SEMINARIO NAZIONALE SULLA COMUNICAZIONE
Il seminario che il Dipartimento ha voluto oggi, non vuole essere l’occasione per proporre una proposta dettagliata e definitiva sui vari aspetti che il mondo della comunicazione ha davanti a sé. La giornata di lavoro odierna è inserita in un percorso che in qualche modo parte dal convegno del Cavour dello scorso Marzo e vuole essere un lavoro di approfondimento e di costruzione che vorremmo concludere, nei mesi dopo l’estate, con una iniziativa pubblica di ampio respiro.
Nelle conclusioni del convegno del Cavour, Bertinotti affermava che nel “continuismo non c’è nessuna possibilità di reggere, non perché non vogliamo, ma perché non possiamo”.
Credo che questa apparentemente semplice affermazione, abbia profonde implicazioni per tutti noi, per la sinistra, per il nostro Partito.
E’ vero, siamo di fronte alla crisi di una civiltà, alla fine di un compromesso economico, sociale e politico e le forze che in una fase come questa non si pongono all’altezza, non si sforzano di comprendere, di analizzare, di proporre soluzioni nuove, rischiano una rapida marginalizzazione (marginalizzazione peraltro organica e funzionale agli stessi processi di trasformazione in atto).
Se permettete, prima di entrare nel vivo della relazione, vorrei raccontarvi un episodio, un ricordo affiorato proprio durante una discussione nel Dipartimento in vista del seminario, dei miei primi mesi di iscrizione alla FGCI.
Durante uno di quei “corsi di formazione” che le vecchie sezioni del PCI curavano con una certa capacità formativa, un compagno, illustrando le ragioni “teoriche” che avevano portato alla crisi della Seconda Internazionale, espose la “novità leniniana” dello sviluppo imperialista. Ricordo ancora lo schema tracciato su di un manifesto capovolto e, avendolo trovato particolarmente convincente, mi domandavo come mai i grandi teorici della Seconda internazionale “non vedessero” con chiarezza quei processi in atto.
Mi domandavo se non sarebbe bastato “spiegarsi meglio” per superare incomprensioni e divisioni.
Con il tempo compresi che le cose erano molto più complesse, ma la sensazione che in alcune fasi della storia occorre uno scarto prospettico, saper delineare, anche se a grandi tratti, il nuovo paradigma che si ha davanti, può significare la stessa capacità di vittoria di un movimento politico, di una idea.
Per questo motivo mi convinceva molto l’impostazione di Bertinotti al Cavour.
Siamo alla ridefinizione di una civiltà e, se è vero come è vero che questa si compie nel rapporto tra produzione e riproduzione sociale, allora la funzione della comunicazione di massa in questo passaggio, svolge un doppio ruolo.
Svolge un ruolo nel campo produttivo, perché il sistema del trattamento automatico dell’informazione sta modificando profondamente la struttura stessa e le modalità della produzione, e svolge un ruolo in quello della riproduzione sociale, per gli effetti omologanti e globalizzanti che la comunicazione sta via via assumendo.
Tutto ciò connaturerà la qualità stessa della politica, della democrazia, del mondo.
Lo sforzo da compiere, immane dopo i risultati elettorali, dovrà riguardare sia una “battaglia di resistenza”, a salvaguardia dei principi costitutivi che per noi rappresentano il codice genetico della democrazia uscita dalla guerra di Liberazione, sia la ridefinizione di confini “progressivi” della sua stessa essenza.
L’esito, a mio avviso e come ormai è evidente, non è scontato e risiede nella capacità progettuale della sinistra e in particolar modo del nostro Partito perché, per fare ciò occorre un alto grado di alterità e di autonomia culturale e tutto ciò, è storicamente inscritto nel patrimonio e nella storia dei comunisti italiani.
I progetti neo-autoritari si basano sulla vittoria di un paradigma al cui centro è l’impresa capitalistica della nuova fase (che per semplificazione chiamerò della “società dell’informazione” usando il termine utilizzato da David Lyon nel suo libro omonimo e rifacendomi alle caratteristiche lì definite).
