LA NUOVA GEOGRAFIA DEL VILLAGGIO GLOBALE

 

Sergio Bellucci                                                                    (bozza non corretta)

 

LA  NUOVA GEOGRAFIA DEL VILLAGGIO GLOBALE

 

 

Qualche settimana fa, parlando con alcuni compagni della accelerazione dello scenario comunicativo, raccontai di aver letto una notizia che mi aveva strabiliato.

Personalmente credo che l’uomo nella società dell’informazione abbia ormai assunto il computer come suo paradigma. I teorici chiamano questa assunzione  una tecnologia di riferimento e, in analogia all’orologio  che con le sue rotelle, ingranaggi e bilancieri,  era stata la tecnologia di definizione per l’era industriale, così il computer, le macchine per il calcolo automatizzato delle informazioni, lo sono per questa nuova fase dello sviluppo.

L’uomo è portato a pensarsi in funzione della tecnologia di definizione (tutti ricordiamo il bellissimo automa di Metropolis di Fritz Lang). Ora tutti noi siamo portati a pensarci come elaboratori di informazioni. La natura stessa è pensata come un immenso bacino di informazioni da elaborare.

Bene. La notizia di qualche settimana fa affermava che una società aveva brevettato un nuovo apparecchio, lo stereolitografo, una sorta di fax tridimensionale in grado di riprodurre oggetti a grandissima distanza, cioè, la riproduzione di superfici, di oggetti reali e concreti attraverso una serie di informazioni.

Alcuni scienziati immaginano il nostro DNA come una sorta di hard disk ove è registrata tutta la storia della nostra evoluzione.

La natura, gli oggetti, l’uomo, quindi, pensati come una serie di informazioni da elaborare.

Se al mercato capitalistico occorreva una nuova frontiera, allora si comincia a capire quale essa sia. E dietro la conquista della nuova frontiera ecco non solo un nuovo assetto dei poteri, ma una vera e propria nuova civiltà, una civiltà che rischia di essere il frutto esclusivamente delle scelte e degli interessi del mercato e di chi lo controlla. Senza più spazi esterni o autonomi.

Se questo è vero, allora occorre che una forza come la nostra, ma anche tutte quelle che vogliono mantenere una centralità all’uomo e non al mercato, compia uno sforzo di comprensione, elabori una strategia di lotta, produca, cioè, una capacità di incidere sui processi in atto.

 

Siamo in presenza di una curiosa situazione: esiste, e i lavoratori italiani lo sanno bene, una economia che è ormai e definitivamente mondiale, con le sue sedi di decisione che sono in grado di condizionare governi, legittimamente o meno eletti, ma non ci si pone il problema del governo mondiale. L’anomalia diviene sempre più acuta man mano che le nuove tecnologie di comunicazione accelerano i processi di integrazione e conoscenza. Tutta la storia della nazione, come unità politica, si è basata sul concetto di “territorialità”. Le frontiere, come diceva Henry David Thoreau, <<non sono a Est o ad Ovest a nord o a sud, ma dovunque un uomo fronteggia un fatto>>.  Allora cosa accade quando, nel mondo, il territorio si espande fornendo un livello globale di scambio come sta accadendo alla esperienza, ormai evocata quotidianamente dai giornali, quella di Internet? Cosa è questa città di 35 milioni di computer e 100 milioni di abitanti che si interconnettono per socializzare le loro esperienze? Chi sono i beneficiari di questo luogo non-fisico? Chi sono gli esclusi? Pensate alla trasmissione di Santoro, Tempo Reale. Gli abitanti di questo spazio fisico hanno sicuramente qualche particolare privilegio per la possibilità di collegarsi e di imporre alla restante parte della nazione il loro punto di vista, la loro idea che, tra l’altro, espressa in forma telematica, assume un oggettività ancora più alta di quella dei partecipanti alla trasmissione. Ma quanti sono quelli ulteriormente spinti alla  passivizzazione? Ad un semplice ruolo di spettatori di seconda categoria?

La rete avvolge il mondo, l’economia è planetaria, ma tutti questi processi non sono regolati da una mediazione politica, che fa fatica ad uscire dagli ambiti nazionali e quando lo fa, lo fa con i meccanismi del conflitto. Forse è l’ora di chiedere il suffragio universale per la vera dimensione politica che governa i nuovi processi: quella mondiale.

