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Prima Consulta Nazionale
Comunicazione
Roma, 28 settembre 1996
Indice
Relazione pag. …………………………………………………………………… 3
Conclusioni pag. ………………………………………………………………… 9
Relazione introduttiva
di
Roberta Reali
Un giovane trentenne, ancora senza lavoro, chiede al suo interlocutore, un imprenditore, cosa sono le fabbriche a luce spente. “Sono quelle fabbriche senza operai”. Ma non senza macchine. Qualcuno dà il via con il computer e le macchine si mettono in moto e producono. Noi abbiamo incentivato il prepensionamento. A cinquanta anni tutti a casa. Bisogna far posto ai giovani, nel mondo produttivo. “Voi assumete?” – domanda il giovane – “Stiamo attraversando una fase di radicale ri-organizzazione…”. Inizia con questo dialogo, ambientato in un bar dello spazio, il libro di Furio Colombo “Confucio nel computer”. Colpisce pensare di leggere qualcosa che vorrebbe raccontare un futuro lontano è scoprire, invece, che quel bar ed i suoi ospiti non sono così distanti dalla quotidianità delle nostre città, dei nostri giovani, dei nostri bar. Rifuggere dalle nuove tecnologie perché sono un pericolo ed un rischio per la collettività; o provare ad indirizzare i processi tecnologici verso una logica che non siano solo quelle del profitto e del libero mercato, come chiede il capitale.
E’ davanti a questa domanda, che diventa una sfida, per chi vuole rifondare un pensiero ed una pratica comunista alle soglie del terzo millennio, che ci troviamo di fronte. Come far convivere sviluppo e democrazia. Società dell’informazione, multimedialità, convergenza tecnologica: parole entrate, ormai, nel vocabolario quotidiano che spesso, per chi le pronuncia, fanno moda, tendenza. Ma quelle parole, se ben lette ed interpretate, rappresentano il cuore del futuro della democrazia di questo Paese. Si sta parlando, infatti, di come affrontare un nuovo modello di sviluppo. Modello di sviluppo che non è, e non potrà essere, neutro. Dove se non ci saranno proposte ed iniziative concrete, di lotta e cultura politica altra, determineranno, in ogni caso, la vita d’intere generazioni.
Per questo con un’originalità tutta politica il nostro partito ha deciso di affrontare il nodo dell’informazione capovolgendo vecchi paradigmi di riferimento. Non più solo, come interlocutori, i soggetti che selezionano le notizie, ma anche tutti quei soggetti che lavorano nella produzione complessiva dell’immaginario collettivo, che tengono in piedi quel tessuto connettivo rappresentato dalle tecnologie di comunicazione, che progettano gli “strumenti del comunicare” e, quindi, in ultima analisi, la qualità ed i contenuti della nostra comunicazione. E allora, davanti alla domanda di prima, la risposta è stata quella di cimentarsi nell’analisi di quello che voglia dire l’intreccio stretto tra audiovisuale, telecomunicazioni ed informatica e individuare per questi settori approdi diversi dagli unici previsti dalla logica del mercato.
Globalizzazione, liberalizzazione, finanziarizzazione: ossia destrutturazione industriale a favore della trasformazione delle nostre aziende nazionali in puri vettori delle produzioni sia d’apparati, sia di programmi prodotti dalle multinazionali, in primo luogo americane, alle quali si chiede il pagamento di un “pedaggio” per l’ingresso sul mercato italiano? E’ evidente che la logica della globalizzazione ha come modello di riferimento l’assetto del mercato statunitense che sta tentando di imporre i processi di deregolamentazione, tramite fusioni ed acquisizioni molteplici, su scala planetaria. Se lo scenario restasse questo avremmo, nel giro di pochi anni, un Paese in ginocchio non solo dal punto di vista economico ed occupazionale, ma ci troveremmo di fronte ad una colonizzazione culturale senza precedenti. Il passaggio, da un processo di produzione di beni materiali a quello di beni immateriali, necessita di un progetto che sappia parlare alle aziende dell’informatica, dell’audiovisuale e delle Telecomunicazioni per rispondere ai processi di privatizzazione e globalizzazione.
Occorre, allora, dotare il nostro Paese di una risposta politica unitaria, che parta dallo specifico industriale delle nostre aziende. Ciò non può che venire dalla scelta di una politica industriale per questo settore. L’Italia deve decidere se essere una colonia oppure provare a restare in campo lasciandosi aperta una chance per essere competitiva sui programmi e mantenere, così, una sua autonomia culturale e politica. Esistono nel mondo trentadue società che hanno una capacità di capitale finanziario pari a 800mila miliardi di dollari, che sono in grado, quindi, di mettere in ginocchio uno dei sette grandi nel momento in cui decidono di non investire più in un determinato settore. E allora un paese che non controlla più il settore della comunicazione, e dell’energia, è un territorio che non è in grado di sviluppare una politica industriale autonoma. Per questo come partito stiamo conducendo da tempo una battaglia contro la politica di privatizzazione della Stet e dell’Eni. Per questo siamo per un’unificazione delle vertenze: dall’Alcatel, all’Italtel, al contratto Telecom, che ci vedono impegnati, in una battaglia comune con i lavoratori, contro le decisioni di queste aziende che hanno come unico obiettivo quello di produrre esuberi, restringimenti dei livelli occupazionali e scorpori aziendali. E anche le nostre posizioni sul DDL Maccanico e sui provvedimenti del riassetto del settore dello spettacolo, tracciano un filo rosso con un’altra politica industriale del settore.
