Non sapevo se farlo o no. Questa Prefazione è una prefazione scartata, dopo un lungo dibattito tra me e Marcello Cini, prima della pubblicazione de Lo Spettro del Capitale, scritto a quattro mani con lui. La conclusione, non so quanto per scherzo o no, fu che avrei potuto farla uscire dopo la sua morte. In quel momento mi sembrò una totale bocciatura, forse lo era.
In questi tristi giorni, però, ho pensato più volte a cosa fare: pubblicarla o lasciarla nel cassetto?
Dopo quasi una settimana ho deciso di pubblicarla. Forse solo per sentirmi più vicino al suo ricordo, forse per rispettare quella sua battuta, forse per un gesto di piccolo egoismo e sentirlo ancora disponibile al confronto/scontro.
Quindi, ecco quello che avevamo scritto e poi non abbiamo pubblicato. Fatemi sapere cosa ne pensate. Sarà anche un modo per ricordare Marcello.
Grazie.
Prefazione a Lo Spettro del Capitale. Per una critica dell’economia della conoscenza
Un altro spettro? Un nuovo spettro? Un diverso spettro? Lo stesso spettro?
C’è, dietro la scelta di questo titolo, il filo rosso di una ricerca, che poggia su una consapevolezza e propone una traccia al lettore, che poi è una traccia politica.
La consapevolezza, che vogliamo socializzare, è che tutto il percorso di Marx sia un percorso puramente “politico”, un percorso alimentato dalla volontà di produrre “movimenti sociali”. Molti, in questo secolo e mezzo, hanno esaltato le doti “scientifiche” di Marx, vedendo in lui o un grande filosofo o un grande economista e, quasi in maniera tangenziale, un politico. Per noi Marx è in primo luogo un politico, ma un politico in “sintonia” con le grandi novità del suo tempo, a partire da quelle delle grandi narrazioni scientifiche. Quelli sono gli anni nei quali la stessa comprensione della natura umana passa dalla “scintilla divina” all’“Evoluzione della specie”. Tutto diviene frutto (e diviene descrivibile) attraverso una scienza. E la potenza di tale novità contagia fortemente Marx al punto di far poggiare la necessità della trasformazione non più sulle categorie della bontà versus la cattiveria del singolo individuo o della giustizia contro l’ingiustizia, animata da un qualsiasi riferimento “etico” alla uguaglianza o alla fratellanza frutto di una idea. Questi sono elementi già presenti e radicati nelle dinamiche della Storia, ma che lui giudica non in grado di produrre la liberazione intesa come realizzazione del sé dell’individuo. Per questo Marx vuole basare la “necessità” della trasformazione su elementi che nascono dalle oggettività dei processi (e, quindi, meno sottoposti alle singole volontà degli individui). Il suo sforzo si baserà tutto nel tentativo di svelamento dell’oggettività contenuta nella forma, nella “dinamica”, nel “meccanismo” automatico che il capitalismo rappresenta. Uno svelamento in grado di vincere, secondo l’ipotesi marxiana, per “convincimento”. Un convincimento non “filosofico” o “morale”, ma scientifico. Per far ciò utilizzerà gli schemi che la scienza del tempo gli metteva a disposizione, con le sue logiche e la sua cultura, ma senza averne una vera capacità critica e, soprattutto, senza poter sapere che di lì a pochi anni l’intero impianto di quella scienza sarebbe stato s/travolto aprendo alla conoscenza umana un capitolo nuovo e inaspettato. Senza poter immaginare che proprio le persone che sul terreno della politica avevano basato il loro percorso sulle sue analisi, si sarebbero opposte alle novità della scienza del ‘900, rifiutandole sulla base di ciò che presumevano di aver capito dai sui scritti.
La traccia che il libro propone al lettore è che per restare in sintonia con l’opzione marxiana – l’idea della trasformazione come processo di liberazione che mira a costruire l’uomo consapevole attraverso uno sviluppo e non come opzione idealistica e/o etica – occorre abbandonare molte delle cose fatte/dette da Marx. In primo luogo, occorre comprendere il significato profondo che implica il definitivo superamento dello schema scientifico che era disponibile ai tempi di Marx. Lui è vissuto nell’era del trionfo della meccanica, oggi siamo nell’era della termodinamica (se vogliamo usare lo schema della scienza fisica) o della biologia. Questo significa che le logiche sottese, sia nel campo della analisi-comprensione, sia in quelle dell’organizzazione-azione, devono guardare alle scienze della complessità e non più agli schemi meccanici di azione-reazione. La stessa struttura del capitalismo è mutata innervando di sé logiche e territori nuovi, una cosa che Marx aveva compreso che sarebbe accaduta, ma che nel processo reale di sussunzione ha prodotto stravolgimenti imprevedibili che hanno modificato loro stessi, i loro ruoli e la stessa forma del capitalismo sussumente. Le contraddizioni sono esplose, ingoiate, digerite e riprodotte incessantemente. Nulla sarà più come prima, restando tutto sotto il sole della logica della coppia domanda-offerta. Detto in altri termini il capitalismo è più un “vivente” che uno “schema”, un vivente che ha nel suo DNA la forza riproduttiva, un DNA potente, flessibile e adattivo.
I processi della liberazione umana, dell’emancipazione, della consapevolezza, dell’auto-governo, allora, non sono più scrivibili con lo stesso inchiostro, con la stessa grammatica utilizzati da Marx, ma devono essere più flessibili, più creativi, più evolutivi. Per tornare alla metafora marxiana del manifesto, dovrebbero essere più Spettri che divisioni militari.
