ASSEMBLEA NAZIONALE LIBERA ASSOCIAZIONE DELLA SINISTRA EUROPEA
Roma, Piccolo Eliseo – 15 giugno 2007
“Qualificare la politica: pensiamoci insieme”
Introduce ai lavori Danielle Mazzonis,
Presidente Libera Associazione, Sottosegretario ai Beni Culturali
1a sessione: Diversità culturale e comunicazione
Partecipano: Giuseppe Chiaranti, Marcello Cini, Alba Sasso, Silvana Pisa, Sergio Bellucci,
Titti De Simone, Wilma Labate.
Intervento di Sergio Bellucci:
Svolgerò uno dei temi che ritengo più difficili per la sinistra, perché ho sentito Walter De Cesaris e altri compagni annunciare, quasi per esorcizzare, nei loro interventi, che o facciamo qualcosa o la sinistra in Italia e in Europa rischia di scomparire. Però non è sufficiente esorcizzare la questione, senza porsi i problemi nella loro complessità e anche senza tentare in forma autocritica di capire dove abbiamo commesso errori di comprensione dei processi sociali.
L’eventualità che la sinistra rischi di scomparire in Europa, impone a tutti noi uno scarto nelle analisi e nell’azione, alla vigilia di quello che potrebbe essere un dramma planetario. Oggi, relegato a pag. 30 di Repubblica, si poteva leggere l’annuncio del Centro analisi dei Consumi Petroliferi che tra 4 anni avremo raggiunto il picco della possibilità di estrazione del petrolio, e che quindi si comincia la curva in discesa, nel momento in cui il consumo di petrolio sta avendo un’impennata verticale derivante dal fatto che miliardi di persone stanno cominciando a consumare energia attraverso un modello di vita che sta diventando globale. Ci troviamo di fronte a questioni gravi e urgenti, e per questo abbiamo bisogno di uno scarto, perché se noi continuiamo come se le cose che ci siamo detti, le analisi, le modalità di approccio, fossero sostanzialmente giuste ma mancanti di un elemento, il dramma che potrebbe verificarsi da qui a pochissimo tempo, sul piano politico e sociale, potrebbe essere enorme.
Dobbiamo inforcare nuove lenti, capire dove abbiamo commesso errori. E credo che possiamo individuarne almeno alcuni, anche se oggi mi soffermo su uno in particolare, facendo riferimento alle affermazioni di Marcello Cini sul nuovo paradigma scientifico su cui dovrebbe essere basata una nuova e rinnovata capacità di analisi e sull’esigenza di comprendere i processi in termini evolutivi. Dovrebbe ormai essere dato per scontato che i processi sono complessi e che si fondano sulla diversità; ciò però significa cambiare alla radice molti dei nostri schemi e delle forme con le quali abbiamo lavorato in tutto il Novecento. Questo è il punto, anzi io vedo un ulteriore pericolo: mentre noi cominciamo tardivamente a comprendere questo elemento, l’evoluzione sociale e politica è già entrata in una nuova fase. E’ come se noi fossimo indietro di una fase storica, e questo salto di paradigma noi lo dobbiamo fare rapidamente, dobbiamo innovare rapidamente la nostra struttura di pensiero.
Affronterò un solo tema, relativo a uno dei cambiamenti che ritengo sia stato sottovalutato e inserito in uno schema vecchio dalla sinistra novecentesca, sia quella comunista sia socialista: il fatto che per la prima volta nella storia umana, nello spazio particolare in cui si produce la trasmissione dell’identità, il senso della vita, il perché stiamo dentro una struttura sociale, si è inserita quella che potremmo definire “l’industria di produzione di senso”, una nuova struttura che funziona con le logiche capitalistiche, che produce plusvalore, e che ha come obiettivo preciso quello della produzione del senso della vita.
Se noi qui inseriamo uno degli elementi di analisi che è mancato totalmente nella sinistra novecentesca, allora forse cominciamo a capire che la fase nella quale ci troviamo ha bisogno di una accelerazione e di quale tipo.