Noi la nostra parte l’abbiamo iniziata presentando, a chiusura della precedente legislatura e con l’intenzione di ripresentarla anche ora, una mozione di politica industriale per chiedere al Governo una sessione speciale, dei due rami del Paralmento, su queste questioni.
– Come Partito non possiamo prescindere da una centralità dei servizi pubblici. Per questo motivo, su due nodi centrali, Rai e Stet, abbiamo espresso opzioni e giudizi precisi.
– La Rai: è stata la prima azienda sulla quale il governo Prodi, uscito vincente dalle elezioni del 21 aprile con il contributo determinante di Rifondazione Comunista, si è cimentato sul ruolo del servizio pubblico. C’è da dire che le prove, date fino ad ora, non sono lusinghiere. A partire dalla nomina dell’attuale CdA sul quale molto ci sarebbe da dire su capacità e conoscenza del mezzo televisivo. Nomine fatte senza tenere conto di quelle culture espressioni di un’alternativa di sistema e critiche al sistema della comunicazione. Si è passati, poi, al pacchetto delle nomine interne dove, con un po’ di rammarico, dispiace affermare che la Rai dell’Ulivo non è stata meno ingorda della Rai del Polo. Si era detto, personalmente il Ministro Maccanico ad un nostro Covegno, che questo governo su questo settore non avrebbe più usato la decretazione d’urgenza. Invece, il 27 d’agosto, allo scadere delle concessioni radiotelevisive è arrivata l’ennesima proroga per il riordino del sistema. Dove elemento non trascurabile, per un Paese civile, è il fatto che l’altro soggetto interessato è il proprietario del gruppo televisivo privato diretto concorrente del servizio pubblico, nonché capo dell’opposizione. Per arrivare all’escalation finale della nomina a Presidente, per una Commissione d’indirizzo quale quella della Vigilanza Rai, di Francesco Storace, passata con i soli 2 voti contrari di Rifondazione.
– La nostra contrarietà alla riduzione del numero delle reti del servizio pubblico è nota. Non possiamo accettare alcuna simmetria tra pubblico e privato, anche perché la Sentenza della Corte parla della dismissione di una rete solo per la televisione commerciale. Come non ci trova d’accordo la proposta di una rete federata, che fa tornare la Rai alla riforma del’76, e della quale non si capiscono il ruolo ed i contenuti. Proponiamo, invece, una rete sperimentale intesa come sperimentazione di nuove forme comunicative. Non c’è, quindi, una difesa del servizio pubblico radiotelevisivo toutcurt, ma c’è l’idea di un’azienda rimotivata sulla base di un’opzione strategica.
Una parte della sinistra ha la responsabilità di non aver rotto quella sub-cultura penetrata nelle masse tramite la televisione.
– E’ centrale, per il riassetto del sistema radiotelevisivo, il ruolo del servizio pubblico e per fare, in altre parole, si deve arrivare ad una redistribuzione delle risorse con un’apertura del mercato e la rottura del monopolio intorno a Mediaset. Basti pensare che la raccolta pubblicitaria della Fininvest è di 3000 Mld, contro quella della Rai che è pari a 1500 Mld. Per questo abbiamo chiesto, all’interno del Disegno di Legge Maccanico, l’istituzione di un Osservatorio sul costo-contatto, per far si’ che tutte le aziende che fanno pubblicità con un costo inferiore saranno fuori perché fanno dumping.
Ovviamente il problema della redistribuzione delle risorse non può riguardare solo il settore radiotelevisivo, ma deve investire anche quello dell’editoria che, troppo spesso, è considerato, a torto, la cenerentola della comunicazione. Non ci può, quindi, trovare d’accordo la proposta del governo di tagliare all’interno della finanziaria il 30% delle risorse da destinare a questo settore (tagli che andrebbero a penalizzare le agenzie di stampa, le cooperative e la stampa di partito).
L’idea forte della 416/81 era di un sistema editoriale che andava riformato e rafforzato, separandolo dalle connessioni politiche. Se si sono distrutti quei pochi editori puri, lo dobbiamo alla messa in discussione dell’idea di fondo di quella legge. Sono nati cosi’ gli editori legati alle lobby politico-finanziarie (basti pensare a tutto quello che è successo, prima dell’estate, con i quotidiani romani “il Tempo” ed “il Messaggero” (acquistato, da Caltagirone, per 356 Mld acquistati e poi rivenduti a parenti ed amici alle); con il Mattino di Napoli (dove abbiamo chiesto che la Fondazione Banco Napoli renda, almeno, pubblica l’asta). E’ di questi giorni la richiesta di messa sul mercato del “Giorno”. Per non dimenticare la situazione di crisi “della Nazione”, “del Resto del Carlino”, “della Gazzetta del Mezzogiorno” e del “Gruppo Rizzoli”. Il costo pagato dall’occupazione alla convergenza tecnologica è di 1500 espulsioni giornalistiche, 12.000 nelle Tlc ed un aumento maggiore della precarizzazione.
Occorre ripartire, allora, dalla realtà produttiva italiana nei settori della convergenza tecnologica e capire come stare in campo con la nostra industria in questo settore. La nostra proposta è di una galassia multimediale che parta dallo specifico industriale delle nostre aziende, con tre pezzi pubblici come assi portanti di questo settore, e che veda una strategia unitaria di convergenza tecnologica, che chiami attorno a se’ tutte le aziende private del settore.
I tempi non sono neutri e non possiamo aspettare quelli del libero mercato.