Sembra, quindi, che la storia (con la “s” minuscola) di chi tenti di fuoriuscire, con o senza esodi, dallo schema della rappresentazione della Storia (con la “S” maiuscola) come luogo dei potenti e provi a farla divenire concretamente quel processo reale e materiale, del fare e del pensare, di miliardi di singole vite sperdute su di un pianeta, non possa che incontrare Spettri. Spettri come “rappresentazioni” eteree di ciò che la realtà in concreto è, e di quello che potrebbe essere e non è.
Certo, sul tema e sulla potenza della “rappresentazione” nelle società contemporanee chi oggi, come noi, si pone il problema della trasformazione della società dovrebbe improvvisare meno, comprendere che la capacità di costruzione del “senso della vita” non è più un fattore lasciato alle “dinamiche” sociali, ma “coevolve” all’interno della società in strutture complesse, ove i mass media e i new media svolgono ruoli impensati solo pochi decenni or sono. Per questo l’analisi della fase immateriale del capitalismo risulta più importante di quanto non dicano le dinamiche sociali o economiche. Per questo il movimento della trasformazione non può non tenerne conto, ma non riproducendo lo schema prodotto con la produzione materiale. Allora la figura dello Spettro ci serve per attraversare i processi con la necessaria velocità e capacità di bassa interferenza e comprenderne lo “spirito”.
Spettro come capacità anticipatoria, quindi, esattamente come era, a nostro avviso, l’idea dello spirito marxiano del Manifesto.
Marx scrive il manifesto dei comunisti come anticipo. Il suo è un mondo contadino, fatto di persone che vivono ancora in schemi sociali e culturali più vicini alla servitù della gleba che allo sfruttamento industriale. Le inaudite sofferenze sono ancora frutto dei retaggi del passato più che dello sfruttamento del futuro. Ma lui sa intravedere attraverso quei corpi in sofferenza – proprio come uno spettro capace di attraversare le cose e appropriarsi del loro senso – la strada di un processo di liberazione generale, un processo che non poggia, però, su quelle loro sofferenze largamente maggioritarie, ma su quelle che stanno spuntando qui e là nella sua Europa e che sono sofferenze minoritarie, ancora sporadiche, sconosciute ai più. Marx comprende che il grande processo di liberazione germoglierà nel cuore della fabbrica e non sopra i campi da arare. Sembra scontato, oggi, con il ‘900 alle spalle, ma non lo era a metà dell’800.
Lo spettro della necessità del cambiamento è fatto di corpi e di visioni, dunque. Coesiste, in Marx, un qui ed ora e una forte e lucida capacità/volontà anticipatoria. Nessuna indulgenza verso la conquista di facili consensi tra i diseredati del momento. Per liberarli, lui sa, c’è bisogno di anticipare i processi, studiare le dinamiche del nuovo in divenire, essere capaci di andare controcorrente, muoversi leggeri, veloci e irrefrenabili. Inarrestabili. Cosa meglio dell’idea di Spettro può racchiudere il senso di tale mobilità?
Allora ecco “Lo Spettro del Capitale”. È, al contempo, la voglia di afferrare lo spettro di quel processo complesso che è stato chiamato capitalismo – con un occhio ai territori di confine, quelli in cui la scienza della complessità ci ha insegnato si producono le innovazioni che proveranno a divenire fattori egemoni del nuovo quadro in divenire – ma anche della prima grande critica sistemica che esso ha avuto, quel laboratorio chiamato “Il Capitale” che resta il monumento a quella volontà politica di trasformazione che Marx aveva tratteggiato nei lavori preparatori dei Grundrisse. Un titolo, il nostro, che è anche una sorta di grimaldello per riferirci alle necessità dell’oggi. Vogliamo utilizzare questa categoria come un algoritmo capace di regalarci ciò che i nostri sensi e la nostra capacità di comprensione ci negano: una sintesi che sia in grado di metterci nelle condizioni di raccontare il senso profondo dei fatti, senza indulgere verso processi riduzionistici. Ri-metterci nella possibilità di avere parole per le cose che accadono. Un racconto utile a dare un nome a ciò che accade, a dare un volto a ciò che ci circonda, ma restando aperti al senso che esso produce in chi ascolta ogni volta che raccontiamo la versione più aggiornata di ciò che abbiamo compreso.
Sappiamo che questa rappresentazione è fallace proprio perché il riduzionismo non è più utile nell’era della complessità. Per descrivere la complessità della realtà, dovremmo costruire un algoritmo dalle dimensioni analoghe alla realtà stessa. Un lavoro improbo e inutile. Né è più sufficiente la riduzione propostaci un secolo e mezzo fa da Marx. Lui era consapevole della fallacia della sua semplificazione, ma provava ad argomentarla finemente percependo che la struttura reale non avrebbe potuto descriverla nessuno e che il suo fine politico, la grande rivoluzione umana, avrebbe giustificato anche qualche incongruenza teorica.
Ora noi, nel nostro tempo, possiamo permetterci di essere consapevoli di cose che non potevano essere comprese allora e anche del divenire rapido e incessante dell’evoluzione del quadro, una velocità tale da scoraggiare lo stesso sforzo di fotografare il processo. Per questo, semplicemente, abbiamo fatto allusione alla possibile comprensione che lo Spettro ha accumulato nel suo girovagare etereo. Per questo ci facciamo una domanda, la stessa che pose a se stesso e a tutti noi Derrida, “possiamo rivolgerci al fantasma per interrogarlo?”
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