Sergio Bellucci
Il mio intervento intende riaprire una stagione che sembra scomparsa da decenni nel nostro Paese: la discussione civile, politica e delle organizzazioni sugli assetti dei grandi gruppi industriali che insistendo sul territorio, producono e modificano le relazioni sociali con il loro intervento. La stagione in cui si discuteva della Fiat, della Pirelli, delle aziende governate da Adriano Olivetti – non solo in termini produttivi e di lavoro, ma anche di impatto sulla collettività.
Ora ci pare questa abitudine si sia smarrita non solo nel corpo sociale e della politica, ma che addirittura questo terreno sia diventato off- limits, sbarrato dagli stessi grandi gruppi. Mentre la società la reclama perché quelle aziende offrono quotidianamente una quantità di servizi che modificano il vivere civile, la modalità di stare insieme, definendo il grado di libertà con cui scambiare contenuti, informazioni, cultura.
Quindi se oggi discutiamo di Murdoch del gruppo Sky, dovremo in futuro discutere di Telecom, di Mediaset, della Rai.
Alcune tendenze a livello globale non sono “naturali” e ineluttabili, ma vengono determinate da interessi potenti che muovono strutture altrettanto forti per conseguire un determinato fine. Anche la comunicazione nel mondo segue questo processo, passando attraverso livelli di concentrazione sempre più alti: sul mercato si confrontano veri e propri colossi industriali, che lasciano dominare sulla scena soltanto tre o quattro soggetti. Ma questo modello non è scontato, questa condizione di mercato non può essere l’unica a garantire il flusso comunicativo.
Le condizioni tecnologiche che oggi il digitale consente, offrono un modello naturale assolutamente agli antipodi rispetto a questa struttura di grandi agglomerati, presso i quali devono passare tutti i contenuti per arrivare al pubblico. E oggi sarebbe possibile e probabilmente doveroso per la politica produrre un’inversione di tendenza.
Il modello della rete non è soltanto in Internet, ma può essere assunto ad esempio per la produzione di energia (cfr. Rifkner) non più centralizzata ma prodotta e distribuita dagli utenti periferici. E questo è l’assunto con il quale l’Unione Europea ha deciso recentemente di rimodellare gli aspetti produttivi dell’energia nei prossimi decenni. Dunque questo è il nuovo modello organizzativo concreto, non astratto, con cui una società utopistica può organizzarsi, è l’unico modello con cui potremo consentire ancora alla nostra struttura sociale di continuare a produrre con efficienza.
Anche l’intervento sugli assetti di sistema della comunicazione deve avere questo segno, mentre il modello proposto da Sky è esattamente opposto, perché è il modello globale che tenta di occupare gli spazi prodotti dall’arrivo del nuovo modello comunicativo sul territorio: infatti, va a incidere immediatamente sul locale, acquistando la catena dell’informazione di più basso livello possibile.
L’acquisto come struttura portante del gruppo di catene di giornali locali, che si limitano alla cronaca dal territorio, è fatto in funzione del modello di domani, che aderirà a quella esigenza di destrutturazione, ma contemporaneamente intende centralizzare quel modello produttivo in un solo soggetto, per garantire quello che in realtà la gente vorrebbe, cioè un’informazione prodotta in maniera orizzontale sul luogo.
Su questo punto dovremmo soffermarci, perché è in gioco in realtà il modello di democrazia del futuro, con cui convivremo nei prossimi decenni, mente la politica quotidiana affronta questo tema con una scarpa vecchissima e inadeguata ad affrontare il livello dello scontro.
La politica pensa ancora l’intervento nel settore della comunicazione come un elemento di sostegno e di limitazione dei grandi gruppi ma per ampie quote, quando noi invece dovremmo pensare a una destrutturazione e a una riorganizzazione dal basso della produzione e del consumo.
Ritengo che la politica faccia questo perché non si pone la domanda, dando per scontato che i livelli di concentrazione, gli mega-apparati di produzione di consenso, siano un modello oggettivo e immodificabile. Invece questo modello è in crisi, e per continuare a sopravvivere deve inglobare e costruire strutture sempre più enormi.
Ereditiamo l’esperienza del digitale terrestre della legge Gasparri, abbiamo avuto i modelli diffusivi sul digitale satellitare, oggi la proposta tecnologica tende ad integrare nelle nostre case apparecchi che fino a ieri erano separati e non inter-operabili, ma la rivoluzione alle porte comporta qualche elemento di novità più alto.
Pensiamo soltanto al livello dell’utilizzo delle bande di frequenza, dello spettro elettromagnetico, luogo di “accumulazione primaria” quasi, di occupazione, come accadde con i latifondi qualche secolo fa: nel silenzio più completo e nella totale assenza di percezione collettiva si decidono vendite a tempo indeterminato di bande di frequenza che diventeranno nei prossimi anni il luogo della connessione sociale, e che diventando proprietà privata produrranno uno scompenso nella capacità di accesso alla comunicazione e di relazione.