Non si può agganciare lo sviluppo solo nelle aree forti del Paese, che sono in grado di dare subito un ritorno economico. Per questo non sarà irrilevante, nella fase digitale, chi gestirà l’infrastruttura della rete telematica. C’è un problema d’acceso, d’alfabetizzazione, di censo strettamente legati alle nuove regole della democrazia. E’ cosi’ non sarà lo stesso se a cablare le città italiane sarà il gestore pubblico o i tanti soggetti privati. Non ci sarà solo il problema della dorsale ma anche di quale tipi di prodotti verranno veicolati nella rete. Troppe realtà sarebbero condannate all’emarginazione. Per evitare che al Sud geografico si sovrapponga quello che abbiamo chiamato un nuovo “Sud digitale” dobbiamo garantire una pari opportunità d’accesso e di fruizione. Per questo il cablaggio rappresenta, oggi, quello che nel’900 ha rappresentato la rete elettrica.(Per questo in alcuni Consigli regionali i nostri gruppi hanno presenato, all’interno della Legge Regionale, un articolo dove si chiede che la rete telematica faccia parte delle opere d’urbanizzazione primaria). Non si può, quindi, lasciare alla semplice e pura logica mercantile un terreno così delicato per lo sviluppo e la democrazia del nostro Paese.
Per fare ciò abbiamo spinto fortemente per la ramificazione del ns. Partito nei luoghi di lavoro (nascono i circoli aziendali della Rai e della Telecom).
– Lo scopo della consulta è l’unificazione e l’approfondimento di questa linea, socializzazione dello stato dell’arte nei vari comparti, le problematiche aperte, la “specializzazione” dell’analisi e della proposta.
– Idea forte del partito per la costruzione di movimenti in grado di generare conflitti e che sono in grado di contribuire alla costruzione di progetti che prefigurano scelte di linea politica.
Vogliamo, in altre parole, connettere le nostre analisi con opzioni di movimento in grado di incidere sugli eventi.
Con questa Prima Consulta sulla Comunicazione abbiamo voluto provare a rendere operativa la “convergenza tecnologica” dei saperi e delle conoscenze del ns. partito, ma anche di quei soggetti che guardano, con interesse, alla nostra elaborazione. La Vs. presenza ci aiuta, certamente, a fare un passo in avanti in questa direzione. E di questo vi ringraziamo.
Conclusioni di
Sergio Bellucci
Faceva bene Ferruccio Jaccarino, nel suo ultimo intervento, a porre l’accento sulle difficoltà di un dibattito di questa natura. Infatti, vi propongo, più che un percorso conclusivo, di una giornata di lavoro importante come questa, la possibilità di sommare un’altra lettura soggettiva, una diversa angolatura, un ulteriore modo di leggere i processi. Un tentativo, il mio, di mettere a disposizione dei compagni, in analogia a quello che hanno fatto tutti gli altri, una personale interpretazione dei processi e dell’analisi, tentando di evidenziare le motivazioni profonde che hanno portato a questa giornata e che fanno parte di un anno di lavoro del Dipartimento Informazione. Facendo questo, credo, se Jaccarino lo consente, non produrremmo un’impresa, ma forse un’intrapresa, anche per non utilizzare termini propri “dell’avversario”. In ogni caso, per dirla in un altro modo, tentiamo di tessere una rete di relazioni, di comunicazioni e di politica, in grado di mettere i comunisti italiani in condizione di intervenire in un processo di cambiamento, che abbiamo definito paradigmatico e al quale non possiamo sottrarci neanche volendo.
Detto questo, vorrei ringraziare tutte le compagne, tutti i compagni ed i simpatizzanti che questa mattina sono voluti stare con noi, in così gran numero e per così tante ore, in una giornata prefestiva. Ciò segnala un’attenzione forte su questi temi e anche una capacità d’intervento che la sinistra antagonista di questo paese vuole dispiegare.
Sia la relazione di Roberta Reali, che è stata così ampiamente apprezzata, sia l’intervento del compagno Bercioux, mi permettono di dare un contributo e di non entrare nel merito di alcune questioni che sono state assolutamente già ben definite nei lori interventi. Siamo in presenza di quella che è stata appunto definita la “società del segreto” che ha bisogno d’iniziazioni, sia sul piano tecnologico, sia su quello dell’alfabetizzazione sociale, che hanno fatto parlare già da qualche tempo di un nuovo paradigma. Il nostro Partito si sta preparando al suo terzo congresso nazionale e lì vogliamo proporre un vero e proprio ritorno a Marx come nostra prospettiva politica.
Io credo che, o almeno così intendo questo nostro stare insieme, questa nostra capacità di mettere in fila alcuni ragionamenti intorno a questo cambiamento paradigmatico, segnali il tentativo che stiamo facendo, ognuno nei nostri ambiti d’intervento, ognuno per dove è collocato, di evidenziara un filo rosso che punti a riannodare proprio una prognosi sul sistema e sul modo di produzione. Uno dei passi più importanti, o che almeno io ritengo tale, del pensiero che Marx ci ha lasciato il secolo scorso, è racchiuso in quella famosa prefazione del ’59 nella quale dimostrava una capacità di prognosi sullo sviluppo del modo di produzione capitalistico. Quella prognosi parlava, in qualche modo, forse molto di più dell’oggi che di quanto potesse accadere in quei tempi.