 

 

 

Quindi diviene un obbligo iniziare a tracciare le linee di una nuova geografia politica, la geografia politica del mondo dell’informazione, perché i confini sono mutati, labili, a volte inesistenti e se il confine, almeno un tempo, era quella linea, immaginaria e concordata – o a volte subita – ,  che separava i diritti immaginari di una nazione da quelli di un’ altra, allora possiamo affermare che siamo in presenza della più grande guerra di conquista che la Storia dell’uomo ricordi, una conquista che passa attraverso il possesso delle vecchie e nuove reti di comunicazione, il controllo e la qualità di quella che vi è veicolata, l’invasione nella e della privacy, una conquista che non ha bisogno di sconfiggere stati o nazioni, perché conquista gli uomini uno ad uno, ovunque essi siano fisicamente e socialmente collocati.

 

Ma quali sono questi strumenti di conquista? Qual’è la qualità nuova della trasformazione? Qual’è il fattore che consente l’affermarsi di questa nuova tecnologia di definizione? Qual’è la lotta per governare questi processi mondiali? E chi sono i protagonisti economici e produttivi? E quali materie prime sono necessarie per questa nuova necessità produttiva?

 

Schopenhauer affermava che <<ognuno prende i limiti del suo campo visivo per i confini del mondo>>. Ma cosa significa questo in un mondo dove il campo visivo è artificialmente esteso dai mezzi di comunicazione di massa? E dove la sintesi di mondi irreali è disponibile al costo di un dischetto per il computer? Dove il tempo è annullato dalla istantaneità della trasmissione e lo spazio è dilatato a piacimento?

 

La morfologia del nuovo utente è tutta qui.

 

Il passaggio di fase  è avvenuto, molto probabilmente, con l’avvento di un apparecchio che noi tutti, o quasi,  abbiamo nelle nostre case. Molti staranno già pensando, a questo punto, alla televisione. E invece no! Questo apparecchio è il compact disc. Lì, per la prima volta, si rendeva concreta la possibilità di un processo, quello della digitalizzazione, che ha al suo interno la vera Rivoluzione che il mondo sta affrontando. Una rivoluzione che tutti i mezzi di comunicazione, in maniera più o meno veloce, stanno inseguendo.

 

La digitalizzazione, scusate la rozzezza della definizione, è la possibilità di “scrivere” (se ancora possiamo usare questo termine) tutte le modalità del comunicare che l’uomo ha inventato nel corso della sua storia, sotto forma di numeri. Immagini, foto, grafica, cinema, musica, parole, scrittura. Tutto oggi può, e in futuro sarà sempre di più così – anche se personalmente credo che non saranno soppresse definitivamente le tradizionali forme di comunicazione -, tutto, dicevo, sarà scritto con questa nuova penna universale.

 

La comunicazione, sia per qualità che per quantità, ne verrà sconvolta e la società che conosciamo non potrà non subire delle conseguenze analoghe. E’ sempre avvenuto nella storia, all’apparire di una nuova forma di comunicazione, anche se in passato i tempi erano molto più lenti. Oggi il cambiamento è rapidissimo al punto di sfuggire quasi alla sua comprensione.

 

Ma la digitalizzazione, il vero cuore della tecnologia di definizione ha una profonda implicazione sulle modalità della rappresentazione della realtà. E’ il meccanismo stesso su cui si basa, che propone un paradigma che va indagato e svelato e cioè il paradigma della campionatura. Un suono per essere ascoltato dalle nostre orecchie non ha bisogno di essere riprodotto così come esso è, basta una riproduzione cento, mille volte meno fedele, cioè approssimata, per essere scambiata dai nostri sensi per quella reale. Questo accade nel compact disc e questo meccanismo si estende a tutta la società.

 

Tutti noi conosciamo, da almeno un anno, il peso che ha nella scena politica italiana il sondaggio. Il partito di maggioranza relativa è nato su di una indagine, su una campionatura. La realtà, cioè, ridotta ad una approssimazione matematica che conta più della realtà stessa. E questa impostazione ha dietro una logica ferrea, una logica sulla quale si fonda, per altro, una nuova scuola economica, basata su quello che viene definito il dilemma “as if“, “come se“.  Fare come se gli italiani avessero votato, fare come se i lavoratori avessero accettato il rinnovo contrattuale, fare come se i pensionati fossero d’accordo a pagare loro un disavanzo pubblico frutto di decenni di malgoverno.