Sui luoghi fisici è stato più facile percepire i problemi che comportava la proprietà privata, sulle bande di frequenza la percezione è più complessa anche perché noi siamo figli del Novecento, e siamo abituati a pensare alle bande di frequenza in termini oggettivi e statici, di canali tv e stazioni radiofoniche in FM e MHz, con frequenze specifiche la telefoni: è scontato utilizzare bande di frequenza diverse per servizi diversi.
Stiamo entrando in una fase in cui queste bande di frequenza saranno utilizzate in maniera indifferente per servizi multimediali di connessione punto-punto o di connessione massa – punto o punto-massa: cioè sulla banda di frequenza dove abbiamo comprato il servizio dalla società X attraverso il protocollo IP, potremo fare una telefonata, ricevere un programma televisivo, o essere la telecamera di un programma televisivo che vedono moltissimi.
Questa trasformazione ha bisogno di nuove leggi, perché quelle attuali non sono in grado di affrontare il livello dei problemi tecnologici e le impostazioni che i grandi gruppi stanno dando. La risposta spetta alla politica, e dalle risposte capiremo se le società di domani potranno essere ancora chiamate democratiche o meno.
Nella società contemporanea, chi vuole pensare a una politica alta non può che partire dagli assetti della comunicazione. Forse la Sinistra non ha capito ancora, fino in fondo, questo nesso: oggi, aspetti strutturali della vita delle persone nel pianeta passano attraverso le modalità con cui i flussi di comunicazione determinano e spostano l’opinione di miliardi di persone.
Questa capacità delle strutture di comunicazione, completamente innovata rispetto agli anni ‘50 – ’70, sia nei cicli economici che nelle strutture di relazione con i Governi nel pianeta, di organizzare il flusso della comunicazione, determina di fatto le stesse condizioni con le quali si fa politica.
Tanto è vero che nel nostro Paese – dove l’intreccio tra produzione industriale di senso e mercato ha generato il fenomeno Berlusconi, e l’arrivo di Sky in questa condizione così anomala ostacola la definizione di una legge sul conflitto di interessi – è difficile pensare a una legge di riforma del sistema che adegui il nostro Paese alla Germania, alla Francia e per alcuni versi alle condizioni degli Stati Uniti.
Marco Mele ha centrato il punto in cui noi siamo oggi, mostrando che la Proposta di Legge Genitiloni è arretrata, anche se non completamente sbagliata. Marco Mele ci ha dimostrato che il Terzo Polo esiste oggi nel nostro Paese, ma non è la Sky di Murdoch, è la RAI di tutti noi, perché nelle dinamiche del mercato e nella struttura con cui esse stanno modificando l’intero assetto della struttura della comunicazione, chi è messo sul binario morto e fa l’ancella ai grandi giochi è la RAI.
Mediaset e Murdoch hanno dimensioni quasi analoghe, si giocano la partita dell’innovazione e la transizione verso la comunicazione finale in assenza del player pubblico che possa determinare almeno alcuni elementi di riequilibrio. La crisi che sta attraversando la RAI, che deriva anche dalle scelte miopi della politica e dalle modalità con cui quelle scelte sono state compiute dal gruppo dirigente, impedisce in realtà una reazione da parte del servizio pubblico.
Mentre si stanno decidendo gli asset della transizione verso i modelli di VBH, del digitale terrestre, dell’IPTV e le forme che assumeranno per il consumatore italiano, il Consiglio di Amministrazione Rai è bloccato da mesi su qualche nomina, ma soprattutto non può decidere nulla degli assetti perché la sua maggioranza, che è minoranza nel Parlamento, riesce a fermare le decisioni della maggioranze politica, in un gioco a rimpiattino in cui il Governo non interviene, il Consiglio rimane in piedi, si presentano le nomine che vengono bocciate e si va avanti di settimana in settimana con una azienda che sta morendo giorno dopo giorno. Temo che da qui a breve ci troveremo in uno stato di allarme sulla condizione strutturale della RAI, con una dinamica analoga a quella verificatasi per l’Alitalia.
In termini politici, il Ministro delle Comunicazioni Gentiloni presenta solo le norme per garantire la transizione analogico – digitale. È vero che questo è l’intervento del Governo, che lo propone al Parlamento, e che se andiamo ad analizzare l’impatto sulla trasformazione dell’uso delle frequenze dall’analogico al digitale ci limitiamo a uno spicchio di intervento. Quello che dimentica il provvedimento, che, a mio avviso, dovrà essere uno dei terreni di intervento delle modifiche in Parlamento, è il fatto che questa transizione non avviene su un terreno neutrale, ma nel momento in cui due soggetti, Sky e Telecom, sono contemporaneamente in campo per definire le modalità con le quali loro faranno televisione domani, preordinando già equilibri dentro questa forma di distribuzione.
