Compito della sinistra di domani è di cercare nel lavoro il futuro perduto. Il Presidente Prodi, in un importante fondo su Il Messaggero di qualche giorno fa, ha messo in evidenza un punto centrale per la politica dei prossimi anni: la distribuzione della ricchezza prodotta attraverso il lavoro.La qualità nuova dell’innovazione tecnologica (quella introdotta dalle tecnologie digitali specifico io) pone alla politica problemi enormi e in larga misura tralasciati dal dibattito quotidiano.
Egemonizzati dalla cultura monetarista, tutti siamo abbagliati dall’andamento degli indici e ci occupiamo del lavoro solo per denunciarne o la sua perdita (come se fosse possibile con una bacchetta magica tenere aperte le fabbriche) o la sua povertà (sia in termini di garanzia di reddito per consumo sia in termini di realizzazione personale). Prodi sottolinea come nei prossimi anni, a partire dalla auspicata ripresa economica per la quale l’intera Europa discute ferocemente, il lavoro subirà una radicale e storica trasformazione. La novità con la quale non si è fatto i conti (soprattutto a sinistra) è che l’introduzione delle tecnologie digitali nel sistema produttivo industriale “consuma” posti di lavoro e aumenta a dismisura la capacità produttiva degli impianti. La tendenza non è nuova, ma fino ad oggi è rimasta oscurata da molte analisi compiacenti. Quello che è nuovo in questi ultimi due o tre anni, però, è l’impatto “parallelo” che non riguarda più solo alcune filiere produttive, ma viene generalizzato con effetti dirompenti in tutto il pianeta. In Cina i proprietari della Foxconn, la più grande industria del pianeta che occupa da sola oltre 1 milione di operai, ha annunciato prima e sta realizzando ora, un piano per l’introduzione di un ingente quantitativo di robot con lo specifico obiettivo di ridurre la forza lavoro di un decimo entro il prossimo anno. Secondo alcune proiezioni l’innovazione tecnologica e lo sviluppo di robot sempre più sofisticati ridurranno il fabbisogno di posti di lavoro nel settore industriale di 50 milioni di persone nei soli Stati Uniti (il 40 percento della forza lavoro). Due studiosi di economia e ICT di fama mondiale come Brynjolfsson e McAfee ritengono, nel loro e-book Race agains the Machine, che ciò avverrà nel corso dei prossimi 10 anni. La tendenza, quindi, sembra consolidarsi sia nei territori ad alto reddito sia in quelli a basso reddito. Una volta finita la possibilità di trovare manodopera a più basso costo nel paese più povero, delocalizzando ed esternalizzando, il processo della globalizzazione restituisce una omogeneità di indirizzo: l’automazione spinta come fattore di moltiplicazione della capacità produttiva, di abbattimento di conflitto sociale, di ripresa totale del comando di impresa. Il lavoro vivo rimanente pensato (e vissuto) come residuo. Per troppi anni le varie forze di sinistra hanno girato gli occhi di fronte a ciò che sarebbe inevitabilmente arrivato… ed ora il presente ci fa più paura perché non abbiamo risposte di fronte alle novità che avanzano.
Il vero tema del dibattito economico, a mio avviso quindi, non dovrebbe incentrarsi sul ruolo della moneta e della finanza che dovrebbero ritornare ad essere “sussidiari” del processo produttivo. Ma per farlo occorre una proposta di nuova generazione per la produzione, sia in termini di finalità, sia in termini di regole sociali. Il tema “strutturale”, allora, è la forma nuova del lavoro. Per comprenderla meglio è utile un artificio logico, una estrapolazione della “tendenza”, tanto per capire verso dove stiamo velocemente andando. Se l’orientamento è quello di arrivare alle “fabbriche buie” quelle cioè a completa automazione (esempi delle quali cominciano a essere frequenti anche nel nostro territorio nazionale) possiamo accontentarci di mantenere il lavoro vivo solo nei settori di cura o quelli artigianali o quelli della creatività? Una simile composizione sociale sarebbe molto lontana da quella del Novecento e si baserebbe su squilibri giganteschi e una forte componente di disoccupazione strutturale. Ma la domanda che voglio porre non è relativa al quadro “sociologico”, ma a quello politico-economico: in una tale società come redistribuiremo la ricchezza? Se il lavoro nella produzione delle merci venisse “cancellato”, con quale forma alternativa potremmo garantire la circolazione e la distribuzione della ricchezza prodotta?
Già oggi il vero spread che caratterizza il sistema produttivo del nostro paese non attiene al debito accumulato (USA e Giappone non hanno una situazione migliore della nostra). Il vero differenziale tra noi e gli altri paesi del G8 è accumulato nella anzianità del nostro apparato produttivo. Il nostro è un “divario digitale”, accumulato per interesse e per miopia. Ma dobbiamo sapere che accelerare sull’innovazione tecnologica, dopo un ventennio di arretratezza, avrà ripercussioni sugli assetti occupazionali. Quindi servono strategie nuove. Siamo sicuri che una delle prime parole d’ordine della sinistra di questo secolo non debba riproporre un forte abbassamento dell’orario di lavoro in grado di redistribuire il lavoro e attraverso di esso la ricchezza che si produce? E, accanto a questa storica proposta, non interpretare l’innovazione introdotta dal digitale come la possibilità di utilizzare i processi di condivisione e di partecipazione, nella produzione di servizi, di supporti, di beni materiali e immateriali, demercificando attività umane invertendo, in tal modo, la tendenza del mercato ad inglobare progressivamente tutta la sfera dell’esistente? E, ancora, non è possibile provare a rendere concrete, proprio utilizzando le potenzialità che la rete digitale ci mette a disposizione, tutte quelle proposte di “riprogettazione” della vita organizzata umana che restano ai margini della politica, come la produzione “a KMZero“, le “Transition Town” e così via? E perché non pensare che oggi le logiche di produzione e consumo energetico possono e devono andare verso la costruzione di una “smartgrid” fatta di microproduzione, autoproduzione sostenibile e da fonti rinnovabili costruendo logiche di smantellamento degli oligopoli energetici? E le nostre stesse città non possano essere tolte dal condizionamento “dell’industria del cemento” che sta consumando terra e condizionando definitivamente l’impronta umana sul pianeta? E perché non comprendere che una parte cospicua della produzione di ricchezza, oggi, avviene attraverso la produzione immateriale e che per sua stessa natura è una produzione altamente sociale, ma non retribuita in nessun modo? E come non accorgerci che la “produzione di senso della vita”, giunta al suo livello industriale, è il terreno del confronto strategico tra un’idea e l’altra del mondo e del destino umano?
La questione che pone il Presidente Prodi, quindi, non è né secondaria né affrontabile, a mio avviso, all’interno delle logiche date. Neanche a quelle più avanzate sul piano rivendicativo come le varie forme reddituali sussidiarie invocate attraversi interventi statali, parastatali o affini. L’Umanità è giunta ad un punto di svolta. E non può rimandare la presa di coscienza delle novità. Fra pochi anni la tendenza potrebbe essersi consolidata con ulteriori concentrazioni di proprietà e di controllo in un numero sempre minore di mani.
La rivoluzione digitale ci obbliga ad un salto, ad una discontinuità politica. Dobbiamo sapere che rimettere al centro il tema del lavoro come redistribuzione della ricchezza, affermazione personale, emancipazione individuale e sociale per la sinistra di oggi, deve venire prima della discussione sui temi della moneta e della finanza. È un mondo con nuove forme di produzione, distribuzione e consumo che va prodotto. E servono ricette nuove e coraggiose.
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