è calcolato che entro la fine di questo decennio le innovazioni faranno scendere del 40% la necessità di manodopera nella manifattura. Dal punto di vista “qualitativo” le trasformazioni saranno ancora più epocali, con il passaggio del lavoro dalla realizzazione materiale di una merce al controllo dei macchinari che producono l’oggetto attraverso interfacce digitali. Questa gestione della remotizzazione di macchinari spingerà i lavoratori a “pensarsi” sempre più come “lavoratori della mente” e non delle “braccia”, rivoluzionando la percezione del Se, sia come individui che come appartenenti alla classe. Le persone che resteranno nei segmenti ancora non investiti dall’automazione, saranno sempre di meno, meno capaci di organizzarsi in difesa delle vecchie forme dei diritti, e percepiranno loro stessi come “residui”.
Non possiamo affrontare questo tornante storico della vita umana pensando alla forma del lavoro così come la immaginavano i nostri bisnonni nell’Ottocento.
Loro un orizzonte l’avevano costruito e furono in grado anche di conquistarselo. Le otto ore di lavoro, le otto ore di vita e le otto ore di riposo furono un grande motore di trasformazione epocale. Oggi dobbiamo andare oltre, dobbiamo saper indicare al mondo intero che la nuova fase della vita umana del pianeta deve essere affrontata con uno slancio diverso, con una prospettiva nuova che sia al contempo “quantitativa” e “qualitativa”. Questo prospettiva deve valere sia per il lavoro sia per il suo scopo e, cioè, la “liberazione” del singolo individuo e della collettività umana. Ma tutto questo oggi non basta più, dobbiamo interrogarci su che cosa dobbiamo e possiamo produrre , e il suo perché. Oggi sappiamo, infatti, che non c’è salvezza nello sviluppo senza criterio, senza limiti, senza comprendere che siamo un tutto con il nostro pianeta, la sua vita, i suoi cicli fisici e ambientali.
La sinistra di questo secolo non può fermarsi alla sola, necessaria, legittima ma insufficiente, richiesta di una più equa redistribuzione. È l’intero ripensamento della vita umana che la sinistra deve saper rilanciare, con tutte le sue inevitabili potenzialità.
Il 2013 sarà l’anno zero della politica italiana, dicevo. I campi politici, sia a destra sia a sinistra, si dovranno riorganizzare. Questo potrà avvenire o attraverso l’aggregazione intorno ad un “nome salvifico” o intorno a opzioni generali. Questo è il primo discrimine per misurare se stiamo uscendo dal berlusconismo o meno. Il berlusconismo, infatti, non è stato semplicemente il governo Berlusconi, ma la trasformazione della politica italiana in teatrino dei personaggi, una trasformazione in grado di mettere il silenziatore alla possibilità di prendere la parola, di organizzare una società densa, partecipata. È stato la trasformazione della politica in “tifo”. Il declino italiano è molto figlio di questa deriva a cui l’intera società deve mettere riparo.
Per nostro conto dobbiamo discutere di come riorganizzare il nostro campo, invertendo l’ordine di discussione che impera oggi e che ci costringe a parlare di gruppi dirigenti e non di opzioni di fondo, di confrontarci sulla cultura politica, sugli obiettivi a breve, a medio e a lungo termine senza restare schiacciati dalla logica del tifo e dalle vecchie regole di appartenenza. In altre parole, dobbiamo ricostruire il “senso” del nostro fare politica. Su questo punto, sulla costruzione del “senso” del nostro fare, infatti, oggi siamo tutti condizionati dall’industria dei media che detta l’ordine del giorno del dibattito, attraverso la trasformazione in “spettacolo” della realtà (anche della realtà politica), unica merce che riesce a “vendere” attraverso i suoi canali. Questa è l’immensa eredità del Novecento, l’esistenza di una “industria del senso” che lavora permanentemente alla costruzione del “senso” sociale, una novità con la quale la sinistra non ha saputo fare i conti.
Qui sta l’opzione di un tentativo di far mettere nuovamente le radici alle idee di “liberazione umana”. Nuova analisi, nuovi conflitti, nuovi obiettivi. L’anno Zero della politica italiana può e deve diventare l’occasione per ripartire.
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