Terza Consulta Nazionale
Conclusioni
Ma come sanno i compagni che hanno già partecipato ad altre consulte nazionali , queste non sono conclusioni vere e proprie sono, diciamo, l’ultimo contributo al dibattito di questa giornata, nel senso che la motivazione che ci porta a convocare queste nostre riunioni non è certo quella di tirare poi le fila e dare indicazioni strette per l’immediato, ma quelle di ragionare insieme senza schemi precostituiti, in modo libero, come hanno fatto da Roberta Reali8 nella sua introduzione fino ad Antonio Marturano nel suo ultimo intervento. Dibattito che, per qualche volta ci stacca un attimo dalla quotidianità schiacciante dei nostri compiti politici quotidiani e che tenta di dare, appunto, qualche traccia per l’uscita dall’emergenza, qualche piccola segnaletica nella indicazione della marcia che dobbiamo compiere tutti i giorni qualche volta anche ad occhi chiusi e al buio. Io mi scuserò quindi se nel mio intervento conclusivo oscillerò tra la descrizione di alcuni passi che caratterizzano questo sviluppo di questa fase ad accenni di analisi critiche dall’esistente alla voglia che ho anch’io di estrapolare le tendenze per svelare le finalità di fondo dei modelli di sviluppo, quindi nessuna conclusione organica per dare indicazioni di lavoro al partito in maniera immediata, anche perché il contributo dato da Alfonso Gianni e Roberto Musacchio svelano, in realtà, quella necessaria interdisciplinarità di questo lavoro che non può essere ricondotto nei termini della semplice nostra consulta,che però è un momento di dibattito che noi offriamo a tutto il partito. In modo particolare Alfonso Gianni richiamava il dibattito di ieri della Commissione Economica del Comitato Centrale. Una giornata importante, una giornata nella quale si è sottolineato il fatto che le analisi più avanzate sulle caratteristiche dello sviluppo post-fordista ancora non sono patrimonio collettivo di questo partito. C’è una distanza enorme tra un’analisi abbastanza consolidata e che se permettete lo sento ormai anche un po’ vecchia e un po’ stanca sul Significato di post-fordismo e però la quotidianità invece delle posizioni che circolano nel corpo vivo, materiale dei nostri militanti, dei nostri circoli e delle nostre federazioni. Quindi anche questa cosa, che ancora non è patrimonio collettivo, io la sento personalmente, ovviamente un giudizio del tutto personale, un po’ inadeguata. La sento attardata alla fine degli anni ’80, inizi anni ’90, quando i processi erano ancora caratterizzabili, appunto, con termini come post-qualchecosa. E’ come se il fordismo, il taylorismo fossero state definite la fase post-manifatturiera della fabbrica ottocentesca, no erano un’altra cosa, non potevano essere definite come post-manufatturiere quelle esperienze, avevano un paradigma dentro. Noi abbiamo risposto, alla fine anni ’70 inizi anni’80, al cambiamento dicendo: è post quello che conosciamo, ed invece era qualchecos’altro che sta qui, si sta incarnando, sta diventando qualche cosa. A me andrebbe bene comunque aver socializzato complessivamente nel partito l’analisi sul post-fordismo che ci propone Revelli, ma io la sento personalmente, ormai un po’ stretta, un po’ arretrata rispetto, appunto, ai meccanismi che avanzano. Diceva ieri Revelli, e io condivido molto il suo schema, che il fordismo va in crisi per due motivi di fondo. Il primo: la qualità e l’intensità delle lotte operaie nel decennio 1970, soprattutto diciamo la fine anni ’60 inizi anni ’70. E’ vero, il movimento operaio in quella fase arriva ad una critica talmente alta, che si mette a livello della progettazione del modello organizzativo. Riesce a produrre una critica talmente tanto forte all’impianto della fabbrica fordista da proporre le aree omogenee, un nuovo modello organizzativo, cioè siamo arrivati ad una fase nella quale il movimento operaio organizzato contrappone una nuova possibilità organizzativa alla fabbrica così com’è data in quella fase. Il secondo punto lui lo individuava nell’asse decentramento-nuove tecnologie e cioè sul fatto che la fabbrica un po’ per rispondere alle esigenze delle lotte operaie, un po’ perché le nuove tecnologie lo mettevano a disposizione tende a decentrare all’esterno della cinta del suo territorio, in maniera molte volte attigua, cioè stanno proprio lì fuori, fuori dai cancelli, pezzi del ciclo e li piazza in aziende che stanno esterne al suo ciclo medesimo. Io domando una cosa, la ho domandata ieri a Revelli, la domando qui a tutti noi e la metto a disposizione: qual è il fattore moltiplicativo però che rompe e fa determinare la fine del fordismo così come l’abbiamo conosciuto? Cioè qual è il fattore moltiplicativo che spinge a rompere un accerchiamento nel quale il modello si trova, ed aggirare anche la controproposta operaia di un nuovo modello organizzativo? Ecco questa credo che sia forse la domanda di fondo che dobbiamo porci tutti. Nei lavori preparatori del Capitale, Marx affrontò in maniera molto attenta, con