L’analisi delle caratteristiche di questo assetto produttivo evidenzia nuove e più alte contraddizioni. Una forza alternativa deve sistematizzarle e utilizzarle per l’iniziativa politica.
Per questo motivo le cartelle che sono state distribuite non contengono proposte dettagliate di intervento diretto sulle varie questioni aperte (dalla vicenda RAI a quella della STET passando per la discussione del ruolo e dei compiti della commissione di vigilanza RAI); lo sforzo messo in campo dal nostro dipartimento si è voluto soffermare sugli aspetti strategici che attraversano il sistema della comunicazione.
E su questo e di questo vorremmo oggi discutere.
Proprio sugli aspetti strategici, sul significato dei cambiamenti in atto, sul loro valore neo-autoritario e passivizzante, che occorre partire.
In questi mesi una domanda si aggirata nel nostro Paese, ma più in generale in tutto l’Occidente. Una domanda che da noi rischia di avere implicazioni più radicali che altrove.
La risposta a quel quesito, però, non può – e non potrà sempre di più in futuro – essere scontata, ma avrà bisogno di argomentazioni forti, di prospettive nuove, di soluzioni in grado di “rifondare un senso”.
“Deve esistere una TV pubblica?”
“Quale deve essere il ruolo del pubblico nella comunicazione?”
E ancora.
“La comunicazione, nella società dell’informazione, può essere semplicemente un “fatto” privato, un problema di mercato?”
Certo è difficile, per una forza come la nostra, che proviene da decenni di opposizione, difendere, oggi, un concetto come quello del ruolo pubblico, ruolo che i governi a centralità democristiana hanno mutato prima in ruolo governativo e poi lottizzatorio.
La risposta, ai quesiti a cui accennavo, varia da paese a paese e dipende fortemente dal ruolo che esso ha oppure si riconosce o ambisce ad avere, nello scenario politico internazionale.
Negli ultimi mesi Rifondazione Comunista ha impegnato molte forze in una battaglia contro la privatizzazione della STET.
Non credo che a noi abbia interessato entrare nella discussione sugli aspetti gestionali, pur importanti, ma quell’iniziativa rappresenta il segnale che la nostra elaborazione si sta ponendo al livello dei processi di trasformazione e che non era neutro stare da una parte o dall’altra per lo stesso destino della democrazia.
Occorreva, cioè, un segnale forte e noi abbiamo cercato di darlo, suscitando qualche sorpresa (e qualche dispiacere) anche a sinistra.
Il Paese ha bisogno di uscire da una ubriacatura che sembra durare di più dello stesso vino a disposizione. Non è regalando a qualche potentato (tra l’altro sempre i soliti ignoti), la finanziaria del settore della comunicazione pubblica che si imbocca la strada del nuovo.
Occorrono scelte strategiche, scelte in grado di garantire il massimo di pluralismo, di democrazia e, in particolare, quel fondamentale diritto che è il diritto alla comunicazione.
Per il nostro Partito la risposta ai quesiti posti è, in qualche modo, scontata, ma non lo è né nei contenuti né all’esterno, anche nel fronte progressista.
Per rafforzare la nostra tesi, quindi, bisogna saper rispondere, concretamente, a domande come quelle che aleggiano oramai anche dentro le case della gente.
Deve esistere ancora un canone?
A cosa deve servire?
Il servizio pubblico deve accedere al mercato pubblicitario?
Deve essere relegato solo negli ambiti e nei servizi che commercialmente non possono essere coperti?
Per dirla in modo sintetico: quale caratteristiche dovrà avere il mercato della comunicazione nel terzo millennio?
Questa è la forma e la sostanza del nodo politico dei prossimi anni.
Horkheimer e Adorno, in un lontano saggio del 1947, sostenevano che “Kant [aveva] anticipato intuitivamente ciò che è stato [successivamente] realizzato, consapevolmente, solo da Hollywood: le immagini sono censurate in anticipo, all’atto stesso della loro produzione, secondo i modelli dell’intelletto conforme al quale dovranno essere contemplate”.
“Lo spettacolo – affermava poi Debord nel lontano ‘68 – è il capitale ad un tal grado di accumulazione da divenire immagine”.