All’avvento della rottura dei sistemi della cinghia di trasmissione degli impianti tradizionali, che sono sostanzialmente stati prodotti dalla società industriale, si liberarono masse enormi di persone, che uscivano fuori dai vincoli delle strutture tradizionali e pensavano, avevano la possibilità di costruire il senso della propria vita attraverso il loro fare. E’ stato il periodo nel quale il partito e i sindacati sono nati e sono riusciti a incanalare e a integrare le comunità, i gruppi. Erano in grado di creare la comunità di persone che si pensavano simili tra di loro. Avevano un’identità. Ma quando è nata l’industria di produzione di senso, a metà del Novecento, questo sistema è stato investito da una struttura che noi abbiamo ignorato, perché ciò che avevamo sperimentato con la nascita dei partiti era potente, era forte, aveva le masse che riempivano le piazze, produceva ancora un senso di vita. Ma piano piano quel sistema veniva eroso, sgretolato da questa nascente e sempre più potente industria di produzione di senso. Potremmo dire che, mentre noi lottavamo per la redistribuzione e facevamo scontri forti contro il capitale per dire che pezzi di plusvalore dovevano essere spostati verso le persone che lavoravano, spostandoli dalle rendite dei profitti verso i lavoratori, l’industria di senso riempiva con il suo sogno il “che fare” con quei soldi. Questo è il punto sul quale abbiamo slittato e oggi non siamo in grado di affermare la nostra visione ideale.
Basta fare un giro nelle periferie, per vedere quale vita conducono le persone che vi vivono, a cosa aspirano nella loro quotidianità, come pensano che sia costruita la giornata, la settimana, il mese, l’anno. Questo a noi sfugge ormai completamente. Noi non siamo più in grado di produrre un senso che smarca da questa vicenda, e non siamo in grado di farlo perché non abbiamo capito la “modifica genetica” che è avvenuta dei mezzi di comunicazione. Noi pensiamo ai mezzi di comunicazione come il comunismo li pensava alla fine dell’800 e all’inizio del 900, come strumento della battaglia delle idee. Non è più così. E credo che se noi non riprendiamo in mano la nostra capacità di produrre senso di vita, per le masse e non per i segmenti minoritari, la marginalizzazione sarà tanta.
Loris, leggendo una poesia guatemalteca, diceva “La vasaia che costruisce il suo tempo”. Ma chi è oggi che costruisce il nostro tempo, l’idea di tempo che abbiamo? Siamo noi con le nostre mani, o ci sono agenti potentissimi che costruiscono queste strutture?
E la vittoria della destra in Europa, sul piano culturale prima che politico, non attiene al fatto che ha idee migliori delle nostre. Io credo che noi abbiamo idee – in termini di umanità, di razionalità, di uguaglianza, anche nello specifico segmento di ogni nostro programma – che sono molto più avanzate. La destra invece è omologa a questo processo di costruzione del desiderio: non ha bisogno di costruire il programma, ce l’ha nel suo Dna. E allora noi abbiamo bisogno di costituire una rottura da questo punto di vista, perché altrimenti le divisioni che noi denunciamo sui nostri quotidiani, nei nostri interventi, tra il corpo sociale e la politica, il distacco fra la politica e la società, non lo comprendiamo fino in fondo. Non comprendiamo che la coppia senso/consenso è ormai la coppia sulla quale dobbiamo ragionare in termini strategici. Se facciamo questo ci accorgeremo che probabilmente la lettura che spesso diamo della crisi politica che la sinistra attraversa, e spesso anche della crisi dei Governi, come quello nostro, ha probabilmente una natura diversa da quella che noi pensiamo.
Proviamo a declinarla in questo modo: se è vero questo ragionamento, probabilmente la crisi dei Governi in carica deriva dal fatto che aumenta la difficoltà, nel fare del Governo, di garantire il sogno prodotto dall’industria di senso. Questo è il distacco. E noi non possiamo permetterci di rimanere dentro questo schema, perché altrimenti saremo sconfitti in maniera strategica. E mentre risulta sempre più evidente e drammatica la condizione del pianeta – con le disparità sociali, i limiti dello sviluppo, fino alle conseguenze dell’impatto che questo modello produttivo sta avendo sul pianeta – noi abbiamo la crisi in Europa che si misura con la possibilità concreta di garantire alle grandi masse con il salario e con un tipo di welfare quell’idea di vita che l’industria di senso del modello di comunicazione commerciale produce quotidianamente. Credo che da qui noi dobbiamo smarcarci.
