World Trade Organization

Convegno di Palermo – 20-21 giugno 1997

Seconda giornata

 

INTERVENTO DI SERGIO BELLUCCI – RESPONSABILE DEL DIPARTIMENTO COMUNICAZIONE DI MASSA DEL PRC

 

Il compagno Vinci, nel suo intervento, accennava all’implicazioni della liberalizzazione degli scambi dovute ai protocolli siglati, negli ultimi decenni, in ambito prima del GATT e poi della World Trade Organization (organizzazione mondiale del commercio). Credo che, nell’ambito di quegli accordi, oltre alla liberalizzazione degli scambi sui prodotti e servizi sui quali si sono siglati accordi, si sia generata una sorta di “obbligatorietà” del cambiamento del paradigma produttivo, che propone quell’interpretazione di tali processi come quelli della globalizzazione. Per brevita’, ovviamente, non mi posso soffermare sui contenuti di tale processo che, sommariamente, definisco come un processo di smaterializzazione del lavoro. Tale processo, che si e’ avviato da poco con quello che conosciamo e che piu’ in generale e’ definito come decentramento produttivo: la costruzione di aziende a rete, l’avvento del cosiddetto telelavoro sia attraverso strutture non legate direttamente al tessuto produttivo territoriale nel quale sono inserite, sia a livello individuale, fino ad ipotizzare, addirittura, la nascita di una sorta di un nuovo lavoro, quello interinale telematico, offerto sulla piazza mondiale. Lo stesso uso della parola telelavoro, infatti, in particolare se usata come un neologismo (cioè,  come un’unica parola), segnala un “oscuramento”, un’introduzione camaleontica di una nuova fenomenologia paradigmatica, che evidenzia l’affermazione di un neologismo che gronda di una staticità gerarchizzante e neo-gerarchizzatrice. Più corretto sarebbe parlare del “lavoro ai tempi del computer” e, ancora più correttamente, del “lavoro ai tempi del computer collegati in rete”. Questa definizione, infatti, rimette al centro l’uomo, ridà alla sua attività socializzante primaria (cioè,  il lavoro e il tempo di lavoro) la sua natura, che prescinde dalla tecnologia del momento, anche se con essa fa i conti necessariamente. “Calcolatori, reti e lavoro”, quindi, se vogliamo usare il titolo di un bel saggio di Lee Spoul e Sara Kiesler del novembre del 1991, perchè abbiamo bisogno di evidenziare (o, se si vuole, di svelare) le caratteristiche sociali che hanno connotato l’introduzione delle macchine automatiche per la gestione dell’informazione.

La destrutturazione a cui siamo davanti, quella delle “forme” (e della loro percezione) nelle quali si era concretizzato il rapporto capitale-lavoro nella “codifica” della fase industriale classica, ha assunto, a livello di massa, una sorta di “naturalità”, segnalando una vittoria egemonica di un modello, ottenuto con quello che Gramsci definì la più imponente costruzione di un soggetto sociale (e il teorico italiano non aveva potuto misurare la capacità pervasiva del modello fordista-taylorista integrato con l’apparato dei media commerciali per come si è sviluppato in particolare dal secondo dopoguerra in poi. Una destrutturazione che è figlia anche della rottura del quadro scientifico classico (il rapporto causa-effetto) introdotto da tre grandi filoni scientifici: la psicologia, la fisica quantistica, la biologia. Insomma da Freud a Poincarrè, da Watzlawick a Prigogine. La sostituzione del paradigma causa-effetto (attraverso la progressiva emersione di un vero e proprio nuovo paradigma cognitivo basato sulla “gestione del caos”) fu sussunto più rapidamente nel processo produttivo di quanto fosse possibile, sul piano teorico, comprendere cosa avrebbe significato e divenne dirompente nella sua vulgata economico-sociale in assenza di un “aggiornamento” teorico degli apparati critici.

Il concetto di telelavoro, in poche parole, ingloba l’accettazione di quel processo di smaterializzazione del lavoro vivo che è al centro della “crisi” del modello di sviluppo che caratterizza l’attuale capitalismo mondiale. Infatti, l’accentuazione del suffisso “tele” implica la “sudditanza” del sostantivo “lavoro” e la “teorica” accettazione della sua digitalizzazione o, in altre parole, della sua progressiva smaterializzazione. Il lavoro, dopo aver subito una smaterializzazione coatta (diversa dalla meccanizzazione della prima fase d’industrializzazione poichè dissolve la sua materializzazione meccanica) con l’avvento della digitalizzazione (il controllo numerico di macchine automatizzate) si riesce a sussumere nella macchina, non solo alcuni movimenti del lavoro (meccanizzazione), ma il vero e proprio “saper fare”, cioè,  l’intelligenza lavorativa in quanto tale. La condizione “materiale” del lavoro si generalizza nella progressiva digitalizzazione delle sue parti, in un processo di “omologazione” al ribasso nella quale l’autonomia dell’individuo si assottiglia sotto la gerarchia del ciclo che, espropriato anche nelle decisioni, diviene progressivamente automatizzato e automatizzabile. Esempio massimo, probabilmente, sono l’informatizzazione degli scambi finanziari nelle borse telematiche oppure la produzione di testi per sceneggiati automatizzata.