uno studio approfondito, la qualità della tecnologia che era a disposizione e che produceva la nascita e l’avvento del ciclo produttivo capitalistico nella sua fase manifatturiera. E lui voleva tenere presente questo aspetto della qualità tecnologica perché sosteneva, appunto, che la qualità tecnologica segnava la qualità del modello di sviluppo. Ad esempio, tentiamo di analizzare, insieme, le caratteristiche tecnologiche degli apparati digitali che sono oggi a fondamento dell’ultimo quindicennio di sviluppo economico. Per chi lavora nel settore della informatica o in quello analogo delle telecomunicazioni, forse quello che sto per dire sono cose quasi scontate, elenco alcune caratteristiche delle tecnologie digitali. La prima: la flessibilità di programmazione, e cioè la rivoluzione del PC nasce quando dal PC strutturato per fare dei conti, si costruisce un cip che è programmabile per vari compiti. Abbiamo, cioè, una macchina flessibile che di volta in volta può fare delle cose, a seconda di quello che l’operatore decide che in quel momento la macchina debba fare. Il secondo punto: è la famosa legge, adesso, non ricordo il nome, scusate ma è un momento di defaillance pomeridiana, la riduzione dei costi del calcolo e della capacità di calcolo, per cui ogni anno abbiamo una tendenza al raddoppio delle capacità di calcolo e all’abbattimento dei costi del calcolo per unità di misura. II terzo punto: è la cosiddetta miniaturizzazione, cioè la riduzione dei volumi dentro il quale si fa un determinato lavoro. E, cioè, una maggiore capacità di calcolo per volume di apparecchiatura. II quarto punto: la tecnologia digitale e la riduzione del tempo, cioè la velocità di calcolo che aumenta vertiginosamente. Il quinto: è l’interconnettività, la possibilità, cioè, di connettersi con altre macchine che possano lavorare insieme o dialogare. E l’altra è l’interoperabilità, il fatto di avere dei programmi che funzionano sia nella tua macchina, che in altre macchine. Allora io propongo un parallelo, che ovviamente non vuol significare assolutamente nessun determinismo tecnologico, me ne guardo bene. Da una parte abbiamo appunto termini come flessibilità, riduzione dei costi , riduzione dei volumi, riduzione dei tempi, interconnettività e interoperatività. Facciamo il parallelo di quali sono le caratteristiche dello sviluppo della cosiddetta globalizzazione . Flessibilità, riduzione dei costi, riduzione dei volumi, downsizing, riduzione dei tempi, just and time, “interoperitività” la globalizzazione e la mondializzazione. Ecco qui che la qualità della tecnologia diviene qualità del modello di sviluppo. Così improvvisamente, scopriamo che la caratteristica del cip, che pensavamo così alcuni neutra, alcuni ovviamente pensavano neutra, guarda caso quelle caratteristiche intrinseche di quel prodotto diventano immediatamente le caratteristiche dell’intero modello produttivo con il quale facciamo i conti. Dalla flessibilità delle mansioni alla riduzione dei costi e alla riduzione del volume delle aziende e al fatto che la produzione deve essere fatta just and time, al fatto che ogni persona e ogni azienda deve essere interconnessa e interoperativa con le altre aziende per fare la famosa azienda a rete. E Marx non a caso aveva posto una forte attenzione sulle condizioni dello sviluppo capitalistico attraverso le condizioni tecnologiche, perché proprio questo parallelo indica un percorso e una qualità di questo percorso . La manifattura dell’800 moltiplicativa che cosa? E non a caso si chiama mani-fatturiera, moltiplicava la capacità del saper fare operaio, il poter fare operaio, cioè dava alle mani operaie uno strumento in più per. Le caratteristiche della fabbrica fordista-taylorista sono la sua razionalizzazione di questo saper fare, attraverso lo spezzettamento del ciclo in moduli omogenei e ripetitivi. E possiamo praticamente dire, ovviamente in termini molto schematici, che in quella fase la meccanizzazione fa sussumere lo strumento tecnico nel ciclo del capitale. Ma è lo strumento che sta attaccato alle mani del lavoratore che viene sussunto, in qualche modo, dentro il ciclo. Le tecnologie digitali, invece propongono un salto paradigmatico, perché portano alle estreme conseguenze questo modello di sussunzione da parte del capitale. Perché la sussunzione arriva ad inglobare nel ciclo intere mansioni , cioè la figura umana in quanto tale scompare , quel lavoro viene de-materializzato e inglobato nella macchina, nel software e cioè una quota crescente di lavoro vivo viene inglobata nella flessibilità di che cosa? Della programmazione digitale del software che fa funzionare una macchina, come se le mani e la mente di quel lavoratore possano essere in qualche modo trasformate in un programma che fa funzionare la vecchia macchina manifatturiera. Per questo io, ad esempio, ho una critica da fare anche a quello che diceva Alfonso Gianni nel suo intervento, io credo che ci siano meno lavoro nel pezzo che viene prodotto oggi, c’è meno