Diceva Marx, infatti, che lo sviluppo delle forze produttive avrebbe trovato le gabbie sempre più forti, sempre più distruttive nei rapporti di produzione capitalistica. Credo che noi dovremmo avere proprio in questa fase la capacità, a partire ovviamente dal nostro settore, dalla nostra specifica modalità di stare all’interno di una angolazione visuale, di ritornare a tessere le tele di una prognosi con la griglia che ci forniva il filosofo di Treviri. Negli anni scorsi, dalla crisi della sinistra a metà degli anni ’70, molti filosofi, nuovi o vecchi, ma anche molti politici, hanno ravvisato, proprio nello sviluppo tecnologico, una delle incapacità croniche del pensiero della sinistra di aderire ai processi di trasformazione e di essere, quindi, egemone. Affermavano, infatti, che la novità’ dello sviluppo tecnologico non potesse più consentire un pensiero critico di sinistra in grado di riprodurre materialmente processi di trasformazione ed individuare i soggetti del cambiamento. Personalmente sono convinto che lo sviluppo tecnologico è, invece, una delle caratteristiche tipiche del modo di produzione e, quindi, mi trovo in completa sintonia con quello che gai’ affermava Marx del modo di riproduzione sociale del capitalistismo; non qui, quindi, bisogna individuare le novità’ e non qui si e’ situata la crisi del pensiero critico negli ultimi venti anni. Come del resto gai’ avveniva individuato da Althusser negli anni sessanta-settanta. Non è cioè’ la capacità di innovazione, sempre più alta e sempre più accelerata immessa nel modo di produzione, che mette in crisi la nostra capacità di analisi, ma è nelle caratteristiche specifiche di questa tecnologia, nella sua pervasività’, come vedremo più avanti, nel suo saper parlare in maniera trasversale e quindi egemone al modo del produrre, del produrre cultura, informazioni, del produrre merci, del produrre socialità’. Qui credo, va inserito il nostro campo di ricerca e proprio qui vanno fatti gli sforzi per analizzare, per tentare di ridefinire una prognosi che sia in grado, al tempo stesso, di criticare il modo di produzione e di individuare quella che, anche nel documento congressuale, e’ stata definita la pluralità’ dei soggetti necessari alla trasformazione. Occorre, quindi, ripartire dalla caratteristica dello sviluppo tecnologico e, analizzando la caratteristica specifica del suo salto tecnologico, non nasconderci che i processi della digitalizzazione consentono, oggi, una pervasività’ del modello produttivo che fino alla struttura industriale conservava aspetti e modalità’ dialogiche tra il modo del produrre e la realtà’.
Questa pervasività’ che si estende dai processi produttivi della fase digitale – qui La Porta ricordava l’effetto di smembramento dei nuclei di produzione che vengono riaccorpati dal singolo lavoratore nel momento d’inserimento di una innovazione tecnologica – segnala una contraddizione forte sulla quale noi possiamo introdurre, ne sono assolutamente convinto il nostro specifico contributo contro il “determinismo tecnologico”, quella capacità della tecnologia, cioè’ di riordinare automaticamente il produrre, il vivere, e che si scontra con un rapporto che è stato definito, gai’ da altri, di “alta sensivita’-alta tecnologia”, ossia quel rapporto per cui una tecnologia, dentro la società’, dentro una collettività’ produttiva, è accettta o meno, a secondo del grado di soddisfazione di modalità’ e sensibilità’ umane, oppure fino a quando riesce a forzare questa sensibilità’ ed a produrne altre (si fece a suo tempo il caso del fax, il ciclo della produzione dei fax). Sapete perfettamente quale è oggi il ciclo della produzione d i una informazione da un luogo ad un altro. In genere, c’e’ una persona che produce un’idea, che viene digitalizzata su un computer, in seguito questa viene stampata su supporto cartaceo, e poi inserito in una macchina (appunto il fax) che ridigitalizza quell’informazione per trasferirla su cavo. Dall’altra parte, in ricezione, l’informazione digitale viene ritrasformata in informazione stampata; alcune volte, attraverso il lavoro manuale o macchine apposite (scanner) ritrasformata in maniera digitale. Questo scambio, che oggi potrebbe essere tecnologicamente cortocircuitato mettendo in relazione diretta due computers, continua invece a governare le nostre modalità’ comunicative, proprio in relazione al rapporto “alta sensivita’-alta tecnologia”, per il quale, se manca il supporto cartaceo, sentiamo che ci manca qualcosa e che quindi il pezzo di carta, per lo scambio comunicativo, deve arrivare fisicamente e non basta quello fra i due computers. Almeno per oggi.
La pervasività’ dello sviluppo, le sue caratteristiche, parlano all’ambito produttivo, lo trasformano, lo smembrano, lo ripensano, lo riprogettano, ma allo stesso modo, smembrano e riprogettano i modelli di produzione culturale ed i suoi prodotti. La stessa qualità’ di questo sviluppo tecnologico ci parla di un paradigma nuovo che ha abbagliato chi ha tentato di mantenere una criticati’ per tutto quest’ultimo quindicennio, proprio prece’ agisce direttamente sull’immagine.
Storicamente l’immissione di nuove modalità’ comunicative ha sempre significato nella storia umana (pensiamo all’ingresso della stampa a caratteri mobili, della stampa quotidiana, della fotografia, della fotografia in movimento, del cinema, del cinema a colori, della televisione, del sistema radiofonico, una mutazione profonda delle caratteristiche delle società di massa, delle relazioni che legano i soggetti individuali e collettivi dentro queste società e dei rapporti di forza tra questi soggetti.