Questa analisi sulla qualità intrinseca “dell’industria culturale”, come i due francofortiani definivano il “sistema dei media”, ci fornisce un imperativo: se l’unica produzione culturale disponibile fosse prodotta da interessi privati – come oggi stanno apertamente teorizzando i nostri avversari – allora l’omologazione alla “logica del mercato capitalistico” sarebbe giunta fino al cuore della collettività umana e dell’individuo, nella sfera stessa della produzione del pensiero, senza più nessuna possibilità di fuoriuscita.
La fase finale di questa vera e propria aggressione all’autonomia individuale è già in atto. Pensiamo alle sceneggiature elettroniche messe in campo dall’apparato produttivo hollywoodiano, macchine cioè che scrivono automaticamente teleromanzi, telefilm e in alcuni casi gli stessi prodotti cinematografici.
Questo segnala non l’arrivo, ma l’inizio di una nuova fase: quella della completa automazione della produzione dell’immaginario collettivo e degli archetipi sociali secondo gli schemi pre-impostati dall’industria statunitense.
Se sapremo riprendere le fila di una critica serrata a questo modello non credo che saremo soli nel condurre una battaglia su questo terreno, ma, proprio per questo, serve un impianto teorico nuovo.
Per fare ciò occorre definire spazi “esterni” e occorre conquistarli come un diritto essenziale di vera e propria “sopravvivenza umana” perché il modello tende ad omologare ormai tutte le regioni del globo, senza più riserve.
Asor Rosa, nel suo libro “Fuori dall’Occidente”, sosteneva che in questa fase storica non viene più tollerato “che l’ordine mondiale smetta di ruotare intorno al principio assoluto del potere unico” e che “un mondo imperiale è un mondo che marcia verso una totale de-valorizzazione”.
Vorrei soffermarmi, brevemente, sulle implicazioni di questo concetto.
I valori, le idee, che fino a qualche anno fa venivano messi continuamente in gioco dai conflitti, in modo particolare quelli sociali, ma anche quelli militari, sono oggi come estirpati dalla storia umana, soprattutto qui in Occidente. Al massimo possono rimanere nelle pura sfera soggettiva, ma difficilmente assumono quel connotato “politico” che, soprattutto in Europa, le aveva caratterizzate fino a pochi anni fa.
Allora bisogna lanciare un grido d’allarme, un grido analogo a quello lanciato a Rio dagli ambientalisti.
Questo tipo di sviluppo e il modello capitalistico dei consumi, dicono in buona sostanza gli ambientalisti, oltre a essere incompatibile per gli aspetti quantitativi è estremamente pericoloso sotto il profilo della distruzione delle specie viventi.
Il grido d’allarme sul concetto della “bio-diversità” è però estendibile, per analogia, alla società umana.
Il prodotto della globalizzazione dell’informazione, in un mondo imperiale, oltre ad essere un pericolo sul piano democratico, è un forte rischio per la stessa capacità di elaborazione culturale dell’uomo: siamo in presenza, cioè, di una fase di distruzione di culture, modalità di vita, di idiomi, di modi di essere, che mettono in serio pericolo, a mio avviso, la stessa prospettiva umana.
Quella che io chiamo la “socio-diversità”, che era stata motivo di conflitti ma anche il vero patrimonio della storia pluri-millennaria dell’uomo, rischia di essere azzerato in una sola generazione.
Per questi motivi gli spazi non mercantili, nella comunicazione digitale del futuro, dovranno essere garantiti e salvaguardati con la stessa energia e capacità strategica con la quale, all’inizio del secolo, il nostro movimento chiedeva, accanto al suffragio universale, il diritto all’educazione come fattore di autonomia individuale e collettiva.
Non può esistere un futuro se si cancellano culture, storie, tradizioni.
La battaglia non per una “riserva” pubblica nel campo della comunicazione, ma perché essa sappia rappresentare interessi reali, materiali e ideali della gente, è inserita, oggi dentro questo processo. Dobbiamo sapere, però, che i nostri avversari partono da una situazione favorevole nella quale l’idea che la comunicazione, nelle sue varie forme espressive, sia un mero prodotto (e anche apparentemente gratuito!) ha sfondato molte linee difensive e, spesso, stentiamo a riconoscerlo anche a noi stessi.