 

Fare come se. Questo sembra l’imperativo di un mondo che non vuole interrogarsi troppo su ciò che è, su dove sta andando, anche se ha un maledetto bisogno di informazioni su di sé per governarsi. Infatti ogni giorno ci troviamo con un “modello” con il quale dobbiamo fare i conti. Anche per questa ragione il movimento di quest’autunno è stato importante, perché ha fatto riscoprire, pure alla sinistra, che la soggettività individuale non può essere soppressa, che  i modelli sono una cosa e la realtà è un altra, più complessa, che quando le soggettività si incontrano non formano un “modello”, ma formano una collettività, un blocco sociale, e il paradigma “come se” salta, restituendo alla realtà materiale tutto il suo valore concreto. Proprio per questa ragione quello scontro è stato, in qualche modo, uno scontro di civiltà.

 

I mezzi di comunicazione, comunque, continuano a cambiare, si trasformano l’uno nell’altro, la loro unione genera nuovi mezzi e nuova comunicazione, diversa dalla semplice somma dei fattori che l’hanno generata. Il lancio della Video on demand, la TV a richiesta, che nel nostro paese si sta sperimentando per merito di una azienda del settore pubblico, cambierà la logica con la quale abbiamo pensato alla televisione fino ad oggi. Il numero delle reti, così importante nel dibattito odierno, non avrà più senso quando una sola azienda sarà in grado di fornire nello stesso momento, a tutti i suoi utenti, un programma differenziato a livello individuale. Quali dovranno essere le regole, in quel momento, per la par condicio? Sarà sufficiente dividere in maniera eguale i secondi delle varie forze politiche, negli spazi informativi?

 

E ancora, cosa diventerà una rete come Internet quando sarà possibile trasferire non solo dei files di testo, come accade oggi,  ma suoni e immagini in movimento in tempo reale, in maniera bidirezionale e interattiva?

 

Abbiamo detto che occorreva una nuova frontiera al capitale. Le ambizioni e le aspettative del mercato capitalistico non potevano essere circoscritte nei confini di una ridistribuzione delle merci, magari più controllata, ecologicamente compatibile e divise in maniera più eguale. Ma il mondo delle merci materiali, non sarebbe più uscito dalla fase matura. Il toyotismo, il tentativo di mettere sotto controllo la crescita impetuosa della produzione necessaria alla fabbrica fordista, non poteva che essere una risposta temporanea. Il Ministero dell’Industria e del Commercio giapponese evidenziava già quattro anni fa con il suo “Rapporto sui computer della VI generazione”, la necessità di un nuovo fattore strutturale, indispensabile per ripensare allo sviluppo: la rete interattiva, in grado di mettere a contatto diretto le esigenze del consumatore con la produzione, di far diventare l’individuo, in modo diretto, l’informazione, l’input produttivo.

O la rete o niente sviluppo. Una organizzazione della produzione, quindi, che per seguire queste necessità aveva bisogno ancora di più di una flessibilità portata ai limiti della produzione individualizzata.

 

Allora la rete è la possibilità di inviare ad ogni singolo consumatore delle informazioni e riceverne in cambio delle altre, il mercato (il luogo dello scambio) si virtualizza – si pensi alle vendite per corrispondenza che si allargano fino a diventare televendite ma anche ai “supermarket virtuali” come hanno promesso ai propri utenti aziende come la TCI, una delle aziende protagoniste  dello scontro sul controllo dei nuovi mezzi di comunicazione – la vendita si trasforma in uno scambio di informazioni senza la transazione monetaria del valore di scambio, che si smaterializza progressivamente (pensate alle carte di credito o al denaro elettronico).

 

Lo stesso Ministero in quel rapporto individuava, però, una profonda contraddizione che la sinistra europea conosce bene: l’operaio, il lavoratore, il tecnico così necessariamente flessibili sul piano produttivo, per essere dei soggetti attivi nel nuovo mercato delle merci, a prevalenza di immaterialità, avrebbero dovuto essere anche dei raffinati consumatori di questi nuovi prodotti.  Subalterni nelle ore di lavoro, autonomi e  protagonisti nelle ore del consumo.

 

La nuova fase, quindi, sembra caratterizzata dalla necessità di integrazione delle vari fasi del processo produttivo e di consumo, cioè nell’abbozzo di quello che viene definito come il Network globale.

