La Rai e la sua riforma. La RAI rischia un declino e con essa l’idea che debba esistere un servizio pubblico nel settore della comunicazione. La crisi dell’una trascina con sé l’altra. Analizzare la crisi e trovare le ricette per la prima consente di consolidare la seconda.
Ovviamente il punto di partenza è il riconoscimento di alcuni punti politici che non possono essere elusi. Primo punto: professionalità e autonomia. Di fronte alla palese incapacità e mancanza di autonomia professionale dimostrata dai gruppi dirigenti della RAI ,rispetto ai poteri ufficiali e occulti del nostro paese, si vuol far passare lo scardinamento del principio di una gestione plurale. Si rivendica la necessità, soprattutto a nome del PD, di un uomo solo al comando, di un “Amministratore Delegato” che sia il totale controllore dell’azienda. Un solo uomo, evidentemente, che sappia intrecciare in maniera meno individuabile di oggi la trama di relazioni e favori che da quella poltrona si è in grado di garantire. Un salto indietro a prima della riforma del 1975 che aprì la stanza dei bottoni della RAI a ciò che di nuovo c’era nella società e che aveva nelle forze della sinistra una rappresentanza parlamentare che si candidava a governare il paese. Casomai, oggi, una vera riforma dovrebbe riconoscere che bisognerebbe andare ancora più avanti su quell’intuizione e non indietro, aprire di più le porte e non richiuderle dietro i processi di omologazione nella gestione aziendale. Un’azienda di comunicazione pubblica, se omologata nei contenuti e omologata nella gestione diventa, di fatto, un’azienda privata. Allora sono più coerenti i sostenitori della privatizzazione, ma anche l’abolizione del canone RAI bisognerebbe aggiungere. Vorrei evitare che una RAI in mano ad un solo uomo si incameri miliardi di euro di soldi dalle tasche degli italiani.
Secondo punto: la comunicazione è un bene comune. Non è questo il luogo per una lunga dissertazione teorica, ma il riemergere del tema dei beni comuni negli ultimi vent’anni è stato possibile proprio partendo dalla distribuzione omeopatica, ma dirompente, delle pratiche di condivisione che la comunicazione ha sedimentato nella società. Le lotte contro il copyright, per la condivisione dei contenuti, la frontiera degli Open Source e dei Freesoftware, ha costruito nel mondo pratiche di vita e forme relazionali che sono a fondamento della nuova percezione dei beni comuni. La gestione di un bene comune necessita la presenza di un servizio pubblico e l’azienda di servizio pubblico non può essere omologata ad una azienda privata. Quelli che sostengono la tesi dell’amministratore delegato sono gli stessi che non avrebbero voluto il referendum sull’acqua. Sono le persone che continuano a nascondersi dietro l’ideologia del mercato anche quando il fallimento planetario di tale ideologia sta portando il mondo alla rovina.
La RAI avrebbe bisogno di essere rifondata, questo si. Ma la rifondazione dovrebbe partire dal punto centrale: cosa è oggi un servizio pubblico radiotelevisivo? Con quale spirito si deve produrre comunicazione dentro una tale azienda? Di quali infrastrutture necessita sul territorio? Come si devono gestire le frequenze sulle quali si trasmette? È proprio vero che le frequenze, che sono un bene limitato e di tutti, debbano essere vendute e non affittate? La discussione, invece, si concentra tutta dentro lo schema della cosiddetta “governance”, chi nomina e chi è il controllore.
A queste persone andrebbe ricordata la fine di Alitalia. Anche lì c’era un uomo solo al comando…
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