Non basta “sperare” nella capacità autoregolativa di questo speciale mercato, forse non bastava neanche quando esisteva solamente la carta stampata e maggior ragione e sufficiente oggi.
Invocare semplicemente la possibilità di concorrenza, di liberazione del mercato dai vincoli monopolistici, è oggi una condizione necessaria ma non sufficiente. Proprio le caratteristiche del salto tecnologico ci impongono di ripensare le casematte della lotta a partire dalla qualità dell’innovazione.
Queste, infatti, non possono essere separate dagli uomini, dal loro linguaggio, dai loro valori, dalla loro cultura dalla loro socialità e, a maggior ragione, le innovazioni tecnologiche che attengono direttamente a quella fondamentale esperienza umana che è la comunicazione.
Esse sono in grado di mutare radicalmente i paradigmi di riferimento.
La storia dell’uomo aveva visto consolidarsi più di una tecnologia di comunicazione: dai graffiti sulle pietre alla scrittura, dal linguaggio alla musica, dalla pittura al cinema.
Ad ogni salto tecnologico le potenzialità comunicative hanno compiuto un salto in avanti: si pensi all’innovazione dovuta alla cinematografia che riusciva a riprodurre, per la prima volta nella storia dell’umanità, immagini in movimento, suoni, parole, testi, musica.
Ora, il salto al quale siamo destinati sotto il profilo del consumo, visto che sul piano della tecnica esso è maturo da molti anni, consente di “scrivere” su di un unico supporto, con un unico linguaggio (quello binario del computer) tutte le modalità comunicative finora inventate dall’uomo (quella che in gergo tecnico viene chiamata multimedialità).
Il salto, apparentemente, può sembrare non così grande, invece è il più alto mai avvenuto nella storia dell’uomo ed è potenzialmente in grado di ricostruire tutta la nostra modalità di approccio alla stessa conoscenza. Non affronto qui le implicazioni epistemologiche e teoretiche che tutti gli esperti sostengono stravolgenti.
Per restare all’analisi del solo significato produttivo e sociale le caratteristiche di questo sviluppo evidenziano la rottura di quel compromesso keynesiano sul quale la sinistra europea aveva costruito decenni di politica.
Oggi l’assenza di innovazione determina la crisi aziendale e quindi la disoccupazione, tanto quanto l’investimento per l’innovazione stessa.
Questo circolo vizioso, sul quale la sinistra e il sindacato sono rimasti incagliati per tutto il decennio Ottanta, può essere rotto solo sostituendo, alla competitività, delle priorità altrettanto forti e basate su bisogni sociali non mercantili.
Sul piano dell’innovazione questo modello di sviluppo, per veicolare i suoi prodotti, necessità di una rete in grado di collegare tutti gli individui ai quali offrire i servizi o prodotti.
Sarà proprio questa rete che trasformerà il modo di lavorare, di studiare, il mercato, lo stesso simbolo dell’economia classica e, quindi, le forme della “moneta”, le aziende fino ad arrivare alle chiese (è di qualche mese fa la notizia della prima informatizzazione di una parrocchia!): in una sola parola la nostra vita!
La rete, quindi, modellerà la qualità dello sviluppo più di qualsiasi altro fattore. Una rete efficiente sarà in grado di accelerare lo sviluppo, di indirizzarlo con estrema naturalezza, e nello stesso modo modellerà su di sé l’intera società.
La nascita del settore della telematica, la fusione, cioè di telecomunicazioni e informatica, non é che una prima fase del processo, ma in genere si commette l’errore di immaginarla come una pura necessità comunicazionale delle aziende o il luogo dove giovanissimi hackers imperversano con la loro genialità.
Al suo interni, invece, va ripresa con forza la battaglia sul significato stesso del termine sviluppo o, per meglio dire, delle finalità della ricerca scientifica e dell’innovazione tecnologica.
