Verso la nuova legislatura: cosa farà la politica per l’informazione?

Verso la nuova legislatura: cosa farà la politica per l’informazione?

intervento di

Sergio Bellucci

Responsabile Dipartimento Comunicazione e innovazione tecnologica di Rifondazione Comunista

 

Per un Welfare delle Comunicazioni.

 

La similarità delle lotte, la necessità di soddisfacimento di alcuni bisogni e la stessa filosofia dell’approccio politico e programmatico, hanno prodotto la consapevolezza della necessità di unificare un terreno politico affiancando il tema della comunicazione a quello degli altri beni comuni. Il nuovo quadro necessità di una proposta complessiva che allude alla necessità di un intervento che è stato definito come un Welfare delle Comunicazioni. Nuovi soggetti, infatti, si sono affacciati in questi anni e richiedono un nuovo senso, non solo quantitativo, tra ciò che viene prodotto e l’uso sociale che se ne fa. Il sistema dei media, come grande agente socializzatore del senso della vita quotidiana, non è neutro nella costruzione degli apparati di produzione e di distribuzione degli elementi di socializzazione. I nodi fondamentali dell’economia e dello scambio relazionale e comunicativo, sono travolti e ridisegnati, negli ultimi decenni, da questo nuovo approccio. Ma mentre nel corpo sociale emergono nuove forme e possibilità di autoproduzione dal basso di contenuti comunicativi, i vecchi servizi pubblici sembrano vacillare. La richiesta che il bene comune sia trasformato, nella sua percezione, in un bene non riducibile a merce sale forte rispetto ad una nuova stagione di diritti e sembra in grado di generare un movimento capace di produrre la sfida per una nuova egemonia culturale. Il territorio aperto dalle tecnologie digitale, che ha inaugurato la stagione di nuove tecniche di comunicazione, produce mutazioni sempre più profonde nelle relazioni individuali e sociali, negli approcci di senso, nelle culture socializzabili, nei rapporti sociali e produttivi, nei corpi.

Tv-digitali, radio-digitali, internet, microelettronica, tele-medicina, e-government, ingegneria genetica, controllo monopolistico dei media, software, nanotecnologie. L’avanzare delle acquisizioni scientifiche trovano una sempre più rapida traduzione nella “cultura materiale” tecnologica. Per gli individui, i corpi sociali e fisici questa trasformazione non è indolore e alle nuove prospettive si uniscono nuove emarginazioni, nuove subalternità, nuovi Sud arretrati in rapporto a Nord avanzati.

Grazie al digitale si sta creando un habitat tecnologico sempre più convergente e integrato ove, darwinianamente, sopravvivono i più adatti, chi possiede, cioè, conoscenza a scapito di chi è escluso o di chi può solo usare subalternamente le tecnologie.

A questo processo va contrapposta la costruzione di individui sociali capaci d’integrarsi e di riconquistare uno sguardo d’insieme su questa nuova rivoluzione capitalistica, sui limiti della logica d’impresa e di mercato, che rifondi una comunità scientifica allargata. Gli spazi per comunicare e per essere informati divengono un terreno principe dello scontro.

La comunicazione, quindi, irrompe tra questi nuovi beni particolari e si pone contemporaneamente come soggetto e oggetto della battaglia dei beni comuni, in particolare nel nostro paese ove la stagione berlusconiana ha prodotto guasti più profondi di quelli presenti in altri paesi europei. La battaglia per la comunicazione come bene comune tenta di produrre un salto di qualità in grado di dare voce alle mille forme comunicative che la trasformazione digitale oggi consente e di utilizzare questi spazi liberati per la moltiplicazione della consapevolezza dello scontro politico e culturale in atto.

Nel dibattito il tema ha preso corpo e si è condensata una serie di opzioni di fondo che dovrebbero caratterizzare la proposta di riforma del sistema delle comunicazioni nel nostro paese. Il punto centrale è quello di garantire, anche nel rispetto del nostro dettato costituzionale, la salvaguardia e la pratica attuazione di due diritti inalienabili come il diritto ad essere informati, attraverso la compresenza di una molteplicità di strutture comunicative che garantiscano la pluralità di voci, di culture, di orientamenti politici e sociali, e il diritto a comunicare, attraverso tutte le potenzialità che le tecnologie oggi offrono, sotto il profilo della produzione e della diffusione, anche di contenuti prodotti in forme sociali o autogestite. Naturalmente per garantire tale diritto occorre aprire la possibilità concreta a nuovi soggetti di costruire la propria comunicazione, partendo dalle esperienze dal basso, elaborando una rete di garanzie strutturali in grado di rendere agibili tali diritti: una rete di trasmissione pubblica ed accessibile, la garanzia delle risorse necessarie a tale apertura, il ripensamento del ruolo del servizio pubblico e la limitazione delle concentrazioni aziendali.

Occorre, inoltre, lanciare un nuovo percorso per la radio-televisione digitale. La riforma Gasparri rischia di far implodere l’innovazione o di farla rinsecchire. L’Italia potrebbe subire un rinculo sul piano dell’innovazione e un allontanamento concreto dai processi di trasformazione dei nuovi media. Il digitale va pensato, in primo luogo, come fattore di moltiplicazione e pulizia delle frequenze e non come un processo di nuova mercificazione della comunicazione. È necessario ribadire che le frequenze sono e restano di proprietà della collettività e non possono essere considerate un bene privato o privatizzabile. Inoltre, le ingenti risorse pubbliche devono concentrarsi in due direzioni: la costruzione di una dorsale diffusiva aperta ai nuovi soggetti comunicativi e l’incentivazione ad introdurre, nei nuovi apparecchi TV, schede utili a ricevere il segnale digitale.

