Domenica 22 giugno 2008
Assemblea Movimento politico per la Sinistra
Roma – Piccolo Eliseo
Domenica 22 giugno il movimento politico per la sinistra convoca un’assemblea al Piccolo Eliseo in Via Nazionale a Roma, e invita tutte le associazioni, i movimenti e i soggetti politici che parteciparono all’Assemblea del Farnese.
Intervento di Sergio Bellucci
Davanti a un mondo che è radicalmente cambiato, “Fare Sinistra” significa riacquisire una capacità di costruzione. Questa capacità costituente della Sinistra non risiede, a mio avviso, nella coppia garanzia-senso comune, nella capacità, cioè, di “difesa” di una ipotetica età dell’oro dei diritti travolta dal processo della globalizzazione, ma dalla costruzione di un nuova edizione del rapporto tra processi di liberazione e produzione di un nuovo senso comune, estrapolando le esperienze più alte sperimentate nel corso di tutto il Novecento e intercettando gli elementi di liberazione annunciati e negati dal modello in atto.
Nel ‘900, infatti, i nostri No – gridati forte contro i processi materiali vissuti dentro la società, le nostre lotte contro le ingiustizie – poggiavano su un processo di derivazione. Discendevano, cioè, da un’aspettativa, da un “sogno collettivo” di una società più giusta che restava “implicita”. Le battaglie che si organizzavano, poggiavano su di un background, consapevole o meno, rappresentato dalla concreta e materiale esistenza di un altro mondo, realizzato e riproducibile,che fungeva da costruttore di senso in maniera permanente. Un orizzonte che ogni individuo riempiva dei suoi sogni e delle sue speranze, avendo negata la verità di quella esperienza e negando gli svelamenti della sua realtà come privazione del proprio sogno.
Io credo che il problema si ponga ancora in questi termini, cioè, nei termini della necessità di una costruzione di senso collettiva che possa poggiarsi su un processo in grado di autoalimentarsi. Un orizzonte “condiviso e indefinito” in grado di raccogliere le speranze individuali e collettive. Dalla presenza di tale elemento discende la possibilità di agire delle “derivate”. La ricostruzione di possibili “derivate” – cioè di scelte tattiche, di lotta politica quotidiana, della capacità organizzativa non subalterna ai processi o di pura compatibilizzazione del sistema – tornerebbero a poggiarsi su fattori produttori di senso. Il ‘900, le lotte del dopoguerra, si sono poggiate sulla “gratuità” dell’alterità prodotta, all’inizio del secolo, dalla Rivoluzione d’Ottobre. Noi tutti ci siamo appoggiati a quella alterità, e non c’era bisogno di conoscerla realmente era il bisogno della concretezza di un sogno, che aveva una enorme capacità di produzione di senso, a livello di massa. Il fatto che esistesse, da qualche parte del globo, una società organizzata in maniera diversa produceva il senso, l’aspettativa, un immaginario che i singoli riempivano con la loro propria speranza di un mondo diverso. E l’affanno tra la condizione materiale vissuta e quella aspettativa là – lontana, ma praticata da qualche parte e, quindi, possibile – coincideva esattamente con la lotta politica contro le ingiustizie che svolgevamo quotidianamente. Oggi abbiamo bisogno di un nuovo “orizzonte”. Per questo Libertà e non Garanzia. Fine della fase difensiva (che non garantisce più neanche la difesa delle vecchie garanzie) e apertura a nuove e più avanzate richieste di Libertà.
Il problema, però, è che a differenza che nel passato, oggi viviamo in una società più densa, dove la costruzione di senso è prodotta in maniera industriale. Esiste una industria del senso che produce profitti nella costruzione del senso sociale legato al modello di vita del consumo. L’affanno percepito, oggi, è nella distanza fra il sogno/bisogno, questo connubio grandissimo prodotto dall’industria di senso (la grande novità degli ultimi cinque decenni sulla scena umana) e la tua condizione materiale. Non basta enunciare “la somiglianza tra governo e società”. Occorre capire, invece, le radici di questo nesso. Credo appunto che questo nesso derivi dalla potenza massiccia della pressione che l’industria di senso è in grado oggi di produrre nella società.
Ai governi – non solo in Italia, ma nel mondo – è data la possibilità di agire su due piani: o ridurre la distanza fra quel sogno/bisogno prodotto e la condizione materiale dell’uomo, che è negata dalle aspettative costruite dalla pressione dell’industria di senso, oppure, se non ci sono risorse per ridurre quel gap, la costruzione del “nemico”, di chi ti nega la possibilità di vivere materialmente quel sogno. Paura e smarrimento come impedimento alla realizzazione concreta del sogno e messa a fuoco del “nemico” che ti costringe nella tua condizione materiale.
Quello che sembra non in discussione è proprio il nesso sogno-bisogno costruito. In altre parole, la finalità dell’agire, la forma della “speranza” alla quale puoi accedere. Il governo non può decidere la rotta, la deve rendere solo più sicura, più certa o individuare il colpevole del possibile naufragio.