Vorrei sottolineare, a questo proposito, un dato interessante: quella che veniva chiamata la “ricerca pura” rischia una vera e propria estinzione.
La lotta per una scuola libera, di massa, qualificata, autonoma e non asservita alle pure necessità mercantili, non segnala che il punto di partenza.
Gli esperti affermano che negli ultimi 40 anni la madre di tutta la ricerca pura (la fisica) è rimasta sostanzialmente ferma mentre la ricerca è sempre più orientata esclusivamente agli interessi diretti dell’economia. Certamente le tecnologie di fine millennio non sono più neutre di quelle che le hanno procedute: si inventa e si scopre ciò che si ricerca, ma questa non è una novità visto che i latini amavano dire che chi cerca un ago, trova un ago.
E’ che si sono consumati i margini “esterni” alla produzione in modo così evidente da teorizzare la fine dell’autonomia della ricerca.
La selezione e la produzione delle nuove tecnologie sono, oramai, il risultato delle scelte dei vertici aziendali che decidono quale tecnologia produrre, e quale sarà vincente, in base a due criteri: quello della redditività e quello del controllo sui lavoratori e sul processo produttivo.
Allora bisogna ripartire da qui: l’obiettivo della ricerca deve essere quello del miglioramento della qualità della vita e della qualità dello sviluppo o quello del semplice aumento della competitività economica?
La commissione europea che ha lavorato negli ultimi quattro anni sulla “Previsione e valutazione di scienza e tecnologia” afferma, nella sua ultima relazione, che “stiamo assistendo alla nascita di un nuovo tecno-mondo fondato su cinque pilastri e rispondente a una logica dominante dell’innovazione di natura produttivistica e finanziaria”.
I suoi effetti sono la concentrazione delle risorse economiche e finanziarie in aree e gruppi sempre più ristretti, l’aumento della disoccupazione – anche a causa dell’innovazione tecnologica -, l’esclusione e l’abbandono di miliardi di abitanti dei paesi poveri, il degrado ambientale e delle aree urbane.
In questo processo, afferma la commissione, la ricerca scientifica e l’innovazione tecnologica potrebbero intervenire con soluzioni commisurate ai bisogni non soddisfatti, ma occorrerebbe un orientamento nuovo nello sviluppo che, loro stessi, definiscono post-competitivo, basato cioè sui bisogni sociali e di valorizzazione della risorsa umana, invece che su quello della competitività.
A maggior ragione è fondamentale intervenire sulla logica di funzionamento di quei settori “nuovi” che si stanno affacciando in questo momento sullo scenario mondiale: occorre, cioè, modellare le caratteristiche e i contenuti delle reti di comunicazione digitali prima che la logica della pura competitività abbia determinato e imposto la qualità del nuovo sviluppo.
I margini per una azione ci sono.
La fase che stiamo attraversando, quella che da molti viene definita “dell’implosione elettronica”, ci obbliga a discutere di un mezzo sopra il quale viaggiamo e che rischia di correre molto più veloce della nostra capacità di comprensione.
“Ogni tecnologia ideata e esternata dall’uomo ha il potere di ottundere la consapevolezza umana durante il periodo della sua interiorizzazione” affermava McLuhan. Il rischio di non poter più decidere gli indirizzi, gli sviluppi, si concretizza in modo spaventoso e progressivo.
Questo evidenzia le forti tensioni e le enormi contraddizioni che ci si aprono davanti. Altro che fine della storia!
Qui, per brevità, voglio ricordarne solamente una, tra l’altro evidenziata da una fonte sicuramente non di parte.
Nella relazione del comitato di ricerca sulle nuove tecnologie del trattamento dell’ informazioni sui “computer della VI generazione” del Ministero dell’industria e del commercio giapponese, il leggendario MITI, vengono evidenziati i nessi tra l’uomo produttore e l’uomo consumatore nella società dell’informazione, un uomo che sviluppa istanze e aspettative di vita indotte dalla qualità stessa dei bisogni sollecitati e proposti.
Il rapporto afferma che, per garantire una nuova fase di sviluppo, occorre un nuovo ordine sociale, un lavoro più appagante, sia sotto il profilo economico ma soprattutto sotto quello della realizzazione del sé.