lavoro vivo in carne e ossa, ma c’è molto lavoro vivo de-materializzato e inglobato dentro il software, che siccome è gestito con quelle logiche di flessibilità ,di accelerazione dei tempi consente una riduzione dei tempi di produzione, ma il lavoro c’è. La macchina oggi, la bravo e la brava, rispetto alla 126 di 20 anni fa, non ha meno strutture, c’ha le stesse, forse anche qualche aggeggio in più dentro. Quindi, c’è più lavoro, però ci sono molto meno lavoratori vivi che la producono, perché quel lavoro, quello che faceva la verniciatura, che faceva la saldatura ecc…, è stato inglobato in un lavoro digitalizzato come se l’operaio massa fosse diventato un pezzo del software del computer globale che produce l’auto. All’inizio della discussione sul post fordismo, un attento studioso David Lion proponeva, in un suo importante libro: “La società della informazione”, uno schema non suo che richiamava quella che appunto e’ definita come la tecnologia di definizione ( la abbiamo già affrontato in altre riunioni della Consulta Nazionale). Che cos’è una tecnologia di definizione? E’ una tecnologia nella quale l’uomo pensa di potersi incarnare. Nell’era meccanica, voi sapete, tecnologia di definizione, dicono appunto i teorici di questa definizione, nell’era meccanica quella governata dalla razionalità weberiana, diciamo la tecnologia di definizione era l’orologio, cioè l’uomo si pensava come una serie di levette e rotelle che funzionavano e potevano farlo vivere. Famoso in questo senso è, lo abbiamo più volte detto, il bellissimo film di Fritz Lang “Metropolis”, dove l’individuo viene proprio fisicamente prodotto come una serie di rotelle e ingranaggi che funzionano. Nell’era digitale, quella non più governata dalla razionalità weberiana, ma dalla teoria del caos, la tecnologia di definizione, cioè il modo con cui l’uomo si pensa, non è l’orologio, ma il computer. Cioè l’uomo digitale, in qualche modo, diciamolo così. Qual è l’immagine che l’uomo ha di sé? L’immagine che l’uomo ha di sé è di un’entità, chiamiamola così, in grado di avere una serie di informazioni dall’esterno dai suoi sensi, il tatto, l’udito, la vista, l’odorato e così via, che vengono trasformati in informazioni, che vengono inglobate nel cervello, trattate più o meno e in base a questo, poi noi agiamo, ci comportiamo. E’ molto più generalizzato e diffuso di quanto si possa immaginare questo nostro modo di sentirci , questa tecnologia di definizione. A mio avviso, questo è il punto sul quale c’è la rottura epistemologica della fase che stiamo attraversando, c’è proprio un paradigma nuovo che si sta definendo nel quale la gente è molto più avanti delle nostre analisi, molto più avanti, in questo concordo tantissimo con le cose che diceva Alfonso nel suo intervento. Molte volte rischiamo noi, per tentare di dare un’occasione di lotta di offrire invece una lettura talmente arretrata che non viene vissuta come una lettura reale della loro vita, perché appunto propone schemi che quasi ricalcano l’uomo orologio e non l’uomo computer. Allora dentro questo quadro, a mio avviso, c’è il tema del telelavoro, o meglio io direi, come sto tentando di dire da un po’ di tempo di derubricare questa vicenda del telelavoro e di definirla come il lavoro ai tempi del computer, o meglio del lavoro ai tempi del computer in rete , perché forse questo avrebbe qualche significato in più dell’utilizzo della parola telelavoro in maniera “tuttattaccata” così come un termine nuovo come una vera e propria fenomenologia pragmatica esterna all’attività produttiva, quasi un neologismo che gronda di una staticità gerarchizzante e che promuove un nuovo modello di gerarchie. Alcuni ricercatori americani, qualche anno fa, avevano proposto in un bel saggio di unire tre concetti per definire la nuova fase nella quale stavamo: calcolatori, reti , lavoro. Io credo che questa sarebbe una definizione più idonea per capire il processo che abbiamo avanti. Perché il lavoro e i tempi hanno in qualche modo connotato anche il quadro dell’introduzione delle macchine automatiche per la gestione dell’informazione nella vita quotidiana e nel ciclo produttivo e forse perché se parliamo un po’ meno di telelavoro e un po’ più della condizione del lavoro ai tempi del computer, probabilmente siamo in grado di avere una chance in più di riaprire un varco critico, di movimento e di critica all’attuale fase. Perché credo che l’errore più grande che possiamo avere davanti è quello di accettare una sorta di oscuramento in questa fase di transizione ove credo che la toponomastica dell’introduzione delle tecnologie digitali nel produrre nella vita quotidiana non è ancora omogeneo, sia sul piano orizzontale e cioè sul territorio terrestre, sia su quello verticale in aziende e in settori di lavoro. Abbiamo cioè bisogno di avere una toponomastica nuova che individui questi nessi tra lavoro e nuove tecnologie per evidenziare punti di rottura, le linee di tensione e di tendenza, deporre segnaletiche che indichino le