Ora, il nuovo paradigma tecnologico e produttivo parla (non solo sommando una nuova modalità’ comunicativa – i new media) direttamente al linguaggio così come è stato codificato dall’invenzione della scrittura fino ad oggi. Mi riferisco alle teorie ipertestuali, alle possibili rotture del linguaggio, fino a ieri pensato ed agito come un ente che aveva un suo svolgimento unilineare ed unidirezionale nel tempo. La rottura del meccanismo attuato dalle possibilità’ tecnologiche della multimedialità’ ci mette in condizione di avanzare prime ipotesi di un linguaggio multisensiorale governato da una sintassi nuova: l’ipertestualita’.
Ecco, se noi pensiamo che non siamo in presenza di una semplice sommatoria di un nuovo strumento di comunicazione di massa, in grado di avere un impatto come tutti gli altri mass-media, ma che questo strumento di comunicazione porta con se’ un cambiamento strutturale del linguaggio e, quindi, delle modalità’ del comunicare, noi ci rendiamo conto del salto di paradigma al quale stiamo assistendo, che è qualche cosa in più di un semplice passaggio di fase produttiva o comunicativa.
Lo diceva qualche compagno nel suo intervento, questo linguaggio non è neutro e non potrà’ esserlo come ogni linguaggio, ma non è già definito: siamo, cioè’, in una fase, probabilmente analoga a quella nella quale Platone ambientava il suo Fedo, quando cioè’ metteva in relazione l’inventore della scrittura e dei numeri, con un re che governa una società nella quale ancora non era stata inventata la scrittura.
Ecco, noi siamo in una fase in cui un passaggio analogo comincia a concretizzarsi sotto i nostri occhi e comincia già a mettere le radici un processo che probabilmente vara’ ancora, avanti a se’, parecchi decenni di scontro e di lotta prima di un suo assestamento.
La codifica di questo linguaggio, quindi, lo scontro su di essa, non parlerà’ soltanto dello stato dell’arte dei rapporti di forza di questa generazione, di questa fase della storia, ma probabilmente farà’ parlare di se’ qualche altro secolo e qualche altro millennio. Come ha fatto quella codifica di scrittura qualche millennio fa. La codifica non potrà’ non dipendere dalla tecnologia a disposizione, dalle sue potenzialità’ nuove, dalla codifica stessa delle tecnologie che si affermeranno (che non è scontata), ma anche dall’apporto artistico e creativo che nella sperimentazione di questi linguaggi noi sapremo mettere in campo in maniera svincolata dagli interessi mercantili. Questo è il punto centrale sul quale ritornerò’. Occorre evitare cioè’ che in questa fase la codifica del nuovo linguaggio sia fatta esclusivamente a fini mercantili. La struttura attuale del linguaggio a disposizione, quelli che abbiamo utilizzato fino ad oggi fu il prodotto di un insieme di fattori e non solo degli interessi del mercato. Se riusciremo ad evitare che nei nuovi linguaggi sia assorbito nelle strutture stesse, nei lemmi, lo stesso codice del mercato, ecco se noi sapremo evitare questo immettendo delle contraddizioni forti ed agire per modificare tecnologie, strade, opportunità’, linguaggi e modi di produrre, probabilmente immetteremo dei processi di cambiamento che avranno effetti per lungo tempo.
Il quadro, quindi, non è definito e non è definibile solo sul piano nazionale, ma si gioca su una dimensione internazionale nella quale non possiamo non sentirci inseriti.
A questo punto si aprono ovviamente dei problemi, come ricordava Galtieri nel suo intervento, prece’ molto si sta facendo a livello di UE e di capitale d’impresa, per affermare che la codifica di questi nuovi linguaggi deve avvenire esclusivamente su un territorio governato dalla logica del mercato. Noi dobbiamo tentare di invertire questa tendenza. Dobbiamo dire che se Bangemann sostiene che telecomunicazioni e televisioni non possono avere ormai un quadro di regole diverse, perchè’ il processo di digitalizzazione li mette insieme e siccome le regole delle Tlc sono la completa deregolamentazione, quindi anche la televisione deve andare verso quel senso, dobbiamo dire l’esatto opposto è vero telecomunicazioni e televisione non possono avere più regole diverse, ma siccome su livelli comunicativi noi non possiamo dire che siamo per una società che non contenga più il servizio pubblico e spazi esterni al mercato nel quale comunicare, anche negli spazi della telecomunicazione non possono non esistere strutture che abbiano queste caratteristiche.
Questo parla proprio dei processi della convergenza tecnologica su come si stanno generando nel mondo.
Abbiamo parlato prima del processo della digitalizzazione. Il trattamento automatico dell’informazione è un dato ormai sul quale si stanno ri-strutturando processi produttivi che attengono ovviamente a questo settore ma che attengono anche al mercato delle merci ed alla produzione delle merci —
Telecomunicazioni, informatica, sistema audiovisuale, per come era stato prodotto dalla tecnologia a disposizione, cioè’ televisione da una parte e cinema dall’altro , ci dicono, convergono nell’unico grande mega settore nel quale probabilmente tre tipi di processi che qui adesso alluderò’ brevemente stanno governando il riassetto.
I processi sono quelli della globalizzazione dei mercati, globalizzazione dei mercati che attiene alla globalizzazione del mercato, e diceva bene Roberto D’Incau nel suo intervento, dei prodotti, dei servizi, ma anche delle modalità’ del produrre e cioè’ il processo di liberalizzazione nel quale questo mercato globale si costruisce e attraverso i processi di finanziarizzazione di questo mercato.