L’automazione sommata alla flessibilità della macchina informatizzata (di cui il PC è solo la versione più generalista e capace d’inglobare lavoro impiegatizio e intellettuale) determina un “collasso” che ancora non ha prodotto i suoi esiti finali.

Il processo di globalizzazione (rompendo le linee di difesa e controllo che nazionalmente erano state costruite dal mondo del lavoro nella fase della fabbrica fordista) generalizza le condizioni d’applicazione di questo paradigma di passaggio che potremmo definire di “taylorismo digitale”, visto che le caratteristiche fondanti rimangono inalterate (parcellizzazione, cooperazione e controllo). Ma la struttura nuova, ancora non sperimentata su vasta scala, lascia intrevedere esiti ancora piu’ sconvolgenti. Le cosidette I.T. (information tecnology) contengono nel loro “codice genetico”, un salto ancora piu’ avanzato di smaterializzazione del lavoro vivo che potrebbe portare realmente, non alla “fine del lavoro”, ma alla fine del lavoro vivo. Oltre alle caratteristiche sociale dell’immissione delle tecnologie informatiche nel ciclo, quindi, e’ necessario esplicitare la possibilita’, reale e concreta, d’analisi critica di questi processi, dei loro segni di classe e le possibili contraddizioni che, necessariamente si sono aperte e si vanno producendo. Occorre, cioe’ passare dalla “rivoluzione robotica” passiva (l’introduzione non socialemente contrattata di una nuova “classe tecnologica” negli anni’80) all’apertura di una nuova fase del conflitto che va portato sia al livello del plusvalore relativo sia su quello assoluto con una particolare attenzione alla contestazione delle gerarchie produttive ancora oggi imperanti (anche attraverso il taylorismo digitale o la parcellizazione telematica, la cooperazione obbligata dalla natura del software – quindi sussunto nella “macchina” – e il livello del controllo automatizzato) e aggiornate come fu per la “qualita’ totale”. E’ possibile. Oggi, una destrutturazione dell’apparato decisionale che abbiamo conosciuto in tutto il ‘900 capitalistico-fordista. L’esito non e’ scontato. Anzi. La tendenza e’ quella duplice di una sempre piu’ alta concentrazione del livello di decisione che viene (sempre piu) sussunta nell’automatismo del software di gestione, assumendo una sempre piu’ alta caratteristica di “naturalita’”. Si rischia di veder affermato, in una sorta di destino gattopardesco, un taylorismo integrale e integrante (digitale) sulle “ceneri” di quello “industriale”. La sua smaterializzazione e la sua generalizzazione pervasiva come unico modello. I punti alti del sindacalismo operaio erano giunti non sola alla conquista di un salario (diretto ed indiretto) “adeguati” al ciclo, ma alla contrapposizione alla rigida struttura fordista delle vere e proprie “controproposte” organizzative.