Credo che questo sia il punto vero della politica di oggi: e se comprendiamo questo nel “Fare Sinistra” dobbiamo predisporci a ripristinare un meccanismo fondamentale del ‘900 che va, però, completamente rivisitato e re-inventato.
Nell’era fordista la condizione produttiva, l’inserimento nell’organizzazione del lavoro, obbligava ad un’alterità rispetto al modello della vita sociale. Quella diversità era gravida di produzioni di conflitto, per la discrasia tra la condizione nel luogo di lavoro e quella vissuta invece nel corpo sociale (vissuta come naturale). Questo ci diceva Gramsci nel Novecento: il fordismo tende ad omologare queste due dimensioni, questi due “poli”, un avvicinamento dovuto alla potenza della sua capacità organizzativa, in grado di invadere il piano sociale con una egemonia prodotta dalla sua potenza, dalla sua forma.
Questo punto, oggi, è ampiamente superato dall’accelerazione di cui stiamo subendo lo scacco; un punto sul quale noi non riusciamo più a produrre un conflitto adeguato per la “qualità” della nuova forma produttiva resa disponibile dalle tecnologie digitali e che rendono “naturale” la forma della produzione , dell’organizzazione del lavoro. La forma delle relazioni sociali diviene sempre più omologa alla forma produttiva in grazia dello slittamento prodotto dall’economia e dall’organizzazione del lavoro, basate sull’informazione
Anche quando riusciamo a produrre un conflitto sul piano sociale – come nel caso del contratto nazionale – ci manteniamo “semplicemente” sul livello della monetizzazione della condizione materiale delle persone, senza essere più in grado di intervenire su quella distanza tra la vita sociale e l’organizzazione del lavoro, perché gran parte della condizione dell’organizzazione del lavoro è oggi omologa alla condizione della vita naturale, sociale. Manca una nuova capacità di critica che sappia estrapolare i bisogni di libertà negati che sono insiti e negati in questa nuova fase del capitalismo. Questo, a mio avviso, è il prodotto delle tecnologie digitali, la vera grande novità con la quale, secondo me, dobbiamo fare i conti.
Tutto ciò, però, non ci impedisce di pensare la politica nei prossimi anni, perché se al centro della nostra azione ri-mettiamo, invece che la coppia “garanzia-senso comune”, la coppia “liberazione-senso comune”, il terreno che si apre davanti ai nostri occhi è enorme, come enorme risulta la negazione che il capitalismo deve produrre di quelle libertà.
È su questo dobbiamo lavorare: sulla distanza concreta che si produce tra l’aspettativa di liberazione, di realizzazione, che è contenuta nell’attuale modello organizzativo del lavoro e nella costruzione del nesso sogno-bisogno, e la condizione di subalternità, reale e progressiva, della vita materiale. La politica o è anticipo oppure non è politica. La politica è l’annuncio della capacità di costruzione di un racconto che allude già a quello che è possibile fare domani, della città futura che si vuol costruire. E allora, se la politica è anticipo, allusione, e lavora dentro le contraddizioni interne all’attuale condizione produttiva (quindi a quegli aspetto di liberazione che oggi sono negati), si aprono davanti a noi praterie sterminate.
Le accelerazioni di questi anni non sono che l’annuncio di ciò che accadrà nei prossimi anni. Abbiamo visto solo il prologo del cambiamento della forma del produrre. Tutto l’apparato produttivo del mondo si sta contaminando con forme più avanzate di condivisione. Lo spostamento verso i modelli organizzativi basati sull’idea del “Wiki”, sono più stravolgenti del passaggio al Toyotismo degli anni ’80, ma sembrano non interessare più la sinistra. Il modello di condivisione delle scelte strategiche dell’organizzazione del lavoro e del consumo, cambierà la relazione tra aziende, lavoratori, consumatori, mercati. Le aziende iniziano ad affidare ai consumatori non il modello di consumo, bensì la progettazione delle loro stesse merci. Questo processo sta producendo una nuova rivoluzione capitalistica sintetizzata dalla affermazione: non sappiamo che cosa stiamo per costruire, chi lo realizzerà o chi acquisterà ciò che produrremo. Questo è il modello. Un modello che ci obbliga a rimettere in moto la nostra capacità di analisi, di comprensione, di critica. Cambiare radicalmente è necessario, ora. Restare fermi con le analisi non garantisce la purezza, ma la cancrena, la morte. Per mantenere ferma l’aspirazione ad una società diversa dobbiamo cambiare tutto. La traccia è quella indicata dagli anti-nuclearisti negli anni ’80, che affermavano che “questo è il tempo in cui le cose vanno fatte prima del loro tempo”. Allora, come oggi, significava che non c’era tempo da perdere, che forse il cammino non era chiaro, ma che non si poteva restare fermi dove si era. Ciò significa, oggi, che dobbiamo metterci in moto per produrre immediatamente i processi di accelerazione di cui abbiamo bisogno, altrimenti non incontreremo neanche quelle persone che stanno tentando tutti i giorni di ridurre lo spazio tra il sogno/ bisogno e la loro condizione materiale rifiutando l’individuazione di un nemico e ricercando nuovi elementi di solidarietà e di libertà.
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