Secondo articolo scritto per l’inserto InMedia nel quotidiano Liberazione il 23 ottobre del 1997
Inoltriamoci nell’analisi di quei processi che Etienne de La Boétie, già nel lontano ‘500, definiva come la “servitù volontaria”, di quei meccanismi, cioè, di “costruzione attiva” del consenso, di “partecipazione al consenso” quale forma di perdita di autonomia individuale e collettiva, sia sul piano culturale sia su quello politico. Detto in altri termini, consideriamo come il consenso sia la forma di adesione non “attiva” ad una idea, ad una scelta, e come esso assuma le sembianze di una servitù accetta e, anzi, perseguita. Pensando all’oggi, certamente non è la prima volta, nella storia umana, che un sistema nasce e si fonda con la (e sulla) costruzione di un consenso di massa, ma occorre ripercorre le differenziazioni, le peculiarità di questa fase ed evidenziare i punti di rottura, le contraddizioni (vecchie e nuove) sulle quali lavorare per rompere l’accerchiamento che, durante le crisi politiche, rischia di trasformarsi in isolamento. Lo schema proposto dal magistrato e parlamentare cinquecenteseco va oggi, ovviamente, coniugato con una analisi delle forme moderne che non sostituiscono ma integrano la sua riflessione. Consuetudine, divertimento, interesse sono, nella società capitalistica massmediatica, fuse con dinamiche che attraversano lo stesso modo di produzione ed i rapporti produttivi. Tornano, infatti, ad emergere forme di dipendenza personale e dell’idea stessa del lavoro, che attengono all’universo “relazionale” del singolo lavoratore, con la progressiva trasformazione del lavoro in collaborazione e con l’offuscamento della percezione della condizione di classe. Queste forme di dipendenza (con l’apparente “partecipazione” ai destini aziendali) si intrecciano direttamente con il consenso politico e con l’idea di governabilità fine a se stessa. La differenza sostanziale rispetto al passato è che la dipendenza, oggi, deve assumere le caratteristiche di massa, investire non solo i “cortigiani”, ma l’intero corpo sociale, di una società nella quale è diffusa la consapevolezza che il lavoro è un bene scarso da preservare, proprio per la rottura tra crescita economica/sviluppo da un lato e occupazione dall’altro.
I meccanismi del consenso, quindi, divengono più complessi e si fanno più pervasivi, invadono il tempo di lavoro e quello del non lavoro, agiscono attraverso meccanismi diretti e indiretti, per scelte consapevoli o per assecondare tendenze che si credono inconfutabili. Basterebbe un esempio per tutti e, cioè, la spettacolarizzazione della politica. La tendenza ad evitare approfondimenti o, per quanto riguarda la televisione a relegarli lontano dalle ore di massimo ascolto (fatti salvi i dibattiti tra i leaders che, di per sé, rappresentano un “evento” spettacolare, un duello al quale, al massimo, si può partecipare silenti tra le mura domestiche tifando per l’uno o l’altro), ha fatto scomparire o impallidire le figure degli editorialisti o dei reporter che ristabiliscono una “lettura”, seppur di parte, della realtà concreta. La scena, come sostiene il sociologo Pierre Bourdieu, viene occupata dall’animatore-presentatore. Tutto ciò risponde a meccanismi concreti, a logiche produttive dei mass media e non solo alla “cattiva volontà” di questo o quell’altro (che pur hanno forti responsabilità nell’accettazione di una omologazione della “produzione delle notizie” alle pure logiche di vendibilità e, cioè, del mercato).
Andrebbe indagato, comunque, perchè il sistema della comunicazione si sia così integrato nel meccanismo produttivo generale; perchè, nel suo agire, risponda non solo a logiche di schieramento culturale-politico ma, prima di tutto, a logiche intrinsecamente economiche e quali correttivi vadano messi in campo nell’attuale e concreta società capitalistica nella quale viviamo, in primo luogo sotto il profilo direttamente democratico e a garanzia del pluralismo. Le stesse legittimità e autorevolezza, che una volta risiedevano nella “serietà e completezza” dell’informazione, si sono oggi spostate verso il numero dei contatti e/o delle copie vendute, tralasciando, molto spesso, un giudizio sui meccanismi attraverso i quali si riesce a “vendere” un determinato prodotto informativo.
La campagna stampa contro Rifondazione Comunista durante la crisi, dunque, è frutto di un miscuglio, di un intreccio di fattori. Alcuni di essi, direttamente soggettivi, sono ascrivibili, appunto, non solo a posizioni differenziate dalle nostre (del resto legittime e non oscurabili) ma a veri processi d’omologazione e di costruzione del consenso come “servitù volontaria”; altri fattori, invece, derivano da aspetti strutturali in cui l’attuale sistema dei media è inserito. Sia sui primi, ma anche sui secondi, occorre intervenire per aprire spazi di reale pluralismo informativo. È a questo livello che si pone la questione del servizio pubblico radiotelevisivo e non per riproporre l’idea, astratta ed inesistente, di una informazione imparziale (che del resto non esiste e non potrà esistere), ma per garantire una parità di trattamento, una pari dignità tra posizioni politiche che vanno rappresentate per quello che sono e distinte dai commenti (come faceva il buon direttore di quella che veniva definita “TeleKabul”, con i suoi editoriali separati dal corpo apparentemente “neutro” del giornale): in altre parole, non è più sufficiente il semplice conteggio dei secondi concessi a questo o a quel partito. Noi siamo stati tra i più strenui difensori sia del ruolo sia della stessa sopravvivenza della Rai, intesa come azienda autonoma e pubblica, nel panorama comunicativo nazionale. Lo abbiamo fatto con la consapevolezza che lì si potesse riniziare a sperimentare forme della comunicazione sganciate dal modello commerciale, svincolate, cioè, dal meccanismo del consenso passivizzante e indicatrici di una nuova forma, di una nuova modalità di pensare e fare informazione, intrattenimento, cultura. I segnali che sono giunti, anche durante questa crisi, ma che, in generale, emergono nel panorama dell’offerta, evidenziano una sostanziale continuità con il passato, con il modello commerciale tout court. Occorre, quindi, uno scarto. Non servono semplici sanzioni amministrative contro questo o quello, ma un indirizzo forte che segnali un cambiamento di rotta. Ne abbiamo bisogno per la battaglia politica generale, sapendo che in questa modernizzazione capitalistica l’agire politico non può più essere separato da ciò che Hannah Arendt chiamava “la vita della mente”, evidenziando la consapevolezza che il sistema della comunicazione di massa (così fortemente capace di costruzione del sociale) non possa più essere separato dalla sfera politica, ma vada valorizzato come il terreno del conflitto nel quale il general intellect, incorporato nel lavoro vivo, è protagonista. Ma questo è il tema della prossima puntata.
Sergio Bellucci
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