Cioè’ stiamo parlando della nascita di quella che qualcuno ha definito la merce informazione, della merce comunicazione, come diceva nel suo intervento che io condivido molto Gemma Contin. Ecco io credo che noi dovremmo riuscire a sostenere che accanto ai processi di creazione della merce informazione occorre inserire la critica, una critica dell’economia politica di questo settore rompendo appunto un nesso che sembra scontato ma scontato non può’ essere e per noi non lo è , e cioè’ il nesso che collega comunicazione a merce.
Guardate, il modello della convergenza tecnologica ha già scritto in qualche modo l’esito finale del sistema. E l’esito è tutto interno alla storia del rapporto tra Microsoft ed Intel.
La storia dei tre settori che convergono, quello delle telecomunicazioni, dell’informatica e dell’audivisuale, è una storia ovviamente non uguale, che parla di percorsi legislativi nazionali diversi per settore, per storia. Uno solo di questi ha una struttura uniforme ed omogenea nel mondo: il settore dell’informatica. Esso, infatti, si e’ costruito nel decennio reganiano ed è stato governato dal totale processo di globalizzazione, liberalizzazione, finanziarizzazione.
Tutti i compagni sanno come è finito il modello Microsoft/Intel: nel mondo esiste, ora, un’azienda che controlla tra l’80% ed il 90% del mercato della tecnologia, impone il proprio standard, impone la modalità’ di comunicazione, impone il modello comunicativo in assoluto. Tutto CIO’ al punto che, negli ultimi mesi, Bill Gates ha deciso o dovuto, spendere qualche centinaio di miliardi per costruire una divisione della sua azienda in grado di produrre servizi e prodotti per la tecnologia concorrente, onde evitare che il concorrente scenda troppo nella sua quota di mercato al punto da far intervenire l’anti-trust americano, tagliando la possibilità’ di espansione di Microsoft.
E’ chiaro ciò che e’ avvenuto per il settore dell’informatica e probabilmente vorrebbero che cio’ si ripeta in quello della convergenza tecnologica multimediale. Un percorso, cioe’, che nel giro di un decennio ha portato alla creazione di un unico colosso informatico, applicato ai tre settori convergenti potrebbe portare nel giro di cinque, sei, dieci anni a creare quattro o cinque grandi concentrazioni mondiali multimediali (dalle reti di trasmissione via terra, via cavo, via satellite, via etere, etc, ai prodotti che quelle reti veicolano) e che potrebbero restare, nella pratica, gli unici veicolatori di comunicazione, presenti nel mondo.
Dentro questo quadro la scelta industriale delle nostre aziende nazionali è assolutamente chiara. Lo diceva, bene, Fabio Trenta nel suo intervento: l’accordo Stet/IBM o anche l’accordo Albacom o quello Olivetti/France Telecom, parlano di un modello già sperimentato nel settore e che io definisco il modello Fininvest. Il modello Fininvest si puo’ cosi’ sintetizzare: si costruisce un’azienda leggera (circa tremila dipendenti per un mercato ed un fatturato di quelle dimensioni fanno un’azienda sicuramente leggera) che chiude accordi, specialmente sul piano internazionale, per il mercato pubblicitario: cioe’ prende la pubblicità, raccogliendo pubblicità dall’altra parte dell’Atlantico e, con gli stessi soldi, acquista servizi e prodotti (cioe’ telefilm, film, format ed intrattenimento) da trasmettere su i suoi canali, trattenendo per se’ una certa quota che puo’ essere definita “una tassa” per l’ingresso di quei servizi e di quei prodotti sul mercato italiano.
Analoga scelta, sembra, emergere dalla strategia della Stet, che si immagina come l’unico carrier in grado di portare a casa della gente servizi e prodotti ideati da IBM o da qualcun’altro. Cosa analoga pensa di fare Mediaset quando stipula l’accordo con British Telecom, mettendo a disposizione le sue infrastrutture per i servizi ed i prodotti che vengono pensati dall’altra parte dell’Europa. Qualcosa di analogo ha pensato l’Olivetti facendo l’accordo con France Telecom: mai accordi, quindi, per produrre iniziative o intraprese in settori o aree geografiche nevralgici del mercato mondiale.
Le nostre aziende si collocano, in qualche modo, aspettando che qualcun altro arrivi sul proprio territorio. Noi abbiamo detto di no a questa idea, a questa “politica industriale” e continuiamo a dire di no, a partire da tutte quelle vertenze che tengono, ancora, aperta una possibilita’ di sviuluppo in questo settore.
Diciamo di no e tentiamo di proporre al sindacato ed ai nostri compagni del settore una riunificazione delle vertenze, una riunificazione che parta dalla nostra opposizione ai processi di privatizzazione della Stet ed arrivi ad affrontare i nodi della crisi dell’Olivetti, dell’Italtel, dell’Alcatel, ma anche di aziende che per il momento non presentano un tasso alto di preoccupazione come quelle, appena citate, uno per tutti il caso Telecom.
E per questo che chiediamo al partito una ramificazione sui posti di lavoro e spingiamo per la creazione di strutture che possono aiutare ad unificare, da un lato le vertenze e dall’altro la linea politica. Siamo convinti che questa ramificazione ci consentirà di aggredire le politiche di quel livello d’insediamento industriale e può garantire al nostro paese di restare in campo nella divisione mondiale del lavoro restando in campo con la nostra specificità, con i nostri specifici settori aziendali. Ciò non può non tenere conto che nella storia di questo paese esiste una centralità’ dei servizi pubblici che non può essere ignorata e che può aprire la strada a nuove e più alte contraddizioni nei processi di omologazione culturale, che la convergenze tecnologica propone in particolare sulle contraddizioni aperte dalla codifica di nuovi linguaggi da parte del mercato.