Dobbiamo avere meno altezzosità nel disdegnare i programmi di prima serata, dobbiamo capire quale messaggio passa attraverso quell’immagine, quale desiderio viene prodotto dall’illuminazione del tubo catodico, e impegnarci a capire come le nuove strutture della comunicazione digitale stanno addirittura producendo un’accelerazione rispetto a questa situazione. Questa analisi sarebbe valsa dal ’75 al ’95, ma adesso già cominciano nuove dinamiche, e noi ancora siamo arretrati nel comprendere la dinamica di quel ventennio.
Dobbiamo capire, ad esempio, perché la battaglia sul servizio pubblico radiotelevisivo, e in particolare contro questo servizio pubblico radiotelevisivo, diventa centrale, perché se è questo il modo in cui si produce il senso della vita, produrre una comunicazione sganciata dagli interessi commerciali diventa fondamentale, perché produce un senso sganciato da quel modello di consumo. Noi invece siamo ancora impantanati in una discussione nella quale la Rai è semplicemente il problema di quale direttore avrà Rai2, Rai1 oppure quale sarà il prossimo CdA. Oppure, per citare un altro nodo centrale, non riusciamo a capire che le leggi di intervento non possono riguardare solo la regolamentazione degli interessi di Berlusconi – cosa giusta e sacrosanta, nella sua capacità di influenza attraverso queste strutture di produzione di senso – ma che noi dobbiamo far sì che dal basso, dal corpo della società si produca un flusso comunicativo in contraddizione con questi processi.
E invece abbiamo difficoltà. Dobbiamo capire che le nuove tecnologie digitali stanno producendo forme di lavoro che sono identiche al tempo di vita ed esterne al tempo del lavoro. Nel ‘900 era facile organizzare le grandi masse di lavoratrici e lavoratori dentro la fabbrica fordista e che vivevano dentro il ciclo della linea un disagio perché la vita fuori era organizzata diversamente, la vita delle relazioni era diversa, e stare dentro la catena era cosa difficile, stare entro i tempi della linea era disumano. E allora era facile, una volta fuori, denunciare quella condizione disumana ed esortare alla lotta per trovare nuove forme di organizzazione del lavoro. Come fate a dirlo oggi a un ragazzo che ha la forma di organizzazione del lavoro uguale alla forma con cui ha le relazioni con i suoi amici, attraverso le tecnologie che hanno la stessa identica forma. C’è bisogno di qualche cosa di più, c’è bisogno di uno scatto in avanti, altrimenti noi restiamo veramente bloccati nell’impossibilità di produrre processi reali, autentici, e continuiamo a chiacchierare intorno a ipotesi che non hanno la concretezza di muovere grandi masse.
Noi quindi abbiamo bisogno di una capacità critica nuova, bisogna uscire dalla fase difensiva per essere in grado di produrre non solo l’ipotesi di un altro mondo possibile, ma anche le relative strutture di socializzazione, perché altrimenti siamo sotto la soglia del necessario. E io credo che questo Marcello Cini in qualche modo ce l’ha indicato, ne abbiamo parlato più volte nelle nostre iniziative.
Abbiamo sì bisogno – ce lo siamo detto nella costruzione del processo che sta portando alla nascita della Sinistra Europea, nel nostro Paese – di rideclinare libertà ed eguaglianza. Dobbiamo invertire i termini rispetto a quanto fatto nel Novecento, adesso diciamo prima la libertà, e poi viene l’uguaglianza. Io credo che sia giusto, ma non sufficiente. Noi dobbiamo metterci qualcosa di più.
Credo che dobbiamo inserire idee come quelle della consapevolezza, della condivisione, delle relazioni coscienti, della multidimensionalità delle implicazioni degli atti che noi compiamo, dell’economia del dono: nuove forme.
Da qualche tempo io le definisco “Welfare delle relazioni”, cioè una struttura che renda consapevoli del fatto che se io agisco in un punto, in un altro punto si determina un processo che risponde a quel movimento che ho prodotto, e devo essere cosciente, almeno per quanto possibile, con la cultura scientifica che siamo in grado di mettere in campo, con la capacità politica di organizzare queste forme. Certo, è difficile, perché questo necessita il superamento di due limiti che Marcello Cini chiamava delle società tradizionali ma che hanno attraversato anche le organizzazioni politiche del ‘900: quelle dei meccanicismi e quelle del soprannaturale. Per la sinistra sono state da una parte il meccanicismo economicista, e dall’altra l’impianto settario ideologico che non guardava al di fuori di se stesso. Se noi sapremo superare questi due confini, probabilmente avremo imboccato la strada giusta.
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