Anche le proposte descritte, nelle ultime ore, dal Presidente statunitense Clinton, vanno in questo senso. Si afferma cioe’ che l’apertura verso il Sudafrica, deve riguardare in realta’, quel bacino di gente, di lavoro, di possibilita’ e di potenzialita’ che esso puo’ rappresentare per il tessuto produttivo interno all’economia statunitense. Il Presidente americano, cioe’, descrive un nuovo livello, un nuovo avanzamento del processo di smaterializzazione del lavoro, lanciando una qualita’ del tutto nuova della flessibilita’ superando anche, e di slancio, quella che abbiamo conosciuto nell’ultimo quindicennio e contro la quale ci siamo battuti nei diversi ambiti della organizzazioni del movimento operaio: da quello sindacale a quello politico. Questo processo di smaterializzazione, questo nuovo paradigma del lavoro, che si afferma attraverso gli accordi ed i protocolli mondiali (mai sottoposti a nessuna verifica democratica e che espropriano direttamente il diritto dei parlamenti nazionali a decidere del destino dei loro paesi) ha ancora oggi una diversita’ di aggregazioni e di configurazioni area per area. Non siamo cioe’, pure in presenza di questo massiccio e mai sperimentato nella storia dell’uomo, processo di omologazione mondiale, davanti ad uno sfondamento totale capace di generalizzare ed omologare tutte le condizioni del produrre e del vivere. Certo il processo e’ molto avanzato e ha una accelerazione molto forte. Tali caratteristiche determinano nuove geografie produttive e sociali sulle quali mi voglio soffermare. In modo particolare vorrei ridefinire il concetto di Sud. Esso sta diventando qualcosa di estremamente diverso da quello che si era determinato al tempo della produzione industriale fordista. Le nuove caratteristiche, quelle della “fase digitale della produzione” lo definiscono sia attraverso una diversa qualita’, sia per una nuova dislocazione spaziale e geografica: potremmo definirlo come “il Sud digitale”. Le sue caratteristiche evidenziano la creazione di aree deregolamentate, come quelle irlandesi, e la costruzione di aziende a rete ad altissima tecnologia, dislocate a macchia di leopardo sul territorio globale e collegate con infrastrutture comunicative digitali. In buona sostanza stiamo parlando di aree geograficamente descritte come deregolamentate ma, invece, caratterizzate da una sorta di nuova parcellizzazione del lavoro, di un nuovo taylorismo che potremo definire “telematico” che si sta imponendo nel mondo.

Questo nuovo Sud si sovrappone, si scontra, entra in competizione, con i vecchi Sud nati nello sviluppo industriale novecentesco. Ma e’ proprio in questi territori, in questi luoghi fisici del vecchio Sud, che si tentano le sperimentazioni piu’ ardite, la creazione cioe’, di megalaboratori ove sperimentare nuovi processi e nuove compatibilita’ sociali di questo nuovo modello di sviluppo.

Questo e’, a mio avviso, quello che sta avvenendo qui, sulle sponde di questo nostro mare, ed e’ quello che sta capitando oggi piu’ in generale nel cosiddetto terzo mondo.

A questo modello, a questo processo, dobbiamo ovviamente opporre due livelli di conflitto. Il primo e’ quello che riguarda la politica, cioe’, la capacita’ teorica di comprendere i processi e di avanzare  forme alternative, antagoniste, che rimettano il lavoro (nelle sue vecchie e  nuove forme) al centro del dibattito politico. Pensiamo, ad esempio, a quello che sta avvenendo in queste aree nella cosiddetta “industria del futuro”, cioe’ nel settore delle telecomunicazioni. Proprio in questi territori siamo in presenza di una devastazione dei vecchi siti industriali e produttivi, delle fabbriche che producevano le infrastrutture della comunicazione ed in quelle che la rendevano disponibile sul piano sociale. Il secondo livello attiene proprio a quest’area geografica: utilizzare gli strumenti comunicativi che saranno a disposizione nei prossimi anni. E’ stata, infatti, proposta dal servizio pubblico radiotelevisivo italiano – in accordo con gli altri servizi pubblici televisivi che sono presenti nel Mediterraneo – la nascita e la localizzazione nel nostro Paese, di quella che e’ stata definita come “la rete televisiva del Mediterraneo”. Credo che questa struttura, non omologa rispetto al modello televisivo commerciale che abbiamo nazionalmente sperimentato e che e’ stato importato dagli Stati Uniti, possa rappresentare un’occasione importante per contrastare quei processi di omologazione e conformismo della comunicazione, tenendo aperto un dialogo non solo tra nazioni diverse ma tra culture e storie millenarie. Tutto cio’, pero’, sara’ possibile se dentro questa struttura emergera’ una nuova centralita del lavoro, del vivere e del comunicare. Credo, tuttavia, che da questo punto di vista la proposta avanzata sulla localizzazione di questa nuova rete vada modificata. Infatti, penso, che occorra la  messa in campo di un’ipotesi altra rispetto a quella di Napoli, avvenuta un po’ meccanicamente e senza l’adeguato confronto politico-sociale. Serve un’articolazione piu’ alta ed una valorizzazione del territorio e delle storie dei Sud del nostro Paese. Palermo, quindi, puo’ rappresentare, in questo senso, un’opportunita’, un crocevia realmente bidirezionale tra il Nord ed il Sud del mondo. Serve un ponte in grado di far giungere il Sud nel cuore dell’Europa. Questo per la storia e la cultura che nei secoli hanno reso il capoluogo siciliano crocevia ideale di questa comunicazione. Ossia, una comunicazione che rimanga al servizio non dei processi di omologazione su cui bisognera’ fare i conti, ma appunto di quella compatibilita’ sociale dello sviluppo con cui dovremmo tutti, prima o poi, confrontarci.


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