Dovremo, cioè’, essere in grado di unificare i momenti di progettazione e produzione di apparati, in modo da connettere conoscenze, coscienze e modalità’ di uso di queste tecnologie, in grado di consentirci una connessione tra queste e la produzione culturale, connettendo, quindi, questa nuova visione con un’altra modalità’ di produzione e riproduzione sociale dell’immaginario collettivo di cui i compagni hanno parlato. Dobbiamo evitare, cioè, che i prossimi anni vedano il mercato come unico luogo della codifica dei nuovi linguaggi, dei nuovi lemmi, e che sia soltanto il “capitale” l’unica fonte in gradi di esprimere una capacità egemone del nuovo modo di comunicare nell’era multimediale.
Il rischio è che se non saremo in grado di metterci a questo livello della contraddizione (e quindi del conflitto), il salto del paradigma sia tale da incorporare nella ipertestualità’ dei linguaggi le stesse logiche del mercato, le sue leggi e di far definire lemmi e codici di questo nuovo linguaggio, in pratica del pensiero unico ancora più pervasiva di quello che è accaduto con i media tradizionali. Per questo concordo molto sulle cose dette da Citto Maselli sulla colonizzazione culturale o sulla questione del “Tempo” posta da Francesco Siliato, ma credo di voler dire qualche cosa in più: oggi questo processo di colonizzazione non parla soltanto dell’arrivo degli “americani”, come è stato negli ultimi venti-trenta anni, ma parla della modalità’ del produrre che può’ generarsi anche qui, anche nei paesi europei e anche nel nostro. Quindi, c’è bisogno proprio di una rottura, di una rottura di cui parlava anche Roberto D’Incau, perché siamo al punto in cui la barriera linguistica, per le nuove generazioni, non è più un ostacolo all’arrivo di nuove modalità’ del comunicare e di nuovi prodotti comunicativi.
E’ qui che noi definiamo il ruolo del servizio pubblico, cioè, qui tentiamo di inserire una critica al modello della convergenza tecnologica legata a quella dei processi di liberalizzazione e privatizzazione, sostenendo gli argini a settori che devono essere salvaguardati rispetto alla globalizzazione e che proprio per ciò sono il punto di partenza per una critica a questo processo.
Non c’è, quindi, un nostro Rai-centrismo “ideologico”, e una disattenzione per le altre modalità o strutture produttive: no, ad esempio, comunico ai compagni che nella discussione sul DdL Maccanico, sulle modifiche a questo disegno di legge, noi tenteremo di immettere un rapporto più alto tra frequenze che verranno assegnate ai canali locali e quelle che verranno assegnate ai canali nazionali, rompendo una marginalità’ che parla proprio della struttura delle frequenze sulle quali queste dovranno essere veicolate.
Ma il problema centrale rimane un altro: anche così rimane insoluto, all’interno della cornice privatistica, il nesso proprietà-organizzazione del lavoro e prodotto, in altre parole quella che può essere definita la libertà del produrre e la libertà dei contenuti del prodotto. Non è vero, cioè, che si è più liberi se la proprietà è privata, anche se, come dimostrano le gestioni democristiane, non è automaticamente vero il contrario e, cioè, che si può produrre qualche cosa di buono automaticamente perchè la struttura produttiva è pubblica. La storia della Rai è lì a dimostrarlo. Ma il nesso proprieta’-organizzazione del lavoro da una parte e prodotto dall’altra, in questi settori, e in questo particolare frangente, è assolutamente centrale per ri-definire margini esterni alle logiche mercantili: in altre parole segnala un diverso “grado di libertà”.
Per questo abbiamo detto che siamo contrari ad una Rai pensata come ad una Holding e non solo perchè, appunto, quello era un progetto craxiano della fine degli anni’80 (contro il quale ci siamo battuti tutti quanti, anche quelli che oggi sostengono tale ipotesi nel testo di legge), ma anche per questo abbiamo detto no ad un Rai Federale, cioè’ a una Rai che perde un suo spazio di intervento nazionale forte, che potesse darci una gamba in più in quello che ho appena sostenuto nella battaglia tra la codifica del mercato e le codifiche di nuovi linguaggi fatti fuori dal mercato.
Quindi, no al restringimento di queste potenzialità, ma anzi utilizzare le risorse che altri vorrebbero sprecare per fare una Rai federata, inserendole proprio lì, nel luogo della sperimentazione, della codifica di nuovi linguaggi, cioè, spenderli su quel punto per dare voce e possibilità ad una codifica non influenzata esclusivamente a degli interessi privatistici.
Perciò, proponiamo per la Rai di fine secolo tre fasi: una prima rete sperimentale fatta, cioè, non di sperimentazioni astratta, non di sperimentazione distanti dai processi reali, ma legata ad una possibilità di riaprire canali diretti fra la realtà materiale e quella che viene veicolata sui mezzi di comunicazione di massa, utilizzando linguaggi e sperimentando su una multimedialità, che possa generare, in una seconda fase, la possibilità’ dell’utilizzo delle reti telematiche via satellite per i servizi digitali, per passare, infine, ad una terza fase nella quale è possibile ipotizzare anche una parte di servizi a pagamento in un bouquet pubblico dotando l’utente di un accesso parzialmente gratuito della proposta comunicativa.