Dentro questo modello di sviluppo, sostiene ancora il rapporto, le aziende dovranno entrare in diretto contatto con i consumatori per determinare la loro produzione, attraverso la rete e senza molte delle attuali mediazioni.
Senza di tutto ciò non sarà possibile parlare ancora di sviluppo.
Il ruolo di protagonista, e di protagonista attivo e consapevole, dell’individuo è quindi fondamentale.
La necessità di consumi “alti” sotto il profilo della capacità culturale e critica è, quindi, intrinseca alle aspettative di uno sviluppo che però costruisce costantemente una società sempre meno autonoma. Se lo stesso consumatore intelligente, affermano al MITI, nel momento di entrare nella sfera produttiva, deve trasformarsi in un lavoratore precario e subalterno, qualcosa non funzionerà.
Le contraddizioni, quindi, non mancano e non vengono cancellate neanche nella parte alta dello sviluppo.
Parafrasando il linguaggio matematico possiamo sostenere che l’equazione che somma da un lato il settore delle telecomunicazioni, l’informatica e la televisione, ha come prodotto una incognita che grava sui nostri destini.
Non si deve rifiutare, tra l’altro non possiamo farlo, il futuro che ci aspetta: dobbiamo essere consapevoli che, almeno in parte lo determiniamo con le nostre azioni o le nostre non-azioni. John Naisbitt, autore di saggi importanti nell’analisi delle tendenze in atto nella società americana, sostiene che “le tendenze, come i cavalli, sono più facili da cavalcare nella direzione in cui esse stanno andando”. La differenza tra chi si accontenta di restare in sella con le briglie ben salde, lasciando andare il “cavallo” dove vuole lui, e chi vuole porsi il problema di modificare la corsa del cavallo è tutta qui. Ma la “tendenza”, per essere indirizzata, va compresa, analizzata.
Il movimento operaio, le sue organizzazioni, avevano compreso profondamente le caratteristiche dello sviluppo capitalistico nella fase fordista e, infatti, erano riusciti a proporre il suo superamento individuando le contraddizioni più forti, proponendo soluzioni e conquistando, su di esse, il consenso di larghi strati popolari e non solo.
L’analisi, quindi, conduceva a delle proposte che erano vissute come un forte avanzamento di civiltà, intrise di benessere e sicurezza diffusa.
Uno sforzo simile va oggi compiuto per la società dell’informazione che rischia di sfuggire a molte delle griglie di lettura che abbiamo utilizzato fino ad oggi.
Per far questo occorrono idee forti, strategiche, almeno quanto le tendenze che si vogliamo modificare; non serve rifiutare il futuro.
Pierre Lévy, nel suo famoso “Le tecnologie dell’intelligenza”, sostiene che “il colmo dell’accecamento si raggiunge quando le vecchie tecniche sono dichiarate culturali ed impregnate di valori, mentre le nuove sono denunciate come barbare e contrarie alla vita. Colui che condanna l’informatica non peserebbe ma a criticare la stampa ed ancor meno la scrittura. Il fatto è che la stampa e la scrittura (che sono delle tecniche) lo costituiscono troppo perché egli possa mai designarle come straniere. Egli non vede che il suo modo di pensare, di comunicare con i suoi simili, ed anche di credere in Dio sono condizionati da delle procedure materiali”.
La tecnica quindi partecipa in pieno a quella struttura dell’esperienza umana che lui chiama il “trascendentale storico” cioè la struttura dell’esperienza dei membri di una collettività inserita nella sua cultura, nell’epoca, nelle circostanze.
Noi siamo inseriti in un periodo di profondi cambiamenti, di cambiamenti che sono alla stregua, ma forse ancora più importanti, di quelli che segnarono l’avvento del periodo industriale nella storia umana. Dobbiamo porci al livello di analisi dei processi in atto.
La nostra generazione è un osservatorio privilegiato. “Le epoche come la nostra, di accelerato avvicendamento dei media, costituiscono eccezionali occasioni per cogliere la verità delle trasformazioni in atto”.
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