strade di comportamento per chi ha un’alterità di pensiero rispetto a quello unico. Quindi, come diceva Raffaele Barberio, nessun determinismo tecnologico e neanche nessun rifiuto nelle nostre impostazioni. Siamo davanti ad un nuovo paradigma che può avere esiti come più volte capita nella storia, esiti reazionari, esiti conservatori, o esiti di cambiamenti profondi esiti rivoluzionari. Allora la digitalizzazione e questo nuovo paradigma digitale o, per dirla con Pierre Levy, il “trattamento digitale delle realtà” come l’attuale rispetto ai possibili mondi che abbiamo davanti, che noi abbiamo definito nella scorsa consulta attraverso 6 livelli , ma forse ce ne sono di più, bisognerebbe aumentare la nostra capacità d’indagine e di ricerca, avevamo definito nella scorsa riunione della consulta rispetto ai processi della digitalizzazione come cambiano i meccanismi della comunicazione, della produzione, della sussunzione del lavoro, l’aumento della componente in materiale nelle merci, l’estensione della digitalizzazione nella vita quotidiana, addirittura l’estensione del tempo di lavoro a quello di non lavoro, come dicevamo l’altra volta, e cioè della possibilità nel mentre si combatte nella produzione classica per la riduzione dell’orario della conquista di spazi enormi di orario di non lavoro occupati dall’orario di lavoro, facevamo l’altra volta l’esempio del meccanismo pubblicitario che comincia a essere sperimentato in internet, nel quale un individuo è pagato direttamente per assistere ad uno spot. Voi sapete che le grandi aziende fanno spot e impiegano migliaia di miliardi per produrre spot che devono essere visti dalla gente, qualcuno ha cominciato a dire ma perché devo pagare una televisione per trasmettere uno spot per farlo vedere a quello? Io contatto quello, gli dico se mi guardi lo spot io ti pago mezzo dollaro, per cui per 15 secondi tu mi guardi lo spot e io ti faccio avere quel mezzo dollaro, io ho speso sempre la stessa cosa, sono sicuro di aver raggiunto quella persona, gli ho occupato 15 secondi della vita e quindi ho innescato un meccanismo di retroazione nei suoi comportamenti e comunque sono una azienda che ha raggiunto direttamente l’obiettivo. Pensate questo moltiplicato per migliaia di aziende, moltiplicato per la rete come sarà tra 20 anni e pensate che forse tra 20 anni ci sarà qualcuno che tornerà a casa, dopo l’orario di lavoro per fare nell’orario libero un po’ di straordinario televisivo attraverso la rete. Ma insomma dicevamo questo perché, per segnalare che cosa? Che sia i prodotti che il lavoro tendono ad aumentare la componente di bit, come diceva qui Gianfranco nel suo intervento, tendono ad aumentare la componente di bit cioè di parti digitalizzate del lavoro in modo particolare se pensiamo ai meccanismi della cosiddetta automazione ricorsiva cioè il fatto che le macchine automatiche che producono le merci sono prodotte oggi da macchine automatiche che producono quelle macchine automatiche. Quindi diciamo, siamo in un meccanismo di moltiplicazione enorme che probabilmente accelererà ad una quantità di tempo inimmaginabile fino a pochi anni fa il processo di de materializzazione del lavoro, di inglobamento del lavoro dentro il software. Ma questa sussunzione che è avvenuta in quest’ultimo quindicennio, questa smaterializzazione del lavoro che è avvenuta in questo quindicennio, è venuta tutta e solamente a danno della dimensione sociale del lavoro, e cioè dell’idea che il lavoro sia il luogo della valorizzazione individuale e sia il luogo della distribuzione della ricchezza che si produce nel sistema complessivo. Questo è il punto, a mio avviso, di rottura, rispetto alle altre tecnologie dell’industria manifatturiera e dell’industria fordista. L’industria manifatturiera, l’industria fordista davano uno strumento in più alle mani e, quindi, è vero che moltiplicavano la capacità ma moltiplicavano anche la capacità di quelle mani di contrattare rispetto al padrone dell’azienda. Se quelle mani vengono smaterializzate e diventano un software, quelle mani non contrattano più, aumentano la loro capacità produttiva ma non contrattano più nulla. Allora tutto questo monte ore che è stato sussunto nel ciclo e che non viene più retribuito né sul piano del salario diretto, né su quello differito, né sul trattamento sociale è stato un furto enorme, un furto gigantesco, è valso 800000 miliardi di dollari di capitale finanziario che circolano oggi nelle banche del mondo trattate tra l’altro con bit da un mercato borsistico all’altro. Cioè questa sussunzione è avvenuta solo a danno della dimensione sociale del lavoro e allora qui va introdotto un correttivo. Dobbiamo, quindi, intenderci su cosa significa telelavoro. Niels propone ad esempio una terminologia, dice ” ogni forma di sostituzione o di spostamento di lavoro con tecnologie dell’informatica”. De Masi ne propone un’altra dice:” qualsiasi attività che è svolta lontano dalla sede del proprio ufficio-azienda anche senza strumenti telematici “. Ora, questa che propone De Masi, voi capite bene, è una cosa vecchia come il mondo, non c’era bisogno né delle tecnologie digitali, né di altre cose, insomma, o di altre frontiere dello sviluppo per dire che esiste il telelavoro, allora il telelavoro è sempre stato telelavoro., anche il venditore porta-a-porta; anche i fenici quando prendevano le loro merci e si mettevano con le anfore sulle navi in giro per il mediterraneo facevano telelavoro, perché lasciavano il luogo dove si producevano le anfore, le andavano a vendere in giro, erano i primi telelavoratori, forse, che la storia ha conosciuto. Io credo che la prima definizione sia più compatibile e, cioè, ogni volta che un pezzo di lavoro umano scompare fisicamente dal luogo di lavoro dove sta lì, ma si mantiene quel pezzo di lavoro che scompare in stretta relazione con un ciclo produttivo, cioè non è che scompare perché quella mansione non si fa più, scompare perché non sta più lì, viene fatta da un’altra parte, e questo allontanamento dal fisico e non economico dal ciclo avviene attraverso uno strumento telematico, forse siamo in presenza di un telelavoro. Mi domando: importa la distanza al quale viene trasferito questo pezzo del ciclo? Importa chi sta dall’altra parte e sta svolgendo quel pezzo? In altre parole se il 12 lo fa lo stesso lavoratore che sta nella città dove è stato remotizzato? O se quel lavoratore decide di andare a vivere a Bruxelles, pur mantenendo il contatto di lavoro con Telecom, alla Telecom cambia qualcosa? Credo che alla Telecom non cambi praticamente nulla. E se in quel momento al 12 risponde il dipendente o il familiare del dipendente, importa qualcosa alla azienda? O se addirittura il lavoratore è talmente tanto bravo che riesce a costruirsi un piccolo software di risposta automatica a quello che chiama, all’azienda importa qualche cosa? No, il ciclo rimane esattamente come prima, cioè abbiamo ad un certo punto una deviazione, avviene in un certo luogo, la fa una qualunque agente, ritorna insieme l’informazione e il ciclo riprende. Se questo è il telelavoro e mi sembra che queste sono le caratteristiche che cominciano ad affermarsi come telelavoro, allora io dico in modo molto esplicito che ogni volta che noi instauriamo un nuovo software dentro un’azienda, immettiamo un ciclo di telelavoro, che è localizzato più o meno nel cyber-spazio collettivo, ma molte volte è localizzato dentro l’hard-disk del computer che sta lavorando lì dentro quella macchina, dentro quell’ufficio. Cioè viene preso un pezzo del lavoro, quello che prima faceva la prima nota e che stava lì con i conti, se arriva il nuovo software e lui non fa più quei conti e dopo un po’ in quell’ufficio invece di 4 persone ci lavorano in 2, quelle 2 persone che prima stavano lì stanno dentro la macchina , è del telelavoro che è, come dire, sussunto dentro il ciclo, sul quale non si pagano più oneri, non si paga salario, non si paga più nessun tipo di cosa. Allora, io credo che, forse, se facessimo questi conti, ovviamente per estremizzare, la quantità di telelavoro che c’è oggi nel mondo sarebbe gigantesca, pensate a quanti lavoratori, a quanti colletti bianchi sono oggi immagazzinati dentro software che vengono utilizzati comunemente dentro i nostri uffici. O a quanti operai sono oggi, come dire, sussunti dentro un software che produce una macchina oppure un qualsiasi altro aggeggio. Allora forse il conto andrebbe fatto in maniera diversa, anche sotto il profilo sociale, vedete secondo me siamo ancora nel classico schema del plusvalore marxiano, dove però noi affrontiamo soltanto quello classico del plusvalore assoluto, cioè quello dell’orario e non affrontiamo, invece, quello del plusvalore relativo e cioè quello relativo all’innovazione tecnologica. Questo mi sembra il punto sul quale il movimento operaio non è riuscito per incapacità culturale forse nel decennio scorso a porre l’accento e a porre la battaglia. E io personalmente sono convinto che noi siamo soltanto alla fase iniziale di questo ciclo. Siamo soltanto alla fase iniziale di questo paradigma, come dicevo all’inizio l’analisi sulla fase post-fordista è appunto post, ma non è la fase sull’analisi della situazione del paradigma digitale, è soltanto quella post. E infatti il telelavoro, come le caratteristiche dello sviluppo post-fordista si caratterizzano in questa fase come un mix, classico della vecchia triade parcellizzazione, cooperazione, controllo che guarda caso,insomma, voglio dire, ha qualche decennio ormai di vita; siamo, a mio avviso, nella fase nella quale dalla vecchia fabbrica fordista siamo passati ad un momento di produzione transitoria dove accanto al ciclo classico si è applicato, appunto, la potenzialità del nuovo paradigma digitale con una sorta di, io lo definisco così, “il nuovo taylorismo digitale”, ma che non è la nuova possibilità ancora che avremo davanti nei prossimi anni di destrutturazione del lavoro. Cioè se siamo passati dal controllo del ciclo al controllo delle informazioni