Per fare questo c’e’ bisogno di una scelta strategica e quanti sono innamorati del modello francese, anche dentro a questo governo, suggeriamo che occorre fare, su quello che è stato chiamato decoder o in termini tecnici il set-up-box (una scatoletta che dovrebbe tradurre il segnale digitale che arriva o dal cavo o dal satellite per fornire al televisore i servizi innovativi), occorre fare una politica analoga a quella che il governo francese fece per Minitel, evitando che sia soltanto Tele+ ad immettere sul mercato un suo prodotto che, quando sarà distribuito nelle fasce economicamente più elevate, avrà saturato di fatto qualsiasi possibilità’ di avere un’altra modalità di linguaggio che non sia quella della rete legata a Tele+.
Per motivi di brevità’ non affronto questioni che sono state qui ampiamente trattate, come quella del cablaggio, che attengono proprio a questo grado di libertà, cioè’ alla possibilità’ di moltiplicare le possibilità di comunicazione esterna alla codifica mercantile delle grandi concentrazioni nazionali ed internazionali. Qui si inserisce la necessità di informazioni governative sul ridisegno legislativo europeo. Un ridisegno legislativo che parla di una dimensione non più nazionale e in un quadro estremamente in trasformazione; ritengo fondamentale, a tale riguardo, la risoluzione della settimana scorsa sui servizi pubblici radiotelevisivi del parlamento europeo. Le informazioni governative ci dicono che nella riunione con i ministri di Dublino si sono fatti passi in avanti sul terreno della riprogettazione di una presenza pubblica e della sua salvaguardia come specifico europeo. Credo che in Italia dobbiamo compiere uno sforzo per entrare in sintonia con queste che potrebbero essere soltanto delle tendenze e che vada evitato che esse siano, in seguito, smentite dai fatti della realtà legislativa.
Ovviamente nessuno di noi si illude di poter istituire, anche se gli innamoramenti francesi sono molteplici in questa fase, nessuno di noi si illude di poter istituire in Italia quel rapporto paritario tra industria televisiva pubblica e privata esistente in quel paese; ne’ ci illudiamo che sarà facile la battaglia contro il processo di privatizzazione della Stet (battaglia che si inserisce in un più ampio processo di privatizzazione ma che ci vede in qualche modo essere un po’ i primi della classe, in Europa, su questo punto). Infatti, la Germania decide di mettere sul mercato il 10% del pacchetto di Deutch Telecom adesso a novembre ed affida ad una scadenza triennale un successivo 10%; il resto si vedrà. La Francia, con il governo di centro-destra, approva una legge che consente allo Stato di mantenere il 51% del pacchetto di controllo di France Telecom. L’Italia, già oggi, ha il pezzo pubblico al 67% nella Stet, eppure si continua a sostenere che si vuole mandare ulteriormente avanti il processo di privatizzazione. Ora su questo punto, come i compagni hanno potuto vedere in queste settimane, il partito ha tenuto conto di quella che è possibile definire una articolazione di linguaggi.
Abbiamo sentito , non in questa riunione ma in altre, un po’ di malumore o qualche mal di pancia sul problema della cosidetta Golden Share. Vedete la questione dell’azione privilegiata può essere assolutamente tutto o nulla può essere, cioè, una scatola vuota nella quale il governo si garantisce nei tre mesi successivi al processo di privatizzazione (impossibilità di ristrutturazioni, accordi internazionali che ristrutturano la società e/o qualunque accordo di natura strategica senza il consenso del Ministero, del governo e così via), oppure può essere qualcosa di più, può essere una cosa permanente, può essere una cosa che parla del mantenimento del controllo nei settori industriali della proprietà nazionale, può essere una opzione politica generale da poter riempire di scelte di volta in volta. Ovviamente, questo non toglie nulla al fatto del nostro atteggiamento di fondo che ho qui tentato di riprendere e le motivazioni che ci hanno portato a dire di no al processo di privatizzazione della Stet. Su quel punto noi manteniamo tutta la nostra contrarietà e tutta la nostra capacità di azione parlamentare e, soprattutto, nella società’.
Avremo nei prossimi mesi anche la possibilità di un ridisegno del settore della carta stampata. Il governo ha costituito un gruppo di studio presso la presidenza del consiglio per rivedere la 416/81, cioè, la legge di sostegno alla stampa vecchia ormai di più di 15 anni. Rifondazione Comunista ha tenuto, nel gennaio scorso, un convegno a Torino nel quale anticipavamo la nostra disponibilità ed anzi lanciavamo l’urgenza del ridisegno per la nuova fase tecnologica, definendo, forse in maniera un po’ provocatoria, la necessità di una nuova 416 per la multimedialità’.
Ecco questo è il quadro nel quale il mio apporto voleva dare un contributo al lavoro di questa giornata. Io credo in modo molto forte che abbiamo il compito di ripartire da Marx. Credo, cioè, nel compito e nella necessità che abbiamo davanti di riscrivere la critica dell’economia politica di questo modello di sviluppo che si sta modificando sotto i nostri occhi. Con la consapevolezza, però, che ciò si potrà fare solo mettendo in campo un intellettuale collettivo, vista l’alta complessità del compito.
Tabucchi sostiene che il filo dell’orizzonte non è un luogo geometrico. Per i comunisti l’agire politico può e deve sempre più somigliare ad una navigazione con una meta, un orizzonte che non può non spostarsi ad ogni passo che compiamo.
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