Io credo che la sinistra debba avere la forza, in corsa e senza la possibilità di ritirarsi dallo scontro quotidiano, di analizzare, di ingerire, di digerire i significati più profondi di questo cambiamento che, al contrario di quanto si è via via consolidato nel suo immaginario, non ha un segno univoco, non ha una tendenza “precostituita” . Usando una raccomandazione contenuta nel rapporto del Ministero giapponese, possiamo dire che <<occorre definire le analisi e gli obiettivi sociali e poi definire lo sviluppo tecnologico necessario per essi e non viceversa>>, come i fautori della liberalizzazione a tutti i costi sembrano voler chiedere, invocando una presunta  modernità.

 

E’ per questo che noi in questi mesi abbiamo difeso il ruolo del servizio pubblico.

 

<<Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune ad una azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre>>. Questa frase di Mc Luhan è stata la nostra linea ispiratrice nella azione di questi mesi.  Stiamo scrivendo, in questi anni, una sorta di nuovo alfabeto, di nuova grammatica universale e rischiamo di delegare, questo geneticamente fondante patrimonio comune, alle scelte di qualche direttore commerciale.

 

La difesa di uno spazio comunicativo svincolato dal mercato si impone, quindi, come vera e propria necessità, non come difesa di una burocrazia statale che, nei settori della comunicazione, aveva, salvo rare eccezioni, risposto sempre alla parte conservatrice del paese.

 

Se è vero come io credo che la qualità del passaggio di fase ha bisogno della soggettività matura degli individui, anche per chi li pensa solo come consumatori, ci si deve rendere conto che essi devono essere messi in grado di decidere sulla qualità sociale del nuovo sviluppo.

 

Quindi la nuova frontiera c’è, anche per la sinistra. E se l’invenzione è figlia della necessità, la digitalizzazione sta lì a rappresentare  il confine superato, i territori inesplorati da conquistare e governare.

 

Per fare ciò, dovremo aggiornare le vecchie categorie, costruircene delle nuove, che ci  consentano di esplicitare le tendenze, gli scontri e le contraddizioni dell’attuale mondo capitalistico.

 

Ho parlato di Internet, il simbolo della rete che sta avvolgendo la terra. Ma l’essenza della rete è nel ruolo che essa avrà all’interno della ristrutturazione del mercato capitalistico. Non a caso, la battaglia più grande sta avvenendo negli Stati Uniti.

 

Gli Usa sono stati da sempre il paese nel quale i nuovi mezzi di comunicazione di massa hanno raggiunto la forma mercantile, il modello di commercializzazione. Questo è avvenuto nell’Ottocento con i giornali, con la radio e con la televisione nel Novecento e in particolare con il cinema. Non mi soffermo sui motivi e sulle implicazioni di tutto ciò, ma se la televisione è usata per l’intrattenimento, invece che per la formazione, lo dobbiamo all’orientamento al marketing della produzione comunicativa statunitense. La logica di fondo, solo in apparenza democratica, è “dare alla gente ciò che essa vuole”; certo, ma in una società complessa questo significa dare ciò per cui essa viene preparata.

 

Se gli USA sono il luogo dove si prefigura l’aspetto commerciale di una nuova tecnologia di comunicazione, abbiamo già abbastanza chiaro ciò che sta accadendo. I macro-settori della comunicazione, quello telefonico, quello informatico e quello televisivo produttivo di fiction, stanno combattendo la più grande battaglia per determinare quale sarà la forma tecnologica di una fusione di settori che sembra ormai inevitabile.

 

Ma tutti i giochi sembrano aperti.

 

Se fino a qualche mese or sono le compagnie telefoniche sembravano in poll position, oggi molti degli accordi sono in via di ridiscussione. Più che ad una unificazione su di un salto tecnologico sembra che si sia in presenza di un big bang delle tecnologie. Ognuno cerca di costruire il proprio standard e di imporlo sui mercati, con costi e conseguenze non facilmente controllabili. La strategia globale sembra, comunque, quella del posizionamento su più settori, della diversificazione in attesa di comprendere quale sarà la tecnologia vincente. Da qui la politica delle alleanze a vasto raggio, che implicano da parte dei cartelli americani accordi strategici con aziende europee per costruire la massa critica diffusiva necessaria alla quantità di investimenti tecnologici. Ma, mentre altri paesi europei si sono dotati di infrastrutture e di scelte strategiche nello scorso decennio, nel nostro paese la  totale deregulation imposta al settore televisivo ha prodotto un fortissima arretratezza, anche se mascherata da una ampia offerta.