Mi riferisco ad esempio all’ipotesi di IPTV lanciata da Telecom con Alice e, anche se in condizioni sicuramente inferiori, a Fastweb con l’offerta del suo pacchetto: cioè, questa transizione analogico – digitale non avviene in maniera separata, in un Olimpo esterno alle dinamiche complessive del mercato, che convergono verso una modifica dell’intero assetto della struttura della comunicazione.
Qui noi dobbiamo intervenire. La normativa introdotta da Gentiloni, ad esempio, bloccando la transizione al 2008 per il digitale terrestre e spostandolo di fatto di altri quattro o cinque anni, ci consegna il problema della normativa antitrust nel settore analogico da qui all’arrivo di quella definizione: la situazione italiana, che una sentenza della Corte Costituzionale definiva come antidemocratica per le condizioni di monopolio esistenti nell’analogico, è valida ancora oggi, e la politica deve dare una risposta qui ora, e non nel 2012.
Il provvedimento che ha autorizzato il gruppo di Murdoch a diventare in qualche modo monopolista nel settore del satellite, nel momento in cui la transizione al digitale terrestre non arriva e si sposta nel tempo, è una condizione ancora compatibile con quella definizione? Io credo di no, siamo arrivati al punto in cui la transizione deve mettere mano a tutti gli elementi, definire cosa deve accadere nell’analogico, nel digitale terrestre e nelle altre piattaforme di distribuzione, sui PTV e sul satellite, perché le condizioni sono ormai integrate.
Da questo punto di vista, dovremmo operare una rettifica del Disegno di Legge Gentiloni, inserendo forme di apertura reale di queste piattaforme, secondo quanto già ipotizzato e sottoscritto nel Programma dalle forze politiche dell’Unione, quando ci siamo presentati all’elettorato.
In particolare, il rapporto tra forniture, contenuti ed operatori di rete, che non vale esclusivamente per una piattaforma, ma per tutte le piattaforme, soprattutto quando esse convergano, diventando neutre nella loro capacità diffusiva; quindi, i meccanismi con i quali mettere a riparo l’intervento della potenza dell’operatore di rete rispetto al forniture di contenuti valgono per tutte le piattaforme ed anche nella fase di transizione, anzi, seguendo il ragionamento di Marco Mele, forse è necessario addirittura un intervento asimmetrico, che favorisca non solo i fornitori di contenuti rispetto agli operatori di rete tout court, ma i piccoli fornitori di contenuti rispetto ai grandi, e i fornitori di contenuti rispetto ai fornitori di rete.
Questo dovrebbe essere l’elemento di riequilibrio di una struttura di diffusione dei contenuti che io giudico a forte rischio di pluralismo, se non addirittura in una situazione non pluralista ormai da anni.
Oggi giovani registi, scrittori, compositori di musica, produttori di video-clip, autori di contenuti, alcuni bravissimi, non avendo alcun collegamento con il sistema dei poteri esistenti oggi nella struttura della comunicazione, sono in grado al massimo di utilizzare U-Tube, hanno lo spazio su my space, mettono il nome e vedono il contenuto che è di Murdoch.
E’ il modello della infrastruttura a essere ormai in discussione, e noi dobbiamo porci questo punto centrale, altrimenti non riusciremo a fare né una riforma del sistema radiotelevisivo, né ad invertire gli equilibri distorti tra i flussi comunicativi e la politica.
La disattenzione, per esempio, che si può rilevare sui 12 punti fissati Prodi per portare avanti il Governo dopo la crisi, ha un vacuum enorme ed esattamente nel settore della comunicazione, sul conflitto di interessi e sugli assetti della struttura informativa del nostro Paese; ed io credo che questo sia emblematico e, allo stesso tempo, che il “popolo della Sinistra” non perdonerebbe mai i partiti di maggioranza se durante questa legislatura non si produrranno interventi correttivi reali.
Da questo punto credo che possiamo ripartire, riconoscendo al libro di Glauco Benigni il merito di aver riaperto una discussione, non solo sulla concentrazione del gruppo di Sky, che è fondamentale, ma sull’intero assetto del settore, che comprende i grandi gruppi Telecom, Mediset, Sky, RAI: capire cosa sono oggi questi soggetti, quali sono i rapporti con la politica, che cosa si sta definendo nelle loro strategie per gli assetti della nostra democrazia.
Se porteremo avanti il dibattito, lavorando attraverso le nostre associazioni su questo terreno, sicuramente forniremo elementi di comprensione più significativi al decisore politico.
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