sul ciclo come diceva qui qualcuno prima, adesso non ricordo chi, nel suo intervento : Mi domando: ma il ciclo che cos’è se non le informazioni sull’avanzamento della produzione della merce? Quando uno controlla il ciclo che cosa fa ? controlla l’avanzamento del livello della finitura della merce, i tempi le modalità, dove sta, a quanto sta e cosa c’è di diverso oggi nella produzione taylorista digitale? Ancora molto poco, stiamo in una fase in cui coesiste il vecchio e il nuovo che ancora non è ma che comincia ad accennare alla sua nascita. Diceva Gemma Contin nel suo intervento che lei definisce questa come la “rivoluzione quaternaria”. Io non so, forse è così, in questi anni tanti hanno tentato di dare delle interpretazioni, io non mi azzardo a fare una proposta di nome, mi va bene anche la tua se per questo intendiamo il fatto che stiamo alle soglie di un nuovo paradigma che si basa su questa flessibilità della tecnologia digitale. Se è questo a me va bene, questa definizione. 6 o 7 anni fa, all’inizio di questa nuova fase di accelerazione dello sviluppo capitalistico quando ancora non si iniziava quasi a parlare di post-fordismo, se non in ristrettissime cerchie intellettuali, il MITI (il ministero della programmazione economica giapponese), uno strumento di governo enorme per capacità e impatto di direzione dell’economia in quella nazione, generò una relazione sui computer della sesta generazione, loro ogni tanto fanno queste relazioni in cui danno le indicazioni di sviluppo tecnologico alle aziende . Credo che sia stata l’ultima che ha fatto il miti su la qualità dello sviluppo dell’informatica. Ma là dentro, guardate, c’era assolutamente tutto, tutto quello che noi oggi stiamo, in qualche modo, discutendo affannosamente per tentare di recuperare. Loro affermavano che solo la nascita della rete come strumento di dialogo diretto tra produttore e consumatore annullando tutto il meccanismo del mercato sia da una parte che dall’altra, cioè sia sotto la forma della conoscenza delle volontà del consumatore: il marketing… le tecniche di comunicazione etc. ; sia sotto quelle della distribuzione e quindi tutte le centrali di accumulazione, immagazzinamento etc. Fino ad arrivare al distributore finale, quelle cose lì devono essere corto-circuitate, altrimenti non creano più margini per lo sviluppo. Guardate che nel giro di pochissimi anni, quella semplice affermazione del MIT è diventata uno degli imperativi più potenti del modello di sviluppo a cui stiamo assistendo. Certo ancora non portato alle estreme conseguenze la reificazione come diceva Fausto Minniti ancora non è diventata uno strumento di massa, forse non lo sarà mai neanche nelle condizioni globali se per questo pensiamo che i due miliardi e400 milioni di individui potenzialmente in grado di lavorare saranno tutti quanti con la loro postazione di telelavoro potenziale, ma io credo che siamo però molto avanti nell’accettare quello come la modalità nuova cui tende tutto il sistema produttivo. Lì dentro c’erano anche delle indicazioni di vere e proprie contraddizioni che il sistema ha, cioè il MITI diceva questa è la tendenza ma ci sono anche contraddizioni forti che si aprono con questa tendenza, lo diceva il MITI ovviamente, allertando le aziende per dire, una la ricordo così a mente diceva:” attenzione il lavoratore che deve lavorare in un ‘azienda di queste caratteristiche deve essere iper-flessibile, cioè quello che ci dice oggi la CISL o la Confindustria, dev’essere, cioè, uno che lavora quando il lavoro c’è, alle condizioni che l’azienda gli impone, nelle ore che l’azienda gli impone, quando non c’è altro, si inventerà qualche altra cosa nella vita. Quindi una ameba che funziona soltanto come residuo non digitalizzato della produzione, chiamiamolo così “non digitalizzabile”. Però lo stesso MITI diceva attenzione che quello che voi volete come lavoratore e cioè una ameba che non è in grado di avere una sua personalità e una sua capacità di autonomia forte, però paradossalmente anche il vostro consumatore che deve essere invece in grado di utilizzare quelle tecnologie, dev’essere culturalmente preparato perché i prodotti dei prossimi anni saranno sempre più materiali e cioè prodotti ad alto contenuto informativo, dev’essere in grado di scegliere, cioè dev’essere una persona capace, brava etc. Quindi questi due modelli non sono gli stessi, il rischio è che la soluzione che sta dando a questa contraddizione rilevata dal MITI, il mercato è una divisione in due della società, dove il consumatore ha quelle caratteristiche e il lavoratore quell’altre, in un mercato globalizzato dove non c’è più bisogno che il consumatore e l’azienda produttrice insistano sullo stesso territorio, ma possano essere distribuiti in tutto il mondo. Questa è una contraddizione forte sulla quale noi dovremo lavorare. Serve, a questo punto, quindi una […]