Una riforma “antiberlusconiana” e anti-neoliberista del sistema della comunicazione potrebbe prevedere l’ipotesi di suddivisione del sistema radio-televisivo in tre aree, quella del Servizio Pubblico, quella della Radio-televisione di servizio e quella della Radio-televisione commerciale. Ogni blocco dovrebbe avere norme interne che garantiscano l’autonomia dei settori e le risorse necessarie.

 

Il servizio pubblico


Dovrebbe essere ripensato in termini sì di radiotelevisione generalista, ma con la garanzia di risorse utili alla produzione di un palinsesto sostanzialmente sganciato dalla pressione del settore pubblicitario.

Il meccanismo delle risorse potrebbe essere misto: canone, riversamento automatico di una quota del mercato pubblicitario e anche una minima parte di pubblicità. L’autonomia della gestione, invece, andrebbe garantita attraverso un sistema che affidi alle professionalità interne e agli utenti la scelta dei vertici.
La radio-televisione di servizio
In questo ambito andrebbero inserite due tipologie di canali: i canali di utilità sociale e i canali dell’accesso. Nei primi vanno inserite quelle esperienze come, ad esempio, i canali di formazione (università o altro) che lo Stato potrebbe offrire in convenzione liberando il servizio pubblico da oneri di programmazione impropri, mentre nei secondi andrebbero distinte due fasce: i canali nazionali – affidati ad associazioni, sindacati, partiti di dimensioni nazionali (definiti in apposito regolamento) – attraverso uno spazio a rotazione su uno o più canali digitali, e i canali comunitari che dovrebbero riassorbire le tipologie previste, fin dai tempi della legge Mammì, per i media a carattere comunitario, estendendone le garanzie in termini di frequenze, di risorse e di diffusione (per chi lo sceglie) dagli impianti pubblici a titolo gratuito.
La radio-televisione commerciale

La radio-televisione commerciale potrebbe, in questo quadro di garanzie poltico-culturali, essere affidata a normative antitrust simili ad altri settori, ipotizzando almeno tre o quattro soggetti privati nazionali, oltre ad alcuni vincoli sui programmi. Il numero delle reti nazionali potrebbe essere definito anche in relazione a scelte come la possibilità di produrre canali tematici, a pagamento, ecc..
Questo schema di riforma dovrebbe prevedere due infrastrutture di garanzia: una rete pubblica di connessione e diffusione e un fondo nazionale per la comunicazione.

La Rete Pubblica di Connessione e Diffusione dovrà garantire, in primo luogo, la possibilità di dare la diffusione ai soggetti della radio-televisione di servizio, con le nuove forme digitali, a titolo gratuito; inoltre, la possibilità, per questi soggetti, di fare interconnessioni ad un prezzo industriale; la possibilità di fornire ad un prezzo concordato la diffusione e l’interconnessione del servizio pubblico e la possibilità di fornire la diffusione e la interconnessione anche a soggetti privati. Alla rete di diffusione andrebbe assegnato anche il compito di garantire la copertura regionale di sedi di produzione, aperte ai soggetti della società civile, per le piccole produzioni.

Il Fondo Unico per la Comunicazione, invece, dovrebbe vedere la convergenza delle attuali risorse erogate dallo Stato a vario titolo verso il mondo della comunicazione, per garantire, in primo luogo, il servizio pubblico e la radio-televisione di servizio e, in seconda istanza, le intraprese private.
Nel nostro paese i fondi pubblici verso l’editoria e la radiotelevisione privata sono difficilmente calcolabili, ma non sono inferiori ad un miliardo di Euro l’anno. Solo circa 35 milioni vanno all’editoria di partito e a quella cooperativa. Il resto lo incamerano sostanzialmente le grandissime aziende con una spolverata verso le piccole e piccolissime. Le risorse pubbliche, invece, andrebbero rivolte, in primo luogo, alla nascita e al mantenimento di voci che stentano a trovare le risorse anche per sopravvivere e non ai dividendi degli azionisti delle grandi imprese editoriali.

Nel dibattito non è mancata la sottolineatura della necessità di abolizione di Auditel. Occorre rompere il controllo monopolistico dell’ascolto e rendere incompatibile per il controllato (le reti televisive RAI e Mediaset) la partecipazioni a società di rilevazione degli ascolti. Allo stesso modo dovrebbe essere impedito alle società di advertising, o alle loro associazioni, di partecipare alle decisioni sulle rilevazioni dell’ascolto. L’arbitro dovrebbe essere neutrale.
Da più parti, inoltre, andrebbe reintrodotta una analisi di qualità dei contenuti come era l’indice di gradimento.

La comunicazione, dopo questo dibattito, è entrata a pieno titolo tra le tematiche oggetto di quel confronto, necessario tra le forze dell’opposizione sociale e politica, per la costruzione dell’alternativa al governo Berlusconi.

 


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