All’interno del quadro di sviluppo, il nostro paese è buon ultimo. Il cavo televisivo non è mai stato realizzato, la diffusione da satellite trova, ancora oggi, ostacoli enormi, la posa dei cavi in fibra ottica si è limitata sostanzialmente alle dorsali, ma è ben lungi dall’essere disponibile nelle case.

 

Ultima, ma non per importanza, la mancanza di una strategia unitaria delle industrie italiane proprio nei settori di incontro cioè, la telefonia, l’informatica, la televisione, la produzione di fiction. Il settore pubblico, l’unico ad avere attività in tutti i comparti e, quindi, in grado di darsi una strategia globale capace di fronteggiare sul piano sia qualitativo che economico i grandi colossi americani ed europei, non riesce ad andare al di là della strategia della privatizzazione, una strategia che consentirà a qualche soggetto, non è escluso straniero, di acquisire a basso prezzo una presenza trasversale sul mercato italiano, che diverrà il giorno dopo di un valore cento volte superiore al  prezzo di vendita.

 

Si pensi solo al magazzino dei programmi RAI.

 

Quando si parla dell’Italia, dall’altra parte dell’Atlantico non ci si interessa della struttura distributiva dei segnali (da noi senza governo e ormai satura) o del valore dei diritti dei film del magazzino della Fininvest (che del resto sono di proprietà statunitense) o ancora, della rete distributiva della Telecom. No, l’unica cosa che conta davvero, per chi come gli americani ha un problema di cosa far veicolare nelle nuove reti di trasmissione, è il magazzino di aziende come la RAI.

 

Ma il nostro paese è senza una strategia. Essendo la privatizzazione, oramai, l’unico punto di riferimento politico, molte volte anche a sinistra, rischiamo di far pagare al nostro paese una cambiale senza prezzo: quella della definitiva perdita di una propria identità culturale, di una specificità, se volete, di un vero e proprio caso.

 

Su questo terreno la sinistra può e deve incontrare un discreto numero di soggetti, ma il suo primo grande alleato, un alleato al quale deve offrire non solo uno spazio di confronto come quello odierno, ma anche luoghi e strutture adatte alla fase, è il mondo del lavoro e, in particolare, quello della comunicazione. Ma occorrono nuovi e più ambiziosi scenari in sintonia con la qualità dei cambiamenti. Ad esempio, cosa vuol dire oggi, ma soprattutto cosa vorrà dire domani, la distinzione tra operatori, tecnici e giornalisti quando le tecnologie imporranno, come sta già avvenendo nelle aziende e nei contratti nazionali di lavoro, figure intermedie che di intermedio hanno solo il nome perché non hanno né la tutela e la dignità professionale dei giornalisti né il loro livello salariale, ma tutte le loro responsabilità, anche di fronte al cittadino utente? Non si pone un problema di vera e propria deontologia professionale per  tutti  i lavoratori della comunicazione? Oppure, cosa significherà il diritto d’autore in un mondo dove la digitalizzazione consentirà di riprodurre, modificare, stravolgere le opere di un altro autore? Chi ha detto che Totò avrebbe accettato di fare una pubblicità per la Coop? Oppure cosa significherà, sotto il profilo delle professioni alle quali siamo abituati, che su di un banco, con un computer si potrà girare un intero film? Magari con scenografie e personaggi digitalizzati comperati in edicola al prezzo di una rivista? E questi non sono scenari futuribili. Tre anni fa si parlava di programmi di “morphing” (quelli che consentono di modificare un volto a partire da una fotografia) come di una possibilità hollywoodiana avanzatissima.

 

Questa estate nelle edicole si vendeva un programma di “morphing” a 12.000 lire!

 

Da più di un anno, ad esempio, si è costituita una associazione del professionista multimediale. Cosa ha portato questi lavoratori ha ricercare una rappresentanza esterna ai sindacati di categoria, al sindacato confederale? E come rispondono le strutture dei lavoratori nel loro complesso? Si può mantenere il vecchio confine tra i contratti nazionali? Con quale prospettiva? Si può pensare di aspettare le implicazioni della informatizzazione, dietro un argine che non tiene più, come sta accadendo ai lavoratori dei quotidiani?