e chiudo, su questa struttura tecnologica che ha queste caratteristiche sulle quali cominciamo ad avere finalmente qualche piccolo barlume di conoscenza, serve però sia per noi che per il capitale una teoria. Il taylorismo è stata la teoria del fordismo, quando Taylor codificava delle cose, delle norme improvvisamente nasce un modello fabbrica che ha quelle caratteristiche che hanno poi l’egemonia su tutta un’intera fase. Credo che noi siamo in una situazione analoga dove il rapporto tra taylorismo e fordismo , che abbiamo conosciuto all’inizio di questo secolo è equivalente in qualche modo al rapporto che c’è tra la rete e il nuovo paradigma che secondo me è racchiuso nelle intranet. Io non credo che internet sarà quello che ci viene oggi descritto dai giornali e dalla pubblicistica generale, e dalla informazione. Internet non sarà lo strumento di intrattenimento interattivo di cui parla Bill Gates o parla qualcun altro. Non sarà uno strumento che uno ha a casa per studiare, per comunicare con gli altri, per fare un po’ di svago, caso mai interattivo, per un po’ di curiosità, questi sono gli aspetti folkloristici di questa fase. Ma, accanto agli aspetti folkloristici di questa fase, cominciano a concretizzarsi le letture produttive di questo paradigma. Lentamente internet si è trasformato in intranet, cioè in una struttura produttiva che ha la logica di internet, ma serve per produrre, con logiche ipertestuali che hanno questa forma produttiva qui, nella quale la pervasività sociale è della fabbrica che richiamava nel suo intervento, non ricordo più… su americanismo e fordismo di Gramsci, questa mattina, sarà probabilmente portata alle estreme conseguenze, perché se la pervasività sociale della fabbrica gramsciana si fondava sull’accettazione implicita della tecnologia di definizione, la tecnologia di definizione dell’orologio era molto più brutale e molto meno, come dire, similare a quella che oggi è la tecnologia di definizione che è socialmente accettata. E cioè se si accetta l’orologio nel 1930 – 40, come tecnologia di definizione e allora si accetta anche la disumanità della fabbrica, con forte accento di motivazione soggettiva nella accettazione di un modello socio-individuale, come diceva Alfonso Gianni nel suo intervento. Cioè ci voleva proprio uno sforzo per andare a lavorare dentro la fabbrica, in quelle condizioni, cioè si accettava quello come il modello come unica modalità del vivere, pensate quello che si può ottenere con un modello molto più sofisticato di tecnologia di definizione che attiene addirittura alla struttura della mente. E, cioè, la tecnologia di definizione del computer. Se si accetta la fabbrica disumanizzata fordista, pensate quello che potrà accadere invece con la destrutturazione che utilizza le strutture casuali dell’accesso all’hard-disk, la tecnologia random con il quale si va casualmente a prendere un dato e poi da lì si parte. Dei rapporti umani, sociali e produttivi che fanno preludere a quel modello. Se noi ci immaginiamo come dei computer e i computer funzionano con la logica random, allora accettiamo anche che si può sparare da una finestra e uccidere un passante qualsiasi, non c’è proprio nessuna differenza, è il meccanismo , è il caso è il fato è lì che è caduto il punto e lì va e da lì si riparte. Quindi siamo ad una fase finale del fordismo, forse agli esiti più avanzati di esso, ma tra pochissimo tempo avremo la possibilità di svelare, anche con la consapevolezza di massa, la qualità del nuovo sviluppo. E guardate che, non ricordo se lo diceva Roberto Musacchio nel suo intervento, leggevo nella rivista “Virtual”, che in Italia è una delle riviste più attente alle tendenze della rete, che si stanno generando nel mondo, che siamo alla divulgazione delle tecnologie in 3 dimensioni per la rete delle reti, cioè stiamo ormai ad una dimensione di internet tridimensionale. Questo sarà un salto enorme perché tra pochissimi mesi, ognuno di noi se ha il suo terminale( mi sembra da quanto sfogliato tra le schede dei partecipanti mi sembra che ci siano molti che hanno una loro INEIL, una loro possibilità di un sito, almeno tra i presenti in questa sala). Tra pochissimo tempo noi saremo rappresentati in rete in maniera tridimensionale, potremo partecipare in maniera interattiva con quelli che vengono chiamati gli “AVATAR” cioè delle figure simboliche che noi ci scegliamo come rappresentanti nella rete. Potremo vagare nelle piazze del cyber-spazio che si creeranno in giro, che in realtà già esistono, non è diffusa a livello di massa tra quelli che girano in Internet questa tecnologia, ma ormai è una questione di pochissimi mesi. Allora, tra pochissimo tempo, noi saremo in grado di avere sulla rete la distribuzione e l’introduzione dei lavori in telepresenza. In modo così, quasi naturale, senza neanche tanto clamore forse la mattina ci sveglieremo e accendendo il computer parteciperemo quasi ad un caporalato digitale gigantesco su scala globale, che non riguarda gli ingegneri, come veniva ricordato mi pare nello intervento di Roberto Galtieri , che insomma una ricerca tra iper-specialisti nel mondo e chi si sveglia prima prende il lavoro. No, lì riguarderà probabilmente lavori della presenza come il 12, cioè uno si sveglia e dice oggi che faccio? Il 12 , perché per una giornata di 12 di risposta la Telecom mi da , non so 25000 l. Più iva. E mi scelgo di fare quello, non ho trovato nient’altro e spero col mio input di arrivare prima di quello che sta nella casa accanto. E questa cosa sarà probabilmente molto più comune di quanto noi possiamo immaginare oggi e molto meno controllabile sotto il profilo giuridico (e su questo sono d’accordo con Antonio Marturano), forse qui regole etiche-deontologiche arriveranno prima delle regole giuridiche di governo. Perché le norme etiche e deontologiche possono attraversare le nazioni, regole giuridiche rimangono chiuse lì, stabilite dentro quel territorio, ma nel territorio accanto le regole sono altre, la destrutturazione possa immediatamente nella rete. Allora, se questo è probabilmente , la qualità dello sviluppo io non so neanche se la soluzione sia quella del calcolo di quanti mega-byte uno ha lavorato durante il giorno. Forse, non lo so, che questo qui ad esempio oscurerebbe la qualità di quei mega-byte, se dentro c’è una semplice risposta vocale ad un interrogativo di ricerca di numero o se quei mega-byte contengono la formula della bomba atomica, insomma non so se si possono pesare nello stesso modo quelle quantità di mega-byte . Però dico che c’è un problema che riguarda tutti noi su come si controllerà questo traffico, su come ad esempio si controllerà nella rete il fisco. Guardate noi discutiamo tanto, ieri veniva dato un esempio nella commissione economica del comitato centrale, un esempio illuminante. La BMW agli inizi degli anni ’90 pagava 430 milioni di marchi al fisco in Germania, l’anno scorso credo che abbia pagato 30 milioni di marchi, il prossimo anno chiederà in restituzione dallo stato tedesco 30 milioni di marchi. Perché la sua capacità di delocalizzazione fa si che mettano i profitti dove il regime fiscale è favorevole e mettono le perdite dove il regime fiscale è più forte. La Siemens già vanta dei crediti in questo senso, una delle più importanti aziende del mondo di comunicazione oggi è in grado di essere creditrice nei confronti dello stato tedesco. E stiamo parlando di aziende che sono fisicamente sul territorio. Immaginate le aziende che invece non avranno una localizzazione territoriale perché saranno fatte di relazione tra persone distribuite nel mondo, che hanno il loro produrre nella rete e i loro acquirenti nella rete . Saranno praticamente irrintracciabile dal fisco. Altro che problemi di evasione fiscale che abbiamo noi oggi in Italia. Quindi, io non so se la stagione di lotta della fase digitale sarà quella dello spegnimento dei computer, forse. Forse ci troveremo nella condizione che per fare uno sciopero basta alzarsi dal letto e spegnere il computer che ci abbiamo a casa, che nel frattempo può essere stato aperto tutta la notte a fare un telelavoro di ricerca di lavori sulla rete. Faccio un esempio, uno sciopero generale di queste condizioni non potrebbe configurarsi che con lo spegnimento dei computer sul territorio mondo. Perché uno spegnimento di computer in un’area geografica soltanto probabilmente porterebbe solo ad un’altra localizzazione la ricerca del lavoro e l’offerta e la domanda e la richiesta e l’incontro tra la necessità produttiva dell’azienda globalizzata e il mercato del lavoro. Allora forse questa cosa segnala un’urgenza che qualche anno fa, qualcun’altro poneva su l’unita’ del proletariato mondiale, digitale o meno che sia e che forse avrà anche bisogno di nuove forme politiche per affrontare questa fase. Io credo che dobbiamo sforzarci, come diceva Alfonso Gianni nel suo intervento, di valutare gli esiti più alti che questo modello di sviluppo ha, cioè le tendenze e le estrapolazioni più alte che sicuramente saranno tarpate dalla logica capitalistica di questo sviluppo. E quindi su quello lavorare. Ad esempio noi non abbiamo , questo è un invito al sindacato, lavorato in questi anni per utilizzare il fatto, e ritorno alla cosa sulla quale avevo aperto, che il punto più alto del movimento operaio è stato quando si è posto in termini di contro-organizzazione della fabbrica fordista, proponendo altri modelli di organizzazione. Oggi le tecnologie informatiche potrebbero prevedere nuovi modelli di organizzazione orizzontale, una contrattazione orizzontale per destrutturare i livelli gerarchici presenti nella produzione delle gran di aziende e anche delle piccole aziende. E su questo non si fa nulla. Quindi dovremmo recuperare questa nostra capacità progettuale dei lavoratori perché io credo che soltanto così daremmo una chance ai lavoratori per conquistarsi condizioni migliori e per dare una interpretazione più umana a questa tendenza dello sviluppo che comunque se non ci opporremo, in qualche modo in maniera intelligente, subiremo in maniera drammatica.
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