 

Il mondo sta cambiando. Il segnale più evidente sono i continui processi di miniaturizzazione e il minor consumo di energia necessario per calcolo effettuato. I microprocessori si insediano in luoghi che, solo fino a ieri, erano impensati, ad una velocità incontrollata e il più delle volte senza che noi ce ne accorgiamo. L’unica difesa che abbiamo è tentare di conoscere il meglio possibile il mondo che si sta creando.

 

L’ultimo decennio ha rappresentato un periodo di grandi iniziative nel campo della diffusione radiotelevisiva che, di norma sono state coordinate, in tutti i paesi industrializzati, a livello governativo. Unica eccezione nel panorama è stato il nostro paese. La logica di queste iniziative è stata quella di aumentare i circuiti domestici e  di differenziare i punti di trasmissione.

Il risultato di questa politica di intervento nel vecchio continente è una popolazione “cablata” di oltre 30 milioni di famiglie ed una popolazione “satellitare” di oltre 5 milioni. Nel nostro paese, lo sviluppo della comunicazione radiotelevisiva ha invece determinato l’aumento del numero delle reti terrestri fino ad arrivare ad una vera e propria saturazione delle bande di frequenze dedicate a questo servizio.

L’ aggiornamento del settore, ovvero la definizione degli obiettivi e delle tecnologie di riferimento nel prossimo decennio per le strutture di diffusione radiofoniche, televisive, dei “new media” come vengono chiamati, nonché di quelli di produzione dei programmi, debbono necessariamente integrare tecniche digitali con sistemi satellitari, sistemi cablati e reti terrestri.

Questa tendenza è confermata dal fatto che una notevole fetta di investimenti e dei poli di ricerca e sviluppo ha riguardato i nuovi standard radiofonici e televisivi, sia sul piano del segnale (audio/video) che su quello di trasmissione. Su entrambi, infatti, sembra ormai sempre piu consolidarsi, a livello mondiale, la scelta delle tecniche digitali. Sul piano delle strutture sono quindi necessari sistemi di trasmissione in grado di trasportare a casa dell’utente, a basso costo, un numero molto elevato di programmi contemporaneamente e per tali obiettivi risulta strategica la tecnica digitale.

 

Quello che serve al nostro paese, alla sinistra, è una nuova consapevolezza di massa, come avvenne per i meccanismi del ciclo della produzione tayloristica.

 

<<Ogni tecnologia ideata o esternata dall’uomo ha il potere di ottundere la consapevolezza umana durante il periodo della sua interiorizzazione>> affermava Mc Luhan.

E’ urgente, quindi, una rilettura da sinistra delle potenzialità di questo cambiamento, cambiamento che rischiamo di subire perché, molte volte, è fuori dalle nostre categorie tradizionali. L’urgenza di questa rilettura non nasce da un desiderio di parte o, come dice qualcuno, da un desiderio di far sopravvivere la sinistra oltre il suo destino, ma nasce dall’esigenza di offrire una altra “chance” al cambiamento in atto, una “chance” che eviti quell’involuzione autoritaria, sociale ed economica che altre letture determinerebbero.

Nel suo libro Divertirsi da morire, Neil Potsman mette a confronto due concezioni, quella di Orwell con il suo famosissimo 1984 e quella di Huxley con il suo Mondo nuovo.  Orwell immagina che saremo sopraffatti da un dittatore, che i libri sarebbero stati banditi, che ci avrebbero privato delle informazioni, che saremmo stati una società di schiavi dove la gente è tenuta sotto controllo con le punizioni. Per  Huxley non sarà il “Grande fratello” a toglierci l’autonomia, la cultura, la storia. La gente sarà felice di essere oppressa e adorerà la tecnologia che libera dalla fatica di pensare. Non ci sarebbe stato più nessuno desideroso di leggere dei libri, tutti sommersi dalle informazioni  fino ad essere ridotti alla passività e all’egoismo, sommersi da una cultura cafonesca, ricca di sensazioni e bambinate, saziandosi da quell’appetito insaziabile di distrazioni. La gente, per Huxley, è tenuta sotto controllo con i piaceri. La vita, cioè,  come una grande rappresentazione, ove non si fanno le cose della quotidianità, ma si fa tutto “come se“. Ma se siamo destinati a costruirci come marionette, almeno che siano marionette che sappiano tirare da sole i